Il
quadro di riferimento
Nel
2012, le emissioni globali di anidride carbonica derivanti dalla
combustione di combustibili fossili hanno raggiunto il livello record
di 31,6 miliardi di tonnellate, un valore circa tre volte superiore
alla capacità naturale del nostro pianeta di assorbire questo
eccesso di emissioni attraverso gli ecosistemi vegetali terrestri e
marini (carbon sink)
e i processi di immagazzinamento naturale (carbon
stocks) come sostanza
organica nel suolo e negli oceani. Il 45% di tali emissioni proviene
dal carbone, il 35% dal petrolio e il restante 20% dal gas. Ma, se si
tiene conto delle emissioni, anche se minoritarie, degli altri gas
serra (come il metano, il protossido di azoto, i clorofluorocarburi,
ecc.), le emissioni globali, misurate come anidride carbonica
equivalente, sono ben superiori a 35 miliardi di tonnellate.
Poiché le capacità
del sistema terrestre (la geosfera, gli oceani, gli ecosistemi
terrestri e marini) di assorbimento dell’anidride carbonica
atmosferica e degli altri gas serra non sono infinite ma limitate, la
crescita continua delle emissioni provoca fenomeni di accumulo e, di
conseguenza, aumenta la concentrazione atmosferica di gas serra e in
particolare di anidride carbonica. Nel maggio 2013 la concentrazione
atmosferica di anidride carbonica ha raggiunto il livello record di
400 ppm (parti per milione). E’ il livello più alto mai raggiunto,
non solo rispetto all’epoca preindustriale (attorno al 1800) quando
vi erano 280 ppm, ma anche rispetto a tutti i secoli e i millenni
passati fino a circa un milione di anni fa (come ci documentano le
misure in Antartide) e perfino, probabilmente, a circa 20 milioni di
anni fa (secondo le più recenti ricostruzioni paleoclimatiche), in
cui i livelli di anidride carbonica atmosferica non hanno mai
superato 300 ppm.
Per avere un’idea di
cosa significa un livello così alto rispetto all’ultimo milione di
anni e perfino rispetto agli ultimi 20 milioni di anni, basta pensare
che l’uomo, inteso come “homo sapiens”, è
comparso sul nostro pianeta solo 100-200 mila anni fa, mentre i primi
esseri antropomorfi (homo erectus) sono comparsi
qualche milione di anni fa. In altre parole nessun essere umano, né
evoluto come l’homo sapiens, né antropomorfo come i primi ominidi,
hanno mai sperimentato valori così elevati di concentrazione
atmosferica di anidride carbonica come quelli che si sono verificati
in questi ultimi 200 anni, ma in particolare negli ultimi decenni.
Sono valori, infatti, che appartengono a epoche geologiche più
vicine a quelle dell’estinzione dei dinosauri avvenuta molte decine
di milioni di anni fa e non alla storia del genere umano.
Il riscaldamento
climatico globale, anche se ritardato rispetto agli aumenti di
anidride carbonica atmosferica, procede di pari passo. La temperatura
media globale in questi ultimi 100 anni è aumentata di circa 0,8 °C,
ma due terzi di quest’aumento sono avvenuti negli ultimi 30 anni. A
livello globale l’anno 2010 è stato l’anno più caldo, mai
verificatosi dal 1880 (da quando si hanno dati certi a livello
globale), seguito dal 2005 e dal 1998 e poi dagli altri anni tutti
appartenenti a quest’ultimo decennio, tanto che questi ultimi 10
anni del terzo millennio rappresentano il decennio più caldo di
tutti i decenni precedenti a partire dal 1880.
Tuttavia, il
riscaldamento del nostro pianeta non sta avvenendo né a un ritmo
costante con gli anni che passano, né in modo uniforme dappertutto
nelle differenti aree geografiche del pianeta. Il riscaldamento è
maggiore nelle aree polari che in quelle equatoriali, è maggiore sui
continenti che sugli oceani, è maggiore nei periodi invernali che in
quelli estivi, e, cosa ancor più rilevante, il riscaldamento
climatico è maggiore nell’emisfero nord che nell’emisfero sud a
causa del ruolo termoregolatore degli oceani che sono molto più
estesi nell’emisfero sud rispetto all’emisfero nord.
Per quanto riguarda
l’Italia, il riscaldamento climatico procede a ritmi più elevati.
In Italia la temperatura media nazionale è aumentata di circa 1,2°
in questi ultimi 100 anni e la maggior parte di questo aumento è
avvenuta dopo il 1980 con un ritmo superiore a quello medio globale,
un andamento che, comunque, è in coerenza con quanto sta accadendo
in l’Europa. Se a livello globale il 2010 è stato l’anno più
caldo, assieme al 2005, in una classifica di 130 anni (dal 1880), per
l’Italia l’anno più caldo rimane il 2003, seguito dal 2001 e dal
2007. L’anno 2012 che a livello globale si colloca solo al 10 posto
della serie storica mondiale che parte dal 1880, in Italia si
colloca, invece, al 4° posto nella classifica climatologica
nazionale che si basa su una serie storica molto più lunga e che
risale al 1800.
Ma l’aspetto più
clamoroso di questi ultimi dieci anni del terzo millennio è la
velocità del riscaldamento globale, piuttosto che il riscaldamento
climatico in quanto tale, accompagnato da un aumento dell’intensità
delle catastrofi climatiche che colpiscono il nostro pianeta sempre
più violentemente. A ciò bisogna aggiungere l’intensificazione
degli altri fenomeni connessi con i cambiamenti del clima, quali la
velocità di innalzamento medio del livello del mare (ora è a 3,4
mm/anno, quando solo alcuni anni fa era di 3,1 mm/anno e nei decenni
anteriori al 1990 procedeva a ritmi di 1,8 mm/anno), la velocità di
fusione dei ghiacci artici e di gran parte dei ghiacciai delle medie
latitudini (compresi i ghiacciai alpini), la velocità di
acidificazione degli oceani che insieme al riscaldamento delle acque
oceaniche sta accentuando i fenomeni di sbiancamento delle barriere
coralline, oltre che modificare gli ecosistemi marini.
Cambia
il clima, cambia il gusto del cibo
Se le cause principali
dei cambiamenti climatici derivano dalle emissioni di anidride
carbonica provenienti dall’uso dei combustibili fossili, non meno
importanti sono le cause derivanti dall’uso del suolo, dai
cambiamenti di uso del suolo e dalla deforestazione. Le emissioni di
gas ad effetto serra derivati dall’agricoltura e dalla produzione
agroalimentare sono, a seconda delle pratiche agricole, a livelli
compresi tra il 9% e il 15% delle emissioni totali. Ma se, da una
parte, l’agricoltura contribuisce ai cambiamenti climatici,
l’agricoltura è anche vittima dei cambiamenti climatici e non solo
in termini di danni alle rese agricole e alla produzione
agroalimentare, ma anche e soprattutto in termini di “gusto”,
cioè di modifica delle qualità organolettiche, degli aromi, dei
profumi, dei sapori e di tutte quelle caratteristiche del cibo che
dipendono dalle peculiarità del clima e delle caratteristiche
ambientali del territorio, oltre che dalla tipicità dei processi di
produzione e preparazione del cibo.
Con i cambiamenti del
clima la produzione agroalimentare, per non essere danneggiata, sarà
costretta a una serie di modifiche che possono riguardare le pratiche
agronomiche, a parità di colture, oppure sarà costretta a
modificare sostanziale la tipologia della produzione agricola e gli
ordinamenti colturali.
Nel primo caso, che
possiamo definire di adattamento congiunturale, gli agricoltori
dovranno rispondere alle pressioni del clima agendo sui periodi di
semina, di raccolta o delle altre lavorazioni intermedie, sulla
frequenza e sulla tipologia di ricorso ai trattamenti antiparassitari
o fertilizzanti, senza che vi siano rilevanti variazioni nel mix di
colture presenti in azienda.
Nel secondo caso si ha
invece un adattamento strutturale, e si dovrà necessariamente
abbandonare alcune coltivazioni non più adatte alle mutate
condizioni climatiche in favore di altre, che comunque devono
rimanere altrettanto interessanti per le caratteristiche biologiche e
per le mutate richieste da parte dei mercati. E’ evidente che nel
caso di adattamento strutturale le conseguenze investono tutta la
filiera agroalimentare.
Poiché i cambiamenti
climatici non producono unicamente un aumento delle temperature, ma
anche un’accentuazione degli eventi estremi, le coltivazioni
maggiormente soggette a una serie di “stress”, tra cui gelate
primaverili e ondate di calore, piogge intense o alluvionali
intervallate da periodi prolungati di siccità, attacchi parassitari,
ecc., gli adattamenti dovranno essere effettuati soprattutto
ricorrendo a miglioramento genetico, andando a selezionare varietà
opportunamente resistenti. Nel caso di adattamento strutturale appare
evidente che le ripercussioni saranno piuttosto importanti su tutto
il sistema alimentare e su tutti gli elementi collegati al settore di
produzione agricola primaria.
Appare fondamentale,
quindi, avviare metodi e modelli di sviluppo agricolo, agroalimentare
e rurale, efficienti e meno inquinanti, inseriti in modo integrato
nel contesto più generale dello sviluppo economico sostenibile e
indipendente dalla combustione di combustibili fossili. Ma appare
altrettanto fondamentale che i cittadini e i consumatori modifichino
alcune abitudini alimentari, dalla spesa fino alla cottura dei cibi,
affinché la produzione alimentare sia, da una parte meno impattante
sul clima, e dall’altra, meno vulnerabile ai cambiamenti del clima
compresi i cambiamenti delle caratteristiche organolettiche che
determinano il gusto e che dipendono anch’essi dal clima e
dell’ambiente. Che cosa possiamo fare?
Diminuire
l’impatto sul clima della produzione di cibo
La
produzione di cibo contribuisce alle emissioni di gas serra e ai
cambiamenti climatici in tre modi:
Le
pratiche agronomiche. Nell’agricoltura intensiva le
pratiche agronomiche normalmente utilizzate producono una rilevante
quantità di emissioni, non solo attraverso l’uso di combustibili
fossili delle macchine utilizzate nelle attività agricole, ma
soprattutto attraverso l’uso eccessivo di fertilizzanti e di
antiparassitari. I fertilizzanti azotati, per esempio, emettono
protossido d’azoto, un gas serra che ha un potere climalterante di
circa 300 volte superiore a quello dell’anidride carbonica.
Inoltre, l’uso eccessivo e prolungato di fertilizzanti degrada fino
a distruggere i processi biochimici naturali del suolo di accumulare
sostanza organica (humus) che ha la capacità di assorbire l’anidride
carbonica atmosferica e immagazzinarla nel sottosuolo. La zootecnia,
a sua volta, produce emissioni di metano, un gas serra con un potere
climalterante 23 volte superiore a quello dell’anidride carbonica.
Utilizzare cibo prodotto attraverso pratiche agronomiche e
zootecniche sostenibili che favoriscono i naturali processi
biochimici di fertilizzazione del suolo, non solo aiuta a ridurre le
emissioni di gas serra finanche ad azzerarle, ma facilita addirittura
l’assorbimento dell’anidride carbonica atmosferica (carbon
sink), perché un suolo ricco di sostanza organica elimina
perfino le emissioni di anidride carbonica provenienti da sorgenti
non agricole.
I
processi di trattamento o di trasformazione industriale dei prodotti
agricoli. L’industria agroalimentare, che si occupa
della lavorazione, trasformazione, conservazione e
commercializzazione dei prodotti agricoli, come qualsiasi altra
industria produce emissioni di inquinanti, oltre che di rifiuti. Gran
parte degli inquinanti atmosferici sono anidride carbonica e altri
gas serra. Inoltre, l’industria agroalimentare, per trasportare e
distribuire i prodotti ai punti vendita deve necessariamente usare
adeguati sistemi di imballaggio (“packaging”), cioè una gran
quantità di contenitori e involucri di plastica, carta e cartone,
per produrre i quali vengono emessi altri gas serra e rifiuti.
Utilizzare come cibo i prodotti agricoli senza eccessive
trasformazioni industriali, poco elaborati e non conservati, è molto
importante per ridurre le emissioni di gas serra e non impattare sul
sistema climatico.
Il
trasporto e la distribuzione dei prodotti agricoli. I
trasporti sono mediamente responsabili di circa un terzo di tutte le
emissioni globali di anidride carbonica e di altri gas serra e
contribuiscono in modo molto rilevante ai cambiamenti del clima. Gran
parte dei trasporti che avvengono ogni giorno sulle nostre strade con
i veicoli commerciali, ma anche per via aerea e marittima, sono
destinati a trasferire derrate alimentari da una parte all’altra,
non solo d’Italia o dell’Europa, ma perfino su distanze di decine
di migliaia di km, da una parte all’altra del nostro pianeta.
Utilizzare come cibo prodotti agricoli locali o provenienti da brevi
distanze dal luogo di consumo è fondamentale per ridurre le
emissioni di gas serra e l’impatto della produzione di cibo sul
clima.
Ridurre
la vulnerabilità ai cambiamenti climatici della produzione di cibo
La
produzione di cibo è vulnerabile ai cambiamenti climatici attraverso
due vie principali:
Le
risorse idriche. L’abbondanza di risorse idriche per
l’irrigazione è stata in passato uno dei fattori di successo nello
sviluppo dell’agricoltura intensiva e industriale, sia nella scelta
delle colture anche su terreni inadatti, sia nella programmazione
durante l’anno di semine e raccolti anche al di fuori dei normali
ritmi stagionali. Con i cambiamenti del clima tenderanno a
intensificarsi i fenomeni estremi, quali precipitazioni molto intense
e di breve durata (con forte ruscellamento superficiale) seguite da
più o meno lunghi periodi di siccità (con forti rischi di degrado
dei suoli). Il risultato è una insufficiente ricarica delle falde e
una minore disponibilità di acqua. A ciò bisogna aggiungere, specie
per i bacini idrologici dell’Italia settentrionale, la riduzione
degli apporti nivoglaciali a causa della riduzione dei ghiacciai
alpini. La produzione di cibo, così come la zootecnia che è un
settore a rilevante consumo di acqua quindi, dovrà evolvere verso
sistemi di uso efficiente dell’acqua e di riciclo dell’acqua.
Utilizzare cibo prodotto con un’agricoltura efficiente nell’uso
delle risorse idriche o ridotte necessità d’acqua e consumare
minori prodotti di macelleria, permette di prevenire le conseguenze
negative della carenza delle risorse idriche e aiuta la produzione
agricola ad adattarsi ai cambiamenti del clima.
La
biodiversità. I cambiamenti climatici influiscono
significativamente sulla diversità biologica giungendo a causare
anche fenomeni di estinzione di singole specie e profonde
modificazioni nella struttura e nelle funzioni degli ecosistemi e
nella loro distribuzione sul territorio, compresi gli insetti
impollinatori e i batteri fermentatori essenziali nella preparazione
di alimenti o di prodotti tipici come il vino. Utilizzare, quindi,
prodotti stagionali ma, soprattutto, tipici del territorio e della
biodiversità del territorio, aiuta l’agricoltura a mantenere la
qualità degli spazi rurali e ad aumentare la protezione degli
habitat naturali e del paesaggio. Valorizzare i prodotti alimentari
tipici del territorio è di fondamentale importanza per prevenire le
conseguenze negative dei cambiamenti climatici sulla produzione
alimentare.
In definitiva, la
produzione sostenibile di cibo non è solo un problema
dell’agricoltura. Spetta ai consumatori con le loro scelte
responsabili aiutare l’agricoltura e tutta la filiera
agroalimentare ad essere meno impattante sul clima, ma anche meno
vulnerabile ai cambiamenti del clima.
di Vincenzo Ferrara
(ENEA e Ministero Ambiente)
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