Supponiamo che il produttore venda direttamente parte della
merce sul mercato locale, ad esempio nel proprio comune. Ciò gli
consente di vendere dei prodotti a un prezzo, supponiamo, che sia il
50% di quello comunemente praticato al dettaglio nei negozi, ricavando
(se usiamo la stima generica del 5% adottata prima come semplicemente
indicativa) 20 volte di più che vendendo all'ingrosso. Ciò significa
che vendendo appena 1/20 della sua produzione sul mercato locale
raddoppierebbe il proprio ricavo complessivo. Con grande guadagno
anche dell'acquirente, che otterrebbe la merce a metà prezzo rispetto
a quello usuale, semplicemente acquistando prodotti locali.
"Prodotti locali" è una espressione che suona un po' insolita
nell'epoca della propaganda globalista, ma se distinguiamo la vita
reale dalla pubblicità constatiamo che il nostro agire effettivo è
locale, non "globale", sicchè non c'è nulla di anomalo nell'immaginare
che tutto quanto possa limitarsi a transazioni materiali locali venga
realizzato.
Si tratta del concetto di "spesa a km zero", che richiede, si badi
bene, non una legislazione o iniziativa politica, bensì solo
organizzazione dal basso.
Questo concetto di economia locale beneficia, dove lo si realizzi, non
solo il produttore e il consumatore (il primo guadagna di più, il
secondo spende di meno), ma anche la società intera. Infatti
diminuisce la dipendenza dell'economia reale dal petrolio, uno dei
problemi sempre più dannosi delle nostre attività commerciali. Questa
dipendenza è dannosa dal punto di vista del costo (sempre maggiore men
mano che gli idrocarburi diventano rari e si esauriscono) nonché a
causa dell'inquinamento prodotto; eppure tale dipendenza è in parte
del tutto superflua, quindi tutte le iniziative che diminuiscano il
volume di trasporti sono da considerarsi benefiche per la collettività
(salvo per chi voglia ignorare che il XX secolo è il primo periodo
nella storia dell'umanità che abbia provocato cambiamenti globali
nella qualità dell'aria stessa che respiriamo).
In un suo lavoro degli anni '90 ("Economia all'idrogeno") Jeremy
Rifkin aveva fatto notare che il cibo prodotto secondo l'attuale
procedura industriale standard richiede, a parità di calorie fornite,
10 volte più consumo energetico di quello prodotto con i metodi
agricoli pre-industriali. Si può provare ad obiettare che in tal modo
si fornisce lavoro a 10 persone invece che ad una sola, ma ciò risulta
insensato se consideriamo che le altre 9 persone potrebbero essere
impiegate in altre attività produttive utili. Naturalmente potremmo
discutere il fatto che uno o due individui (oltre al produttore)
potrebbero lavorare per controllare e garantire la aumentata qualità
igienica dei prodotti, ma certamente non ha utilità reale trasportare
il cibo per centinaia o migliaia di kilometri quando esso vada a
sostituire analoghe produzioni locali.
Personalmente abito nel centro storico della mia città, una zona che
con il tempo si è trasformata ristrutturandosi come costoso sito per
ricchi (ma non era così alcuni decenni or sono), e i negozi, inclusi
quelli alimentari, vendono a prezzi tendenzialmente cari. Tuttavia,
che utilità reale può mai avere disporre a caro prezzo di cipolle
siciliane al posto di quelle locali ? Solo un fruttivendolo, nella
zona circostante, mette in vendita una grande quota di prodotti
locali, ma io non vedo beneficio alimentare nelle esposizioni di
frutta proveniente addirittura dal Sudamerica, mentre capisco che il
mondo industriale dei trasporti e dei petroli ci guadagna.
Dunque, quanto sarebbe meno costosa la nostra spesa, e quanto più
redditizia la vendita dei produttori, se la maggior parte dei prodotti
alimentari fossero di produzione locale, con compravendita quanto più
possibile diretta ?
Questo concetto viene evidenziato abbastanza spesso da economisti come
Rifkin, ma non è certo nuovo. Quando ero studente universitario
ricordo di avere visto varie volte i mercatini e banchetti di membri
del movimento di contestazione, che organizzavano appositamente
vendite dirette di merci dal produttore al consumatore (si trattava
soprattutto di cibo), per dimostrare quanto il loro costo poteva
essere inferiore.
La medesima idea può essere applicata anche ad altri settori
merceologici, estendendola a tutte le disponibilità commerciali di
produzioni locali. In questo modo ci troviamo a risalire ancora
all'indietro nel tempo, fino all'idea di "economia dei villaggi" di
Mohandas Gandhi: tutto ciò che può essere prodotto localmente (ed è
molto, contrariamente a quanto crede ci sia assuefatto ai modelli
industriali odierni!) dovrebbe essere acquistato localmente,
aumentando quindi l'autonomia e indipendenza delle comunità.
Senza entrare nei dettagli, faccio presente che si tratta di una idea
tutt'altro che banale o puerile, ed anzi, si trattò di uno dei punti
di forza con cui il movimento gandhiano riuscì ad organizzare vaste
forme di boicottaggio contro l'economia imperialista inglese, fino a
rendere impossibile la permanenza in India della classe dominante
coloniale di quello che era stato fino a poco tempo prima il più
potente impero del pianeta.
Ci sono dunque molti motivi per considerare le numerose possibilità di
ri-organizzazione di molte attività economiche su base locale, anche
come costruzione di indipendenza contro la globalizzazione
dell'economia delle multinazionali imperiali.
Ma tutto questo può sorgere e svilupparsi solo a partire da un
movimento di coscienza, iniziativa e attività popolare che sorga dal
basso, non certo attraverso le politiche istituzionali ampiamente
corrotte e lontane dai veri bisogni del popolo.
Tashi Delek, Shanti Om,
Sarvamangalam
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