Ogni debolezza è una mortificazione della capacità
creatrice. Non vederlo costringe ad accettare come giusto il mondo
che c’è.
Serve
un dio ?
La
tecnologia è ontologicamente un dio, al cui potere vogliamo
genufletterci; la cui gloria vogliamo celebrare; alle cui soluzioni
aspiriamo; la cui verità superiore non discutiamo; la cui
mortificazione umanistica non sospettiamo; la cui tossicità non
immaginiamo.
Spesso,
quando non sempre, è disposizione comune far corrispondere e vivere
la tecnologia come progresso. Sarebbe anche vero, se non fosse
considerato l’unico, l’autentico e soprattutto il solo.
Nella
concezione della tecnologia sono insiti, impliciti, costituenti la
quadratura, il giusto e il perfetto, ovvero ciò che manca.
Abbracciandola, crediamo di poter indagare il mistero e, un
giorno,
darne risposta. Il pensiero e il sentimento che avvengono in noi a
causa del fideismo scientista di cui siamo protagonisti ne risulta
infettato. Una asintomatica ossessione per il modello tecnologico cui
dobbiamo tendere ci gonfia l’ego individuale, sociale, politico. In
nome del credito nei suoi confronti, non abbiamo incertezze se
accodarci esultanti al bene degli algoritmi, dei vaccini, della
digitalizzazione: più ce n’è, più tutto sarà facile, comodo ed
economico. In sella all’emozione digitale, l’arroganza umana
decuplica le atrocità che già in territorio analogico aveva
dimostrato di saper commettere.
Il
liberismo, l’individualismo, l’edonismo hanno liquefatto i valori
comunitari. Il legame con le origini della vita, di cui siamo
espressione, non è più affare che conti. Ciò che interessa
corrisponde all’egoismo. Abbiamo abiurato a qualcosa di superiore e
misterioso a favore di un Io
steroidizzato fino alla misura divina. Inconsapevoli di correre al
massimo su un binario morto, diamo tutto. Una corsa che ci offre la
possibilità di stimare la perdizione in cui viviamo, l’abrogazione
di noi stessi e tutto quanto crediamo superfluo al progresso
materiale.
“A
Oxford, tra gli anni cinquanta e sessanta dell’Ottocento, Ruskin
mise in pratica il precetto di entrare in contatto con il corpo,
guidando squadre di esponenti della gioventù dorata a costruire una
strada di campagna: le mani dolenti e callose il segno virtuoso
dell’essere in contatto con la Vita Vera” (1).
Strategica
mimesi
Il
potere tecnologico è il più occulto. Ma non è segretato. È
diffuso sotto il sole, è distribuito, accolto come manna dal cielo a
tutti noi. È in tutte le vetrine, è accessibile a chiunque. Chi
vorrebbe oggi rinunciare ai servizi tuttofare della tecnologia? Chi
non vedrebbe in quella rinuncia nient’altro che uno stupido
arretramento della qualità della vita?
Come
ciliegie a maggio, ci sembra un diritto averla e un dovere venderla.
Ma
quale progresso può esserci in una dipendenza? In ogni tipo di
dipendenza vive l’assoluta mortificazione della libertà, della
creatività, dell’autonomia, della forza, dell’invulnerabilità
degli uomini. Ogni dipendenza vive nutrendosi dell’energia che le
diamo e che ci succhia, sottraendola a quella forza e a quella
creatività che ci permetterebbero il senso di una vita piena, la
consapevolezza di realizzare la nostra natura.
Ogni
dipendenza azzera la profondità spirituale. Questa viene prima
denigrata, quindi dimenticata, considerata superflua, svuotata di
significato. La ragnatela dell’universo dell’uomo, composta
originariamente da infiniti filamenti, una volta dimenticata la
consapevolezza del legame con l’origine, ha perduto la sua
elasticità e potenzialità di farci percorrere l’infinito. Si è
ridotta a pochi aridi cavi economici e scientisti, che guidati dalla
visione di aver sbaragliato ogni nemico, stanno andando lentamente a
chiudersi su se stessi, senza neppure il sospetto che soffocheranno
il ragno.
“Tecnici
e utenti si preoccupano, giustamente, dei virus che possono
intrufolarsi nei computer; mentre vi è una ben limitata coscienza di
come lo stesso computer possa comportarsi da virus e intrufolarsi
nella società degli umani” (2).
Che
c’entro io con Mr Burbank Truman?
Ad
ognuno il proprio ragionamento su come sottrarsi a un destino nel
quale essere fuggevole e controllata comparsa della propria vita, ma
solido protagonista al momento degli acquisti. L’assuefazione è
tale che non ricordiamo più di fare riferimento a noi, al nostro
gusto e alle nostre esigenze. Li abbiamo sostituiti con quelli
offerti dai banchi dei commercianti, dalle sirene della pubblicità,
dal vero
giornalismo – quello disposto a farsi pagare per scrivere menzogne,
a seguitare a dormire sereno, anche davanti a scenari Assange.
Ora
crediamo di poter raggiungere i sogni acquistando merci, loro
indegne, destabilizzanti succedanee. Ora possono far tramontare il
sole e mandarci a nanna. Dire che la guerra è pace e sentirselo
replicare in coro dalla moltitudine che crede che questa vita sia
effettivamente la
vita.
Di come stiamo allo show
non interessa, se non in funzione di quanto possiamo consumare,
votare, costare. Siamo tutti uguali e, nonostante le nostre apparenti
libere stravaganze, tutti buoni e protagonisti del nostro
personalizzato Truman
Show.
Pilota
automatico
A
chi preferisce – leggi sceglie
– adeguarsi, adagiarsi protetto dall’effimero scudo dal solito
ritornello che
è difficile cambiare rotta,
che non
possiamo farci niente,
va fatto presente che non è quello il punto. Che portare
l’attenzione sulla difficoltà è la modalità sconveniente per il
cambiamento, personale o sociale che sia. Il punto è che la rotta è
sempre il risultato di una scelta. E che una scelta è sempre il
risultato di una fede.
Tuttavia,
c’è anche chi si avvede della trappola e pensa che, più
che adeguarti, che vuoi fare?
Smantellare
il sistema è difficile, impossibile.
Legami,
credenze e dipendenze sono le esche del Grande
Pescatore.
La logica di una misura di noi stessi limitata al modesto raggio
d’azione dei nostri più immediati ed egoistici interessi rende
possibile e vera quell’impossibilità, quel che
vuoi fare?
Pilota
manuale
Cambiare
diviene invece assolutamente accessibile e vicino –
indipendentemente dalla durata indicata dai calendari amministrativi
del mondo – semplicemente mettendosi in cammino, dando l’esempio,
lentamente auto-educandosi nel rispetto delle consapevolezze nuove,
avendo fede ed esprimendo la propria concezione senza proselitismo
positivistico. Quando si osserva che la meta è il percorso stesso,
si vede cosa comporta il cambiare e che, condividendo questa formula,
si può realizzare il cambiamento. E non servono consigli ed esempi.
L’esperienza non è trasmissibile. Coloro a cui dovessero servire
non replicherebbero che un modello. Serve invece ricreare, secondo il
proprio talento e propria misura.
Se
stiamo andando dove non ci piace, è nostra responsabilità cambiare,
come lo è se manteniamo lo status quo. Così infatti sarà, quando
dirigeremo verso mari non più di plastica, di falso progresso, di
opulenza, di miseria spirituale. Mari in cui le reti del Grande
Pescatore
avranno maglie inadeguate.
Una
grande opera comune, una piramide, per la quale forse, nella nostra
vita, non potremo che spingere per qualche metro uno solo dei macigni
che serviranno per erigerla.
Dov’è
il problema?
Non
sappiamo più cucinare il cibo, né coltivarlo o procurarlo; non
rispettiamo più il ritmo delle stagioni, con tutto il loro
significato per la vita terrena, e crediamo davvero se ne possa fare
a meno; ci ammaliamo e diamo la colpa all’età, al virus,
all’altro.
Il
nostro impegno è avere, imitare e invidiare chi ha di più, sentire
un fiotto di autostima davanti a chi ha di meno. Il nostro impegno è
donare uno spicciolo al semaforo e proseguire verso i fatti nostri,
lasciando che l’empatia con chi sta peggio vada a farsi benedire.
Del luogo dove origina l’ingiustizia si occuperà semmai qualcun
altro.
Sulla
crescente distanza dall’indipendenza non ci affrettiamo a
ragionare, a capire, a sentire, per permettere ai nostri figli di
avere le doti per vederla ridursi e, alfine, emanciparsene. A noi
basta il bonus, la furbata, lo sconto, la quieta infelicità. A tanto
siamo arrivati.
ChatGpt,
intelligenza artificiale, radio che si accende in automatico
all’avvio del motore, guida assistita, uteri affittabili, sesso a
gusto non sono che alcuni culmini della tecnologia mon
amour,
alcuni altari senza peccato, alcune discese verso l’auspicata
comodità. Tentacoli dai quali difficilmente ci si potrà liberare.
“Per
un numero sempre maggiore di persone l’illuminazione non fornita da
reti ad alto voltaggio e l’igiene senza carta velina significano
povertà. Aumentano le aspettative, mentre declinano rapidamente la
fiducia speranzosa nelle proprie capacità e l’interesse per gli
altri” (3).
Ma
è solo un assaggio. Insufficiente per cogliere e stimare quale
esiziale distanza dalla terra e da noi stessi abbiamo raggiunto; a
quale bordo dell’abisso siamo affacciati; quanto, ancora ridenti, i
nostri occhi non lo trovino orrifico, le nostre anime non chiedano
perdono e non si avviino a provvedere per riparare al danno compiuto.
Siamo
sensori e abbiamo disimparato a raccogliere i segnali del corpo e del
mondo. Imbrattati di falsi valori, non siamo più in grado di
sfruttare noi stessi, come se la conoscenza fosse fuori, nei libri e
in chi li ha scritti. Vibrisse incrostate di saperi, capaci ormai di
vibrare solo al comando di idee infiltrate, ci rendono disponibili a
crasse risate al cospetto di un rabdomante. Dovremmo invece evitare
d’intossicarle, per tornare a captare la conoscenza presente in
noi, nel mondo, per divenirla ed esprimerla. Questo è il problema.
“Dovendo
conviverci, l’uomo ha contratto l’abitudine alla tecnica,
arrivando a identificarsi con essa e a vederla come l’espressione
più significativa del proprio essere nel mondo. Ma ritenere la
tecnica la forma più alta dell’espressività umana è una svista
imperdonabile, che alla lunga l’uomo verrà chiamato a pagare.
Educato secondo una mentalità subalterna alla tecnica, l’uomo ha
imparato ad agire più che a essere, a cogliere le esteriorità più
che l’interiorità delle cose, a esternare più che a riflettere.
Il progressivo prevalere di una mentalità tecnica lo ha portato a
considerare tutte le cose, compreso se stesso, come frutto della
tecnica, vale a dire di una mente ingegneristica” (4).
Il
dono
È
che siamo polli da allevamento, spiriti obnubilati, merce. I giovani,
e non solo, sono soddisfatti di fare la pubblicità per una
multinazionale. Per pochi denari precari, svendono i loro migliori
sorrisi.
I
figli sono deboli. I padri anche. Le prospettive politiche, basate
sul diritto e non sulla natura, pessime. Cosa significa essere forti?
Non riguarda saper scaricare una motonave a spalle, riguarda avere la
capacità di riconoscere se stessi, le proprie doti e le proprie
debolezze, significa saper coltivare le une e affrontare le altre,
significa valorizzare quanto sentiamo e ridurre il monopolio della
razionalità e della sapienza di ciò che abbiamo anonimamente,
replicatamente appreso; significa libertà dalle ideologie e dagli
interessi personali; significa poter distinguere ciò che fa per noi
da ciò che è opportuno scartare; saper rinunciare, senza senso di
frustrazione e debolezza. Non invidiare, ma amare chi è meglio di
noi per coltivare quanto ci manca.
Compiremo
le scelte per donare un esempio di forza a chi verrà o daremo la
colpa a qualcosa per non esserci riusciti?
Lorenzo Merlo
Note
Richard
Sennet, L’uomo
artigiano,
Milano, Feltrinelli, 2008, p. 110.
Enrico
Grassani, L’altra
faccia della tecnica,
Mimesis, Sesto San Giovanni (Mi), 2002, p. 19.
Ivan
Illich, Disoccupazione
creativa. Un nuovo equilibrio tra le attività svincolate dalle
leggi di mercato e il diritto all’impiego,
red!, Cornaredo (Mi), 2013, p. 21.
Enrico
Grassani, L’assuefazione
tecnologica,
Delfino, Milano, 2014, p. 23 [Qui Grassani impiega il termine
tecnica nella sua accezione di tecnologia].