giovedì 10 aprile 2014

Alberto Meriggi: “Economia alternativa ed agricola e società solidale” - Treia. 25 aprile 2014 - Circolo vegetariano VV.TT. Festa dei Precursori


Treia - Campagna lavorata

Ringrazio l’amico Paolo che, ormai da anni, in occasione della “Festa dei Precursori” mi invita per avviare questo momento di riflessione e dibattito solitamente incentrato su un tema particolare. Il tema di quest’anno è, appunto: “Economia alternativa ed agricola e società solidale”. Un tema talmente forte e di straordinaria valenza attuale che non può essere affrontato da uno come me che è fuori da ogni competenza in materia, essendo io solo uno storico generico del Medioevo. 


Ma Paolo mi vuole sempre qui perché, essendo io un treiese doc, secondo lui, posso fornire qualche modesto aggancio, relativamente al tema in discussione, alla storia di Treia e del territorio circostante. E così ogni anno in questo modo proviamo a fornire agli ospiti qualche informazione in più sulla storia della nostra terra. 

Certamente questa volta l’operazione si presenta un po’ più complicata del solito per via dell’abbondanza di riferimenti riguardanti l’argomento, rintracciabili nel passato del nostro territorio. Se il tempo a disposizione me lo avesse consentito, come esempi di economia alternativa avrei potuto citare tanti riferimenti documentari riguardanti l’alto Medioevo, epoca contraddistinta da una marcata economia silvo-pastorale ben documentata anche in queste zone, basata essenzialmente su risorse naturali ritenute decisive per la sopravvivenza dell’umanità, ricavate dai pochi prodotti dell’orto, considerato zona franca, dalla caccia, dalla pesca, dall’allevamento brado e dalla raccolta dei frutti spontanei. 

Avrei potuto parlare del basso Medioevo, epoca in cui sono nati tutti i Comuni della zona caratterizzati dalla comparsa di nuovi mestieri cittadini per lo più riguardanti il settore artigianale, ma pur sempre legati, o collegati, alle risorse naturali provenienti dalla terra. Quello fu anche il periodo dello sviluppo del concetto di cittadinanza e di bene comune. 

Più tardi, in Età moderna, tra Seicento e Settecento, comparve in Europa quella combinazione di politiche economiche che coinvolse individui e gruppi di individui e che portava il nome di Capitalismo, caratterizzata dalla pratica del comprare e vendere beni capitali in libero mercato, compresa la terra. Un sistema economico il cui funzionamento si basava sulla possibilità di accumulare e concentrare ricchezza in una forma trasformabile in denaro e reinvestibile. Da allora il denaro, e dunque il pagamento, diventò sempre più lo strumento che regolava i rapporti tra gli individui e si sostituiva lentamente a quel sistema basato sulla solidarietà tra le persone che aveva caratterizzato le epoche precedenti. Un grande studioso francese scomparso appena qualche settimana fa, Jaques Le Goff, ha parlato per l’alto e pieno Medioevo di “tabù del denaro”. Effettivamente in quell’epoca il denaro non era ben visto come strumento di regolazione dei rapporti tra gli individui. 

La stessa Chiesa – per la verità più in teoria che in pratica – condannava il denaro, il suo uso esasperato come l’usura, e condannava tutti i lavori che portavano ad un profitto disonesto e ingiusto. Condannava il mercante perché non creava, ma spostava solo la merce e guadagnava soltanto con il comprare e vendere. Non c’era creatività e solidarietà, c’era solo speculazione. La Chiesa comincerà ad accogliere la possibilità di lavorare per un profitto solo alla fine del XIII secolo quando S. Tommaso d’Aquino elaborò la teoria cosiddetta del “giusto prezzo”. Sapete bene che ad un certo punto - diciamo grosso modo agli inizi del Trecento – i nuovi lavoratori delle città come mercanti, commercianti, imprenditori e cambiavalute, appaiono sempre più motivati dallo spirito di guadagno e dal desiderio di accumulare denaro che viene visto sempre più come mezzo di ascesa sociale e politica. 

Ma nelle nostre zone, nonostante tutto questo, atteggiamenti e comportamenti legati al principio di solidarietà riescono a sopravvivere a lungo, anche perché l’importante fenomeno dell’industrializzazione, con tutte le trasformazioni sociali ed economiche che procurò, arrivò molto in ritardo, non prima della fine dell’Ottocento. Non so dirvi se fu un bene o un male, ma qui da noi opifici e macchine stentarono a diffondersi anche perché la Chiesa – siamo nello Stato pontificio – frenò e rallentò ogni fenomeno legato alla modernità. Questa è cosa nota e documentata. 

Pensate che lo Stato pontificio non vide nessuna ferrovia nel suo territorio, se ne cominciò a parlare solo dopo l’Unità d’Italia. Dunque il mondo dell’economia restò a lungo legato al settore dell’agricoltura e alle sue usanze e tradizioni. Queste poggiavano su una concezione della vita basata sul reciproco aiuto e assistenza e sulla solidarietà. Da non dimenticare che il 90% della popolazione era rappresentato da appartenenti a classi sociali cosiddette inferiori i cui membri erano quasi tutti legati al lavoro dei campi. Per fare qualche esempio su questo e con riferimento al nostro territorio mi limiterò proprio all’Ottocento, secolo nel quale altrove in Italia e in Europa il cosiddetto capitalismo era ormai ben radicato, mentre qui resistevano con più vigore quei fenomeni che oggi possiamo individuare come distintivi di una economia alternativa allo stesso capitalismo. 

E allora proviamo a spulciare qua e là nel passato della nostra Treia dell’Ottocento, soffermandoci brevemente solo con qualche esempio sui settori economici più significativi di allora. Ebbene, abbiamo detto che il settore economico legato all’agricoltura era quello più presente. Il lavoro dei campi era totalmente improntato al principio della solidarietà. Il denaro che circolava era pochissimo. Va detto anche che vi era un livello di povertà assoluto quasi generalizzato e che questo spingeva, o quasi obbligava, al reciproco aiuto. Comunque sappiamo da diverse fonti, come le lettere del Gonfaloniere locale al Delegato apostolico, relative al 1829, che la produzione a Treia di grano, altri cereali e vino, non bastava a sfamare la popolazione perché i proprietari terrieri, essendo quasi tutti forestieri, portavano fuori Comune la maggior parte dei prodotti. 

E allora ci si aiutava tra vicini e conoscenti ancora col sistema dello scambio e baratto di prodotti. Chi aveva un po’ più di legna la barattava con un po’ di fieno, chi aveva del vino in eccedenza lo barattava con un corrispettivo in farina, ecc., ma spesso si barattava una derrata alimentare con ore di lavoro. Era questo il baratto più frequente. Insomma, nelle nostre campagne, e non solo, nell’Ottocento ancora esisteva una specie di codice etico antico che prevedeva un accordo, per la verità mai scritto, tra venditore e compratore, sul prodotto, o servizio, da offrire e quello da ricevere. Baratto, dunque, come forma elementare di commercio e di prestazione di servizi. 

In effetti la solidarietà si manifestava soprattutto nello scambio di servizi. Nei periodi cruciali dei lavori in campagna, aratura, mietitura, trebbiatura e vendemmia, era naturale aiutarsi tra vicini ma il prestare la propria opera per il bisogno di un altro non presupponeva il pagamento di quella prestazione con denaro, bensì col ricambiare tale prestazione lavorativa. Certo, vi erano delle regole comportamentali che oggi appaiono a dir poco assurde. La prestazione offerta da un uomo doveva essere ricambiata da un altro uomo o tutt’al più da due donne, una sola non bastava. 

La solidarietà si manifestava nei momenti più intensi di lavoro, nei tanti momenti di difficoltà, ma anche in quelli normali del viver quotidiano. Quando a novembre si uccideva il maiale, lo scannatore che solitamente era uno che faceva quel lavoro per l’intera contrada, non si faceva pagare in denaro, ma con un po’ di sangue dello stesso animale ucciso. Nell’ambiente degli artigiani la solidarietà e il baratto erano ugualmente praticati e quasi sempre sostituivano il pagamento in denaro, soprattutto nei rapporti che tali lavoratori avevano con la gente di campagna. Va detto che l’artigianato e l’industria erano attività praticate in proporzione alle materie prime esistenti. 

Non vi era importazione. Un po’ di denaro circolava a singhiozzo all’interno delle piccole attività industriali di Treia. Salariati e operai, maschi e femmine, erano pagati in moneta. Ciò avveniva nelle due filande locali in una delle quali, la Filanda Ciceri, nel 1888 le lavoratrici fondarono la prima Società Operaia Femminile delle Marche e per prime, nella regione, riuscirono a percepire una pensione alla fine dell’età lavorativa. Un sistema di mutuo soccorso che si tramandava fin dal tempo delle consuetudini e norme statutarie delle confraternite medievali locali che garantivano assistenza anche economica agli iscritti. 

Quelle filande, che lavoravano soprattutto seta, dipendevano direttamente dalla produzione di foglie dei gelsi del territorio circostante. Un’indagine del Coppi rivela che a Treia nel 1842 vi erano ben 630 piante di gelsi, i cosiddetti mori. Senza di essi quelle filande non avrebbero potuto esistere. L’artigianato era sviluppato nelle forme più comuni. A Treia vi erano bravi sarti, calzolai, falegnami, maniscalchi, cordai, vasai e muratori. Lavoravano di più presso le abitazioni dei clienti che in bottega dove invece erano impegnati continuamente i familiari e qualche garzone. 

I sarti confezionavano vestiti su misura recandosi, non più di una volta l’anno, presso le famiglie di campagna per confezionare qualche indumento con le stoffe di canapa (dette pezze) che erano state tessute al telaio dalle donne di casa. Spesso per completare il lavoro si fermavano anche a dormire. Non pretendevano denaro ma derrate alimentari: uova, grano, polli, ecc. 

Analogo ragionamento lo si può fare per i calzolai, i cordai e i maniscalchi. Questi ultimi si recavano in campagna per la ferratura degli zoccoli di buoi e cavalli e per questo lavoro ricevevano un compenso in prodotti dei campi o della corte. 

Un simpatico documento del 1851 riferisce di una denuncia di un calzolaio nei confronti di un contadino che di notte, mentre lui dormiva nella stalla, gli aveva rubato “ più manciate di semenze”, che non erano semi, ma piccoli chiodi. Attenzione! La quantità di prodotti dati come paga non era discrezionale, vi erano delle consuetudini precise da rispettare che venivano confermate con un accordo fra le parti prima di iniziare il lavoro. 

Nella “Memoria sopra i requisiti di Treia”, una relazione del 1888, si legge che vi era anche un buon numero di “Linaiuoli e Canapini” che avevano bottega in paese ma che anche loro giravano per le campagne con lo stesso sistema remunerativo. Gli stessi mugnai macinavano i cereali trattenendo come paga una quantità di farina considerata in rapporto alla quantità del cereale macinato. Era una pratica che risaliva alla normativa presente negli statuti medievali. 

Credetemi, potrei continuare a lungo documentando episodi di questo genere anche per altri settori economici, ma il tempo a disposizione non me lo consente. Vorrei chiudere con una riflessione molto personale: sono bastati questi pochi esempi per dimostrare che qui a Treia, e direi in tutta la regione, fino a 40/50 anni fa, il capitalismo non aveva completamente soffocato forme di economia ad esso alternativa che avevano resistito perché fortemente consolidate nella cultura e nella mentalità della società civile. Io, da studioso del Medioevo, devo riconoscere che nel passaggio dal Medioevo alla Modernità la natura è scomparsa dall’orizzonte delle scelte economiche e politiche, come è accaduto all’agricoltura contadina nel secolo scorso. 

La sottovalutazione della natura ha avuto effetti devastanti e duraturi nel tempo, come l’introduzione della chimica nelle coltivazioni e l’impiego di tecnologie pericolose e sostanze cancerogene nei luoghi di lavoro. Non mi prendete per un fanatico del Medioevo o del passato in genere, ma l’esperienza europea del Medioevo e, se volete, quella attuale dei paesi del sud del mondo, propongono elementi utili a comprendere come i beni naturali potrebbero tornare in auge ed essere riproposti per superare l’attuale crisi del sistema capitalistico. E, addirittura, questa crisi potrebbe rappresentare l’occasione per rilanciare le esperienze storiche di autoregolamentazione delle risorse locali di cui sopra ho parlato. 

Credo che il cosiddetto progresso non debba per forza essere identificato con il “nuovo”, ma come un misto di presente e passato.

Alberto Meriggi







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Mio commentino: "Perfetto! Me lo sono letto tutto d'un fiato  questo intervento di Alberto Meriggi  e l'ho trovato perfetto, in piena sintonia con quanto vogliamo significare con la tavola rotonda  del 25 aprile. Anzi direi di più, con l'intera giornata, tutta tesa a celebrare il senso della comunità solidale (con canti, passeggiate, raccolta erbe, condivisione di cibo e bevanda, etc.).  Sono certo che questa introduzione  potrà sollecitare riflessioni e interesse sul tema trattato."  (Paolo D'Arpini)

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