martedì 30 giugno 2015

Appignano - Bioregionalismo, storia e cultura locale nell'intervento di Alberto Meriggi al conferimento della cittadinanza onoraria, il 27 giugno 2015




Signor Sindaco, o meglio, caro Osvaldo, signori consiglieri, autorità, colleghi, cari Appignanesi. Immagino che dovrei dire cose solenni e memorabili in una circostanza come questa, in un simile ambiente, di fronte a persone qualificate ed amiche, tanto, troppo, affettuose nell’enfatizzare ciò che io ho fatto per Appignano. Invece tengo a mia disposizione una sola parola, usuale e disadorna: Grazie! Ad essa affido i miei sentimenti che in questo momento si accavallano mescolando gioia, affetto, riconoscenza, procurandomi commozione ed emozione. Grazie dunque al Sindaco Osvaldo Messi, all’assessore alla cultura Vittoria Trotta, a tutta la Giunta e a tutti i consiglieri per aver voluto concedermi questo onore che tanto mi inorgoglisce, perché così grande e inaspettato e anche sproporzionato rispetto a quello che io ho fatto. La mia riconoscenza si amplifica e la decenza mi fa arrossire e chinare il capo se penso che prima di me tale riconoscimento Appignano l’ha conferito solo ad un importante e grande personaggio qual è stato il Prof. Luciano Chiappini del quale, al tempo della redazione della Storia di Appignano, ho avuto il piacere di apprezzare le doti umane, il suo magistero e la grande professionalità. Non nascondo che fa molto piacere trovarsi in tasca un titolo non inflazionato, ma questo procura anche un po’ di timore.

Ma un grazie anche a tutti coloro che in questi venti anni di rapporti con Appignano mi hanno gratificato con la loro stima pensando a me per avviare un percorso insieme nella vita culturale di Appignano. Penso alla prima persona che mi contattò per redigere una storia locale, la signora Zelia Cammarata, allora assessore, poi all’assessore Daniela Smorlesi per proseguire nello stesso cammino che finalmente raggiunse l’obiettivo con il Sindaco Maurizio Raffaelli e il suo vice e assessore Mario Gasparrini. Una lunga vicenda quella della redazione della Storia di Appignano, tanto da poterci scrivere sopra una storia della storia. E poi la vicenda del libro sugli Statuti, impresa sollecitata da Raffaelli e Gasparrini, avviata con Osvaldo Messi e l’assessore Luca Cerquetella e portata a compimento dalla passata amministrazione del sindaco Messi e dell’assessore Zepponi, con la pubblicazione del corposo volume presentato qui dall’illustre Prof. Mario Ascheri. Negli stessi anni l’allora presidente dell’Irca, Giancarlo Gagliardini, che ringrazio, mi affidò la curatela di un volume sulla famiglia Falconi.

Nel dire grazie non posso dimenticare persone che mi sono state vicine con suggerimenti e aiuti come Mario Buldorini e Roberto Bronzi, anche loro appassionati di storia locale e autori di interessanti ricerche e pubblicazioni. Voglio anche ricordare gli studenti universitari di Appignano che nel tempo mi hanno chiesto la tesi e si sono laureati con me, contribuendo a tenere sempre vivo in me il legame con le vicende storiche di Appignano. Mi piace ricordarli: Carla Calamante, Katia Grassi, Francesca Giuliani, Silvia Del Mastro, Daniela Smorlesi e don Claide Tarabelli che non è più con noi e che ricordo con tanto affetto. Costoro per primi dovrebbero tenere viva la fiaccola della passione per la ricerca sulla storia di Appignano e soprattutto coloro che oggi sono insegnanti dovrebbero stimolare altri giovani a proseguire sulla strada da loro intrapresa.

Non posso dimenticare le affettuose attestazioni di compiacimento, quando si è diffusa la notizia di questo conferimento, inviatemi da parte di amici e conoscenti di Appignano. Cito solo due persone che si chiamano allo stesso modo ma che, credetemi, per questa vita non troverete mai insieme nella stessa lista in una elezione amministrativa: sono Mario Buldorini e Mario Gasparrini. Il primo, avvezzo a scrivere e pubblicare anche poesie, appena conosciuta la notizia del conferimento ci ha scritto sopra una simpatica poesia in dialetto, il secondo mi ha inviato subito messaggi affettuosi e di congratulazione, e come loro anche altri.

Ci tengo a dire subito che la cittadinanza di Appignano che oggi mi viene conferita la considero come una legalizzazione di qualcosa che dentro di me già c’era. Consentitemi una battuta: se mi aprite il costato vedrete che dalla parte del cuore c’è scritto “Alta Pinus”, come nel vostro stemma. Scherzo ovviamente, ma fino ad un certo punto perché, a pensarci bene, come può uno che è nato e vive a Chiesanuova di Treia, a quattro chilometri da qui, non sentirsi anche un po’ di Appignano, questo non solo per la vicinanza, ma anche per una naturale omologazione tra le popolazioni, consolidata nel tempo e fatta di continui rapporti fra le persone, di interessi in comune, di amicizie e parentele. Se c’è un confine giuridico tra il Comune di Treia e quello di Appignano, presente sulle mappe, esso di certo non è presente nell’animo delle persone. 

Venendo in qua i Treiesi che stanno dopo il ponte detto delle tavole forse si sentono più di Appignano che di Treia. Del resto in alcuni periodi del passato Treia e Appignano sono state un tutt’uno e ancora oggi, venendo da Chiesanuova, un confine visibile non c’è, non c’è un ruscello, non c’è un fossato, non c’è un ponte. Se recupero i miei ricordi d’infanzia, anche se un po’ sbiaditi, risento ancora mio padre o mio nonno, che mi dicevano che Appignano stava dopo la curva “de Jometta”, quasi ad indicare l’inconsistenza di un confine legato all’esistenza terrena di una famiglia o di una persona. Ma attenzione, il nome Appignano non risuonava mai per intero in quelle parole. Appignano, pronunciato per intero, era un nome che allora era appannaggio solo dei pochi appartenenti alla classe dei colti e di quelli un po’ snob; per noi di campagna, e un po’ per tutti, questo paese era semplicemente Pignà e, qualche volta, al di là del confine, per indicarlo non si usava nemmeno il nome spezzato, bastava la burla che indirizzava verso “lu portu”, un appellativo antico che indicava il paese, frutto di una canzonatura la cui origine ha visto complici anche i Treiesi, per fortuna unitamente ad altri.

Oggi, in una giornata per me tanto importante, i ricordi si accavallano e affiorano nella mente tante testimonianze dell’antico legame tra la mia famiglia, me stesso e Appignano. Alcuni ricordi sono rimasti fissi, indelebili, impossibile da cancellarli e capaci sempre di suscitare tenerezza e nostalgia, come quando nella mia famiglia già a Pasqua si cominciava a valutare lo stato fisico delle ochette e delle paperette per capire se erano pronte per essere vendute il giorno della grande fiera di Appignano del 29 aprile, da noi in campagna conosciuta come fiera delle ochette. E quella mattina, tanto attesa, partivo con i miei, carichi di piccole ceste piene di animaletti da vendere, il cui ricavato veniva subito destinato all’acquisto di cose modeste, ma necessarie per il vivere quotidiano di una famiglia di contadini. Qualche spicciolo non avanzava mai, ma alla fine un soldino accantonato da mia madre quasi di nascosto, saltava fuori ed era il prezzo di un regalino per me che io sceglievo tra la sterminata moltitudine di coccette disseminate lungo borgo S. Croce. La più grande ricchezza che da secoli avevate. A me bastava una campanella di coccio o un fischietto e se andava bene ci usciva anche un piccolo salvadanaio, essendo stato rotto la sera prima quello vecchio, che in teoria era solo mio e il cui contenuto era promesso a me, ma a me non arrivava mai. In una situazione di povertà tutto diventava utile per tutti.

Quello non era solo il giorno della fiera, era anche un giorno di festa. Un giorno nel quale si tentava di alleviare la dura fatica di sempre e le pesanti rinunce. Gli uomini potevano concedersi un bicchiere in più e le donne trattenersi davanti alle bancarelle e scambiare convenevoli con le conoscenti. E di sicuro qualche conoscente di mia madre le avrà posto la fatidica domanda: “do’ vai co’ su fetò?”, u fetò ero io che di certo avrò posto subito a mia madre l’altrettanto fatidica domanda: “ o ma’ ca ditto quella? E mia madre mi avrà spiegato che se io a Chiesanuova ero un frichì a Pignà ero un fetò e le frichine erano fetacce. Solo alcuni decenni dopo ho capito che ad Appignano si parlava un po’ latino tutti i giorni, perché quel fetò derivava da fetus e capii anche perché gli animali nelle nostre stalle non partorivano, come diceva la maestra a scuola, ma fetavano. Dunque una straordinaria autonomia di linguaggio tutto appignanese sciorinato con una cadenza unica nella zona. Molto più tardi mi sono reso conto che quello forse poteva essere un elemento di confine tra Appignano e le zone limitrofe come la mia, ma non era un ostacolo. Un patrimonio prezioso, con una sua giustificazione scientifica, che determinava l’identità di Appignano, ma che ormai è andato perduto.

Durante l’anno, per le necessità primarie, nella zona di Chiesanuova le famiglie frequentavano soprattutto Appignano perché ci si poteva arrivare in minor tempo e con meno fatica rispetto a Treia. La mia famiglia in particolare poteva contare qui ad Appignano su una vasta rete di parentele tra i piccoli commercianti, e il rivolgersi a loro poteva garantire un occhio di riguardo sulla merce da acquistare e soprattutto la speranza di ottenere un piccolo sconto. E allora oggi riaffiorano nella mia mente nomi curiosi che sentivo pronunciare spesso dai miei con espressioni tipo: “gimo da Tetella”, Tetella era una signora anziana, nostra parente, che gestiva nel borgo un piccolo emporio dove c’era di tutto, dalla pasta allo zucchero, dal sale al carbone. E riaffiorano altri nomi legati a Tetella: Flora, Fiume, immagino in memoria delle gesta di D’Annunzio e non del Monocchia che scorre qui sotto, e poi Lambì e Silvé, nomi spezzati che si adeguavano allo spezzamento di Pignà, ma che apparivano unici, indispensabili e non sostituibili per descrivere una identità, un carattere, una fisionomia. Tetella era sorella di Peppe de Scattulì, rappresentante di un altro filone nel guazzabuglio degli intrecci del parentado. 

Ricordo il curioso fazzoletto al collo, indossato anche d’estate, da un altro parente: Ristide de Giachetta, il cui figlio e figlie sono ancora qui. E che dire di Popò, un altro parente la cui moglie non poteva che essere per tutti la Popona. Popò vendeva casalinghi nella cui bottega i miei si recavano di rado per comprare piatti, bicchieri e qualche pentola che nell’indicarla non era mai pentola, ma sempre cazzarola e solo raramente assurgeva al rango di tegame. Più o meno quelle stesse botteghe rifornivano di brocche, brocchetti, bottiglie, vasi da notte e scaldaletti, questi ultimi detti monache, le quali per procurare l’effetto desiderato, sotto le lenzuola si dovevano unire al prete. Ma non c’era niente di sconveniente, era l’unico modo per riscaldarsi, ma le allusioni che i grandi facevano al riguardo, le ho capite solo dopo molti anni. Da un altro parente appignanese di nome Livio i miei compravano le famose pezze di stoffa da portare al sarto per confezionare qualche indumento, ma questo accadeva non più spesso di ogni morte di papa.

Mi piace aprire una parentesi per dire che l’antica rete di parentele, più o meno strette, non si è esaurita, ancora oggi è così, qui ad Appignano vivono gloriosi rappresentanti della vecchia guardia dei Meriggi, a Treia non ci sono, e qui sono presenti anche parenti del ramo di mia madre, gli Orsetti. Affetti che si estendono anche nella sacralità del Cimitero dove riposano altri parenti e anche i miei nonni materni. Molti dei vivi li vedo qui e li saluto.

Riferivo prima del passato e mi soffermavo su nostalgie e ricordi riemersi in me da un tempo che non c’è più. Un tempo ben descritto con un po’ di rimpianto da Mario Buldorini nel suo bel libro “Versacci appignanesi” e da Anna Zanconi in “La casa dalle persiane rosse” e in altri scritti. Ricordi che, per il semplice fatto di essere ben fissati nella mia mente, testimoniano l’esistenza di un vincolo stretto e antico tra me e questa comunità. Del resto poteva essere solo così perché a ben vedere io, appena nato, la prima persona che ho visto era di Appignano, la levatrice Liana e il primo medico che mi ha curato è stato il dott. Giuseppe Falconi, appignanese, egli e il fratello Giacinto erano anche i padroni del terreno di Chiesanuova dove io nacqui mezzadro. Ricordo ancora mio nonno che si agitava tutto, togliendosi il cappello, quando sentiva il clacson della giardinetta di Giacinto che in quel modo si annunciava un chilometro prima di arrivare. Meno traumatiche erano le visite del dott. Giuseppe che si muoveva con la sua fiammante Giulietta. E dopo il medico padrone fu la volta del medico pediatra, il dott. Massaccesi, sempre di Appignano, il cui nome Raul, a casa mia fu trasformato subito in Raole. 

Ma mi fermo qui perché se descrivo tutti i personaggi e gli aneddoti che di tanto in tanto mi ritornano in mente dovrei dilungarmi per ore e soffermarmi sul fattore, sul compratore delle vacche e su quello dei maiali, sul padrone della trebbia e su tanti altri, tutti personaggi di Appignano che nel tempo hanno avuto a che fare con la mia famiglia, come più di recente il dott. Marzio Milesi, con i suoi inseparabili pantaloni e stivali alla cavallerizza. Anche per questo, e non solo, Appignano non l’ho mai sentita estranea o indifferente.

Sono ricordi di un’epoca che, a guardarla con gli occhi di oggi, non appare lontana dalla fine della guerra, erano gli anni Cinquanta, periodo vicinissimo alla fine della guerra, ancora segnato da divisioni sociali nette, rigorose e dalle conseguenti palesi ingiustizie: da una parte ancora qualche nobile e diversi proprietari benestanti e dall’altra la gente comune, forse non sempre misera, ma povera sì e in continue angustie per il pane quotidiano. Ancora ricordo i racconti che riferivano di situazioni di assoluta povertà soprattutto della gente del centro abitato, una povertà però sempre vissuta, qui ad Appignano, con tanta dignità.
Ma oggi, in questa circostanza, desidero sottolineare un aspetto che io ritengo di notevole importanza e che non può essere sottaciuto. Dalla povertà e anche dalla miseria gli Appignanesi hanno avuto la forza di riscattarsi in fretta, più rapidamente di ogni altra cittadina della zona, distinguendosi su tutti nel giro di pochi anni per intraprendenza, capacità, voglia di sacrificarsi, impegno, iniziativa e creatività, elementi che hanno permesso a questa comunità di realizzare un progresso economico e sociale fino a qualche anno prima neppure lontanamente immaginabile. E di certo la locale classe dirigente di allora seppe anticipare quel tipo di politica di cui oggi in Italia si parla molto, ma che si stenta ad applicare: la politica del fare.

Forse qualcuno, in questo momento, pensa che sto indulgendo alla retorica in un giorno di complimenti. Non è così! Basta pensare ad un solo fatto, al nascere di quella industria del mobile tutta frutto dell’iniziativa locale che ha portato lavoro per Appignano e per i paesi vicini. Forse prima che nel Fabrianese sorse qui la figura del lavoratore cosiddetto metalmezzadro perché si divideva tra campagna, fabbrica e famiglia. Io mi accorsi di questo quando, ormai adolescente, ascoltavo in famiglia, ma anche in parrocchia e al bar (che non era ancora il bar ma solo il caffè) -ascoltavo dicevo- i ragionamenti degli adulti, tutti all’insegna dell’ammirazione per quello che avevano saputo fare gli Appignanesi, a differenza di altre comunità della zona che invece assistevano quasi impotenti ad una emorragia di popolazione verso la crescente zona calzaturiera. E mi accorgevo che a volte quella sincera ammirazione era anche condita da un briciolo di invidia per quella rapida crescita di questa comunità. E credetemi, ancora oggi, quando fuori di qui si parla di quei tempi, quell’ammirazione persiste e quello slancio degli Appignanesi verso il progresso e il benessere è ancora universalmente riconosciuto e additato come esempio.

E dunque, a ragione, il senso comune e la mentalità collettiva, dal dopoguerra ad oggi, hanno esaltato per Appignano soprattutto il lavoro e il benessere sociale, due settori in cui la cittadina è stata, ed è, all’avanguardia. C’è un rumore che tutti i giorni rammenta questo agli Appignanesi: alle otto del mattino e a mezzogiorno dal Comune suona ancora la sirena, a ricordare lo scandire dei tempi del lavoro nelle fabbriche, e nessuno lo avverte come fastidio, ma come ricchezza. E non mi pare che in altre località della zona sia presente questa usanza.

Cittadina del lavoro, dunque, ma va anche detto che per stare al passo con i tempi e per rispondere sempre prontamente alle sollecitazioni del progresso, Appignano ha dovuto costantemente guardare avanti, al futuro, aggiornarsi, magari sacrificando per anni la rivalutazione del proprio passato e delle proprie tradizioni. Forse più mobili che libri, ma anche qui c’è stato un immediato recupero grazie alla sensibilità, intelligenza e lungimiranza delle amministrazioni comunali che si sono susseguite da venti anni ad oggi, le quali hanno capito che se era vero che Appignano aveva per vocazione il pensare al futuro, era altrettanto vero che quel pensiero non poteva prescindere da quelle radici che traggono proprio dal passato la loro linfa vitale. In effetti avere a disposizione per la cittadinanza libri sulle proprie radici è indispensabile per ogni paese che vuol continuare ad essere comunità e non si può essere comunità senza avere coscienza della propria storia.

E a proposito mi fa piacere sottolineare un aspetto a onore e merito di Appignano che a me pare non trascurabile. In anni di difficoltà a livello di risorse per tutti gli enti locali, le amministrazioni di Appignano sono riuscite a muoversi per la cultura, settore sempre tra i primi ad essere taglieggiato. Io posso testimoniarlo perché in ogni circostanza è stata sempre Appignano che mi ha invitato a collaborare su progetti ben delineati, non mi sono mai fatto aventi io chiedendo e proponendo. Questo, ancora una volta, testimonia la sensibilità e la volontà delle amministrazioni appignanesi nel voler recuperare le proprie radici e di rivalutare il proprio patrimonio storico e culturale. Ed è cosa rara che i libri pubblicati siano stati donati a tutte le famiglie.

E allora permettetemi di rivolgere a tutti gli Appignanesi presenti una preghiera e di chiedere a loro di procurarmi oggi un altro motivo di soddisfazione: portate a casa i libri sulla storia di Appignano, soprattutto quello verde sugli statuti che non è stato molto divulgato, il Comune ne offre una copia ad ogni famiglia e, soprattutto, leggeteli, perché in quelle pagine ci sono le origini della vostra identità e in quelle righe c’è scritto come voi Appignanesi, nel corso dei secoli, attraverso sudori, sacrifici, ma anche gioie e soddisfazioni, siete diventati così come oggi siete, e da quelle righe emerge l’anima e lo spirito che vi contraddistinguono, appunto, come Appignanesi.

Io da quando ho cominciato a frequentare Appignano con una certa assiduità ho avuto la conferma di quanto da sempre ho sentito dire: Appignano effettivamente offre di sé l’immagine di una cittadina viva, intraprendente, con gente aperta, attenta al benessere proprio e della propria famiglia. Una vita sociale che ricorda un po’ quella dei villaggi di un tempo, con le persone aperte all’amicizia, alla comprensione del prossimo, alla condivisione delle gioie e dei dolori con i parenti, i vicini di casa, i conoscenti. E come in un villaggio ci si conosce tutti e si sa di tutti vita e miracoli, non solo di quelli viventi, ma anche di quelli di ieri e dell’altro ieri che riposano all’ombra dei cipressi, eppure ancora ci si ricorda di loro, delle loro virtù e dei loro vizi, delle loro generosità, estrosità e stravaganze. Qui si vive a stretto contatto di gomito, ma soprattutto di sentimenti e questo comporta il farsi carico con generosità delle sorti altrui.

Ad una popolazione così non si può che voler bene: abitanti impastati di terrenità e di cuore, di genialità e di sapienza antica, di fatti e misfatti, di sobrio scetticismo e di quello spirito fiero incarnato dal brigante Pietro Masi, il vostro Bellente. A me pare che gli Appignanesi abbiano ancora un forte spirito di appartenenza e come altrove, anche qui ci sono Guelfi e Ghibellini, santi e peccatori, devoti di S. Giovanni e Santa Tecla, ma anche di Bacco e Venere, ma quella di Appignano resta comunque una comunità compatta, dove rimane inviolata soprattutto la possibilità di dimorare con se stessi e cercare un senso più che alle parole, al vivere. Qui, al mattino, dinanzi a un manifesto funebre ancora fresco d’inchiostro e di colla, ci si raduna e si commemora l’amico o il conoscente scomparso, se ne rievocano le gesta amabili e non si manca di accompagnarlo nell’ultimo viaggio. Così anche il dolore appare più umano e partecipato e riserva quindi qualche dolcezza per il cuore. Sentimenti e valori questi che nella massificazione delle più grandi aree urbane purtroppo vanno scomparendo.

E io, oggi, sono davvero felice di non essere più un appignanese abusivo e sono orgoglioso e fiero di essere diventato cittadino di una comunità che conserva questi valori e questi sentimenti, ancora capaci di far raggiungere la tranquillità della propria coscienza, che è l’unico ponte verso la felicità.

Avvicinandomi alla conclusione rivolgo a voi una domanda che spesso ho rivolto a me stesso: mi avete dato questo riconoscimento perché per Appignano ho fatto lo storico, ma serve ancora la storia in un mondo come quello odierno in cui tutto sembra essere proiettato verso il futuro? Ha ancora senso fare il mio mestiere e scrutare il passato oggi che è in atto un processo di mondializzazione e globalizzazione ad ogni livello e in ogni settore? La mia risposta è sì! 

Proprio perché è in atto questo processo di globalizzazione è più che mai necessario evitare di lasciarsi schiacciare dal livellamento globale verso cui tutto sembra tendere, e anche la cultura. Dobbiamo evitare che le abitudini, i costumi, i comportamenti, le peculiarità e gli stili di vita tendano sempre più a omogeneizzarsi, col rischio di scomparire e di far perdere le proprie radici agli individui e alle comunità. La vostra sapienza con la terracotta, il vostro straordinario e unico dialetto, la capacità di costruire mobili, l’antica devozione per la chiesetta dei santi, sono espressioni uniche della vostra identità che non possono essere gettate nel dimenticatoio. Allora credo che bisognerà dedicare più energie per salvare e rivalutare le identità e questo è possibile farlo dedicando più attenzione e più risorse al recupero e alla valorizzazione delle tradizioni e del patrimonio storico anche delle piccole realtà, perché li si trovano le radici delle identità. I libri di storia sono strumenti utili e indispensabili per non disperdere le proprie radici, ma anche per cogliere gli aspetti positivi del passato e per non ripeterne gli errori.

Concludo ringraziando e salutando tutti i presenti, le autorità che mi hanno onorato con la loro presenza, e rinnovando al Sindaco e a tutti gli Appignanesi i sensi della mia gratitudine per l’onore conferitomi quest’oggi, impegnandomi a garantire, nei limiti delle possibilità e capacità umane, se richiesto, di collaborare con voi anche per il futuro. E in questo momento mi piace pensare che quando tu Osvaldo e l’amministrazione avete deciso di rendermi appignanese con la carta intestata, sapevate già che io nel cuore ero da sempre “unu de Pignà”.

Grazie! Alberto Meriggi




Intervento letto ad Appignano il 27 giugno 2015 per il conferimento della cittadinanza onoraria.

lunedì 29 giugno 2015

Ecologia bioregionale ed economia eco-solidale...



Stiamo assistendo al declino di tutti i modelli di società che dal dopoguerra ad oggi hanno cercato di governare il mondo. Con la caduta del muro di Berlino abbiamo assistito alla fine del modello comunista ed oggi avvertiamo la fine del capitalismo. Sono sotto gli occhi di tutti le evidenti le crepe che stanno per far crollare tutta l’impalcatura costruita di una società che ha puntato fortemente sul profitto di pochi a danno dei tanti e sulla rapina e la distruzione della natura.

Ma che possibilità abbiamo noi oggi di costruire società più giuste e efficienti rispetto quelle del passato? I mussulmani ci propongono in alternativa modelli di società oscure, rimaste ancorate alla “preistoria”dell’uomo, vedi la rinascita del califfato in Medio Oriente. Ma allora su quale modello futuro di società, degna di un’umanità evoluta e più responsabile, possiamo puntare?

La società su cui noi tutti dobbiamo guardare è quella fondata sugli equilibri tra uomo e uomo, verso il superamento di ideologie medioevali, verso il superamento del profitto a tutti i costi e del consumismo sfrenato e, infine, verso il rispetto degli equilibri tra uomo e natura.

Esiste oggi una società del genere? Ancora no, ma le sfide del futuro legate all’aumento della temperatura terrestre, alla distruzione di gran parte degli habitat del pianeta, all’esplosione demografica e all’aumento della fame nel mondo, ci impongono di cercare al più presto soluzioni capaci di far superare all’umanità questa profonda crisi.

Sul “mercato delle idee” oggi esistono varie proposte per società alternative all’attuale, legate tutti dallo slogan coniato a Rio de Janeiro nel 1992 sullo sviluppo sostenibile. Molte di queste proposte però sono surreali ed altre improponibili per vari motivi oggettivi. Al momento economisti pentiti, filosofi, antropologi e ambientalisti stanno adocchiato società che facciano dell’ambiente il cardine portante.

Analizzeremo quindi alcune delle cosiddette società “Green” per valutare se possono essere candidate a rappresentare l’alternativa.

Si sente parlare da qualche anno di Blue Economy e di Green Economy, ma questi due modelli di sviluppo sono la stessa cosa? La gente comune conosce il significato di queste nuove formule di sviluppo sociale?

Non proprio, oggi si fa confusione tra i due concetti, si tiene ancora a sottolineare maggiormente l’importanza della Green Economy, ci si riempie la bocca nel parlare di Green Economy mentre si ignora cosa realmente vuol dire Blue Economy. Tanto per iniziare i due concetti sono diversi, anche se partono delle stesse fondamenta; prendiamo ad esempio la questione delle emissioni di gas serra in atmosfera: la Green Economy prevede una riduzione della CO2 graduale e comunque fino a giungere ad un livello accettabile per il pianeta, la Blue Economy invece è più drastica, prevede di giungere entro un decennio ad emissioni zero della CO2 e di altri gas serra.

Green Economy (economia verde) significa un’economia il cui impatto ambientale sia contenuto entro limiti accettabili. Qui la tecnologia e la conoscenza scientifica svolgono un ruolo di primaria importanza. La Green Economy non prevede di cancellare del tutto le fonti di energia fossile, prevede di affiancarle e solo in alcuni casi sostituirle con energie alternative o rinnovabili. La Blue Economy invece prevede nel tempo di abbandonare completamente lo sfruttamento dei giacimenti di combustibile fossile.

La Blue Economy rappresenta quindi la fase successiva, il superamento e il perfezionamento della filosofia di base della Green Economy. La Blue Economy infatti non si limita al mero aspetto economico, ma entra nel merito dei bisogni culturale ed esistenziali delle società e dell’individuo. Pur partendo dall’aspetto economico, la Blue Economy intende creare un nuovo modello di sviluppo sociale considerando tutte le filiere produttive: dalla agroindustria, al manifatturiero fino al turismo.

Anche la Blue Economy come la Green Economy nasce dal concetto di sviluppo sostenibile, ma va oltre, sviluppandosi verso quattro specifiche direttrici di sostenibilità: economica, sociale, ambientale e culturale.

Perché chiamarla Blue Economy? Perché inizialmente questa nuova filosofia di sviluppo è partita dall’ assunto che la nostra Terra è costituita per i ¾ dall’acqua ( oceani, acque interne e ghiaccio ), per cui nessun programma di sviluppo futuro delle società umane può ignorare questa realtà. I mari, i laghi e i fiumi debbono essere in primis protetti e salvaguardati dall’inquinamento e, soprattutto, da azioni predatorie dell’uomo nei confronti della sua biodiversità. Partendo dall’elemento acquatico, come milioni di anni fa fecero le prime forme di vita animale, la Blue Economy è emersa dai mari ed ha iniziato a spaziare in tutti i settori legati allo sviluppo delle società umane.

La Blue Economy è figlia di una teoria dell’economista belga Gunter Pauli, fondatore di Zero Emissions Research Initiative e autore del libro Blue Economy – 10 anni, 100 invenzioni, 100 milioni di posti di lavoro. Una teoria che partendo dagli oceani si è poi ampliata in ciò che può rappresentare il cammino dell’uomo verso una società in equilibrio con le risorse reali del pianeta. Per Gunter Paoli, la Blue Economy significa compiere un cambiamento radicale, considerare le scelte migliori per il pianeta e le persone che lo abitano. Creare un ecosistema globale sostenibile grazie alla trasformazione di sostanze precedentemente sprecate in merce redditizia e a volte voluttuaria. La blue economy si basa sull’imitazione dei sistemi naturali, riutilizza continuamente le risorse e produce zero rifiuti e zero sprechi. Diversamente dalla green economy, secondo Gunter Pauli, non richiede alle aziende di “investire di più” per salvare l’ambiente. Anzi, con minore impiego di capitali è in grado di creare maggiori flussi di reddito e di costruire al tempo stesso capitale sociale. I risultati ci sono, e in tutto il mondo laboratori di ricerca, aziende e innovatori hanno adottato questi principi per aumentare la loro competitività dando nuova forma e impulso alle nostre economie.

L’attuale modello di sviluppo è ormai giunto al capolinea e ciò si desume da molti dati allarmanti, in primis dal numero di disoccupati in Europa, in particolare in Grecia, Italia e Spagna, che oscilla tra il 40 e il 50% e poi dall’atteggiamento dei nostri leader politici e finanziari che osano considerare la prossima generazione inutile, o ancor peggio, considerare i giovani e gli svantaggiati come problemi fastidiosi. È evidente che in questo sistema in netto declino, rappresentato da una società profondamente in crisi, senza capacità di rigenerarsi, poi esplodano fenomeni sempre più allarmanti di violenza, criminalità e terrorismo.

Se saremo capaci di applicare i concetti della blue economy, laddove le decisioni della base, di milioni e milioni di cittadini si anteporranno al dirigismo dei moderni “Zar”, ossia dei pochi operatori di mercato, imprese monopolistiche o controlli statali, allora la società umana potrà sperare nel domani e intraprendere una strada per fondare una nuova struttura economica e sociale. La chiave vincente per voltare pagina è relegare per sempre nel soffitto della storia questa società, fondata esclusivamente sui valori economici, sostituendola con l’impegno e la partecipazione diretta dei cittadini, attraverso una grande e globale rivoluzione culturale. Ciò potrebbe cambiare le regole del gioco e indirizzare l’umanità verso un vero mutamento. Sarà però molto difficile riuscirci visto che gli “Zar” del pianeta difenderanno i loro previlegi con le unghie e con i denti e, avendo a disposizione risorse finanziarie ed economiche ingenti, inventeranno situazioni strategiche globali per distruggere ogni anelito di riscatto verso una umanità che non vorrà più appartenere alla logica dell’Avere, ma finalmente a quella dell’Essere.

Sarà dura, lo ammettiamo, ma non per questo dobbiamo demordere, la Blue Economy è solo il primo passo per il grande cambiamento. Se sapremo resistere ai sussulti e ai rantoli di questa società morente, allora, forse, potremmo sperare di fermare l’umanità verso il tunnel oscuro che la sta portando inesorabilmente verso l’ecocatastrofe.  

Gabriele La Malfa (Accademia Kronos)

domenica 28 giugno 2015

Morire di Glifosato - Monsanto ci avvelena per 4 fili d'erba


IL GLIFOSATO, L'ERBICIDA PIÙ USATO.... E' CANCEROGENO
ci stanno avvelenando”.. “ma vale la pena di rischiare di prendere un tumore per eliminare 4 fili d'erba?” “ma come si fa a usare una sostanza così pericolosa con tanta leggerezza?”

Queste sono solo alcune delle frasi (le meno “colorite”) di cittadini, informati della recente decisione della Iarc (Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro) il braccio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che si occupa dell’ambito oncologico. 

L'Agenzia per la ricerca sul cancro ha infatti emesso un verdetto pesante su cinque pesticidi molto usati in agricoltura. Si tratta di un erbicida (glifosato) e due insetticidi (malathion e diazinon),dichiarati probabili cancerogeni per l’uomo
Sicuramente il più noto è il Glifosato, l'erbicida più usato al mondo. (si ritiene che circa il 70% della terra arabile del pianeta è trattata con questo diserbante). 
Noi riteniamo che la preoccupazione debba essere massima dato che il rischio che anche il nostro territorio sia contaminato da questa pericolosa sostanza è molto alto

Due le principali fonti di inquinamento:

il glifosato è molto utilizzato nei vigneti intensivi (le strisce giallo-arancioni sotto i filari di vite ne evidenziano l'utilizzo).

- il glifosato è l' erbicida più usato da comuni e provincia per diserbare strade, parchi spazi pubblici(ma anche i privati lo usano nei loro viali e davanti le loro abitazioni)

E' VENUTO IL MOMENTO DI MOBILITARCI...

sabato 27 giugno 2015

Treia, 27 giugno 2015, Symbola, commemorazioni e altro




27 giugno 2015 a Treia, personalmente festeggio l'anniversario di nozze dei miei genitori, Gina e Fausto. Era il 1957, quindi 58 anni fa. Loro da qualche anno non ci sono più, ma ancora più di prima spontaneamente ricordo le date delle loro ricorrenze, nascita, matrimonio, morte....

Stasera avremo il piacere e l'onore di essere presenti alla cerimonia di conferimento dell'onorificenza di cittadinanza onoraria di Appignano all'amico e "compaesano" prof. Alberto Meriggi. Quindi saremo là alle 17 precise accompagnati dall'altro Alberto, Spurio Pompili (dato che siamo senza macchina). E proprio ad Appignano mia madre aveva abitato da bambina, chissà dove, assieme a sua madre Anna che assisteva il sig. Giacomo Andreani, detto "Andrià".



Ma in questi giorni Treia è stata sede di un importante convegno dell'associazione Symbola a cui hanno e stanno partecipando personaggi vari del mondo della politica locale e nazionale, come i ministri Del Rio (ministro delle infrastrutture e dei trasporti), Gentiloni (ministro degli esteri), Ceriscioli (presidente della Regione Marche neoeletto), Ermete Realacci (presidente onorario di Legambiente), ecc. ecc.  Ovviamente erano presenti molti rappresentanti della amministrazione treiese e treiesi più o meno noti.  


Ma non c'era  chi continuava a servire il popolo,  come Lorenzo Luccioni,  rimasto nel suo solito ufficio della CGIL, senza allontanarsene, e non potendo quindi udire  le belle parole che sono state dette nel bel teatro di Treia. 

Una scappata però io e Paolo, nella giornata clou, ce l'abbiamo fatta. Abbiamo ascoltato il presidente della Coldiretti, la direttrice di Legambiente e  una parte del discorso di Del Rio, di cui mi è piaciuto  il suo invito  alla necessità che si ritrovi la fiducia: i cittadini potrebbero smetterla col disfattismo, a patto che si rendano conto che effettivamente la politica e tutto quel che ci ruota intorno sta dove sta per fare le cose, per il loro bene. Allora tutto potrebbe funzionare a dovere e si potrebbe vivere tutti più sereni in pace e in armonia.


Usciti dal teatro, io e Paolo, abbiamo incontrato, davanti alla scuola media un gruppo di ragazzine felici per aver finito gli esami di terza media. Gli occhi brillavano e come dare loro torto... speriamo che nel loro futuro ci sia sempre tanta felicità!



Caterina Regazzi 



Servizio fotografico completo: 

venerdì 26 giugno 2015

Da Civitanova Marche a Macerata, viaggio breve ma accidentato



Il 25 giugno 2015 sono tornato a Treia dopo una permanenza in Emilia e con la mia compagna abbiamo voluto sperimentare il viaggio con le ferrovie dello stato. Sui giornali avevo letto di tutte le disavventure dei controllori aggrediti da teppisti e temevamo  che la traversata potesse risultare pericolosa, inoltre il prezzo del biglietto è un po’ salato ma forse  perché il mezzo è poco usato -ci siamo detti- ed i costi di gestione saranno molti (ivi compresi i mancati introiti per i numerosi portoghesi ed i guasti causati dai vandali), però ci eravamo ripromessi di  dare nostro contributo alla causa nazionale e così  abbiamo tentato l'avventura. Finché  si era in Emilia il servizio è stato inappuntabile i guai sono cominciati a Civitanova Marche. Eravamo sul trenino per  Macerata ed a bordo la voce del capotreno all’altoparlante ci dava il benvenuto ed augurava buon viaggio da Trenitalia.

Cominciamo lentamente ad uscire dalla stazione ma dopo solo qualche centinaio di metri il convoglio comincia a rallentare. Chiedo “Come mai va così piano?” E la mia compagna risponde “Ma,  forse  sta uscendo dal centro abitato…”.  Infine si ferma.

Quei pochi che eravamo  cominciano a guardarsi preoccupati. Niente. Dopo un po’ un ferroviere trafelato comincia a fare avanti e indietro e dopo alcuni passaggi annuncia sconsolato che i motori non vanno più e che bisogna tornare in stazione. Ci siamo chiesti come mai le ferrovie non fanno una accurata manutenzione dei mezzi, beh, pazienza! Lentamente tornati in stazione  ci fanno salire su un altro  trenino che era lì fermo, forse per un altro malfunzionamento, poiché emetteva cigolii misteriosi ed un  baccano  del diavolo che sembrava di stare nella ciminiera di una fabbrica, e lì l'attesa si prolunga di un'altra ora,  tanto da farci temere per la continuazione del viaggio. 

Ma finalmente si riparte ed  arriviamo a Macerata. Mai un arrivo fu così benvenuto... Poi da Macerata si trattava solo di fare gli ultimi chilometri in autobus verso Treia, ma a  qual punto abbiamo chiesto un passaggio ad un'amica...  Infine abbiamo capito come mai tanti viaggiatori preferiscono usare la loro macchina per spostarsi. Però non è un sistema che aiuta l'ecologia...

Paolo D'Arpini

giovedì 25 giugno 2015

Incontro bioregionale su una spiaggia libera di Pescara



Abbiamo lasciato tempo fa sulla spiaggia Sebastian con Leyla e Faitu
con amore spirituale. Hanno formato un gruppo che si chiama the
relovetion. Ora si sono aggregati il chitarrista Sleng Tleng con la
sua ragazza naima e il percussionista archetipo con la fidanzata
pragma. sebastian e leyla ora stanno assieme e sono molto innamorati e
stanno sempre appiccicati ad amoreggiare a guardare il cielo la luna
le stelle. Faitu sta con amore spirituale, sono molto trasgressivi e
trascorrono le serate assieme alle altre due coppie sdleng tleng con
naima e archetipo con pragma a base di bevute fumate e amore libero
sulla spiaggia notturna con bagni al chiaro di luna.

Avevamo lasciato altresì nella casa di terra a treia forsetroppo e
palindroma che fanno ormai coppia fissa. lei gelosissima lo tiene
sempre a bada anche se gli lascia sempre del buon vino per esaltare i
suoi sogni e la vena creativa. e udite udite molto che stava con aria
di stelle e anima libera fidanzato con aurora boreale hanno formato un
quartetto e stanno tutte e quattro assieme. insomma hanno deciso di
partire col vecchio furgone wolksvagen di paolo d arpini. così si sono
messi in viaggio e dove sono arrivati? non ci crederete ma proprio
sulla spiaggia libera di Pescara! Si sono incontrati casualmente con
il gruppo relovetion e hanno celebrato assieme i giorni del solstizio
con tramonti memorabili e feste notturne. Naturalmente leyla e
sebastian appartati da un lato a sbaciucchiarsi solitari densi
sdolcinati, il gruppo ad amoreggiare collettivamente non si sa bene
come tra risate vino e suonate notturne, pure appartati foresetroppo
con la gelosissima palindroma sofferente di non poter partecipare alle
danze notturne che si svolgono nelle vicinanze davanti ai suoi occhi

Comunque in questa atmosfera si è parlato di bioregionalismo e questo
e’ il resoconto del dialogo tipo flusso di coscienza nel quale ognuno
interviene in libertà con frase aforisma indovinello poesia canzone
gesto o altro.


[in-ten-si-ta]

passeggiando al ritmo delle foglie che cadono

nuotiamo nel vuoto gustando il dolce sapore del nulla.

turno battuta terra madre figlio arte terra parte

congruenze psico socio analitiche

nel giardino delle emozioni essenza d infinito

sento che sei tra le poche donne che conosco

con cui potrei condividere l'esistenza

lo stupore e’ il motore dell amore

viaggi sulla strada e sei tu stesso la strada

punto G

poeta dell indistinto e dell abbondanza del di qua e del di la del
sotto e del sopra ttutto poeta dell essere

senza soldi in tasca torno allora verso casa aveva capito cosa conta
di più davanti alla sua casa trovo lei che l'aspettava e tutto come
prima e non chiedeva di più.

come gocce dacqua che cadono dalle foglie dopo la pioggia

te lo leggo negli occhi…in entrambi i casi!

happiness is not the destination is the way

amore: rari istanti sparsi e smarriti

bolle sulle onde simili e collegate differenti luna dallaltra

tutti condividiamo una solacasa la terra

vibrazioni cosmiche sulla via della luce

ecosistema contemporaneo arcipelago terraferma

genesico

si ti truv bbon arman gna ti truv

chi cammin pian fa na bbona jurnat

acqua profonda gioia silenziosa nel riabituare la realta

lavoro caso amore stagione terra=frutto

ingannevole il cuore più di ogni altra cosa

essenza dinfinito

suono dell emozione di un gesto

pagine bianche sul tavolo finestre aperte verso l'infinito

afferro laria e me la metto in tasca

yeahhhhhh

lovvo

questo e’ quanto sono riuscito a trascrivere si e’ svolto tutto in
modo veloce spontaneo nella forma come già detto dell automatismo
psichico, naturalmente alcune enunciazioni hanno sviluppato momenti di
commento e riflessione che non ho riportato come non ho riportato i
nomi degli interventi

si e’ discusso parecchio del testo della canzone dei dik dik viaggio
di un poeta sul presunto maschilismo del testo soprattuto la strofa
davanti alla sua casa trovo lei che lo aspettava. poi grande
discussione sul punto G secondo alcuni punto dove si concentra
l'energia che smuove il mondo subito accusati di essere richiami
fallocentrici e maschilisti. punto G legato al concetto di fecondità e
riproduzione ispirandosi all'ecologia vegetale inteso

come il pistillo di un fiore. si e’ parlato molto del sesto

senso il genesico legato e non solo all attrazione fisica

Ferdinando Renzetti

mercoledì 24 giugno 2015

Piccoli sfangamenti bioregionali sulla montagna incantata



Buongiorno cari Paolo e Caterina. Anzitutto, anche se in ritardo, auguri per i tuoi splendidi 71 anni Paolo, brillantemente sfangati inverno dopo inverno.


Ho letto il resoconto di Caterina sull'incontro del collettivo ecologista (http://bioregionalismo-treia.blogspot.it/2015/06/molta-voglia-di-stare-insieme-resoconto.htmldel 20/21 giugno 2015 e devo dire che mi siete mancati molto e so che aver perso le testimonianze dei presenti è come essersi deliberatamente privati di un tesoro talmente grande da essere difficilmente quantificabile.

Purtroppo, o meglio per mia fortuna, dopo essere stato sino alla sera del venerdì 19 indeciso se venire oppure no, ho scelto quello che mi diceva il cuore. Da tempo avevo in animo di trascorrere una notte da solo in cima ad una montagna per guardare in faccia le mie paure e le mie angosce, e quale miglior occasione di un solstizio estivo? 


Mi sono preparato a questo rito, come uno sposo innamorato per la sua sposa. Sono salito sulla montagna pieno di timori, con pioggia, grandine, tuoni e fulmini che non mi hanno certo incoraggiato. Per due volte li ho dissolti con la preghiera. Il fuoco è stato il protagonista del mio rituale, ha trasformato, facendola salire nell'etere, la parte di me che doveva essere trasformata. 

Un uccello mai visto e mai sentito prima, con un canto ed un volo inquietante a pochi metri dalla mia testa, me ne ha dato la conferma. La notte è passata senza paura. Ai primi bagliori dell'alba sono uscito dalla mia tenda ed ho aspettato che il primo raggio di sole mi colpisse in faccia. Una gioia profonda mi ha attraversato. 

Un altro animale apparso davanti a me mi ha dato la conferma di questa mia piccola rinascita. Ho scoperto solo dopo i significati mitologici di questi due messaggeri apparsi davanti a me sotto forma di animali. Niente succede per caso. 

Sono contento di aver seguito il mio istinto, il mio cuore, così l'anno prossimo potrò partecipare all'incontro del collettivo ecologista con una consapevolezza diversa, e magari potrò
essere in grado di contribuire alla causa lasciando agli altri un mio piccolo seme di testimonianza Bioregionale-spiritual-eco-profondo. 


Vi voglio bene.

Ettore Stella

P.S. gli animali incontrati:
Succiacapra (uccello considerato a rischio d'estinzione)
Donnola




martedì 23 giugno 2015

Adattarsi ai cambiamenti conviene... (se si vuole sopravvivere)



In un nuovo report dell'Agenzia europea per l’ambiente una panoramica sullo stato di avanzamento dei maggiori programmi europei di adattamento ai cambiamenti climatici
Per tutti i soggetti interessati, siano essi politici, cittadini o imprese, risulta fondamentale, ai fini dello sviluppo e dell'attuazione di strategie e misure di adattamento, ottenere delle informazioni pertinenti e tempestive: il nuovo rapporto dell’Agenzia europea per l’ambiente (Overview of climate change adaptation platforms in Europe) fornisce una panoramica sullo stato di avanzamento dei maggiori programmi informativi di adattamento ai cambiamenti climatici in Europa.

Parlando alla recente conferenza europea sui cambiamenti climatici, il direttore esecutivo dell’Agenzia europea per l’ambiente ha affermato che un efficace adattamento ai cambiamenti climatici richiede una stretta collaborazione tra le varie parti interessate, una condivisione delle diverse conoscenze ed esperienze già disponibili. Negli ultimi anni, infatti, molti paesi europei hanno istituito piattaforme di informazione sui cambiamenti climatici: attualmente, ci sono 14 piattaforme nazionali in alcuni paesi membri (Austria, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Ungheria, Irlanda, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Spagna, Svezia, Svizzera e Regno Unito) e due piattaforme transnazionali (Alpi e Pirenei). 

Questi programmi sono integrati in Climate-ADAPT - la piattaforma europea gestita e mantenuta dall’Agenzia europea in collaborazione con la Commissione europea. Delle 14 piattaforme nazionali, sette sono direttamente collegate alla realizzazione di una strategia di adattamento nazionale o di un piano d'azione.

L'Italia è coinvolta nella piattaforma transnazionale prevista dalla Convenzione delle Alpi, il trattato internazionale sottoscritto dai Paesi alpini (Austria, Francia, Germania, Italia, Liechtenstein, Monaco, Slovenia e Svizzera) e dall’Unione Europea per lo sviluppo sostenibile e la protezione delle Alpi.

Il report dell’Agenzia europea per l’ambiente analizza anche i collegamenti esistenti e potenziali tra le piattaforme per i servizi climatici e quelle per la riduzione del rischio catastrofi (DRR); una più stretta collaborazione tra l'adattamento climatico e le piattaforme di riduzione del rischio può infatti aumentare l'utilizzo delle conoscenze disponibili e contribuire a ridurre la vulnerabilità.

Fonte:  ARPAT