Signor
Sindaco, o meglio, caro Osvaldo, signori consiglieri, autorità,
colleghi, cari Appignanesi. Immagino che dovrei dire cose solenni e
memorabili in una circostanza come questa, in un simile ambiente, di
fronte a persone qualificate ed amiche, tanto, troppo, affettuose
nell’enfatizzare ciò che io ho fatto per Appignano. Invece tengo
a mia disposizione una sola parola, usuale e disadorna: Grazie! Ad
essa affido i miei sentimenti che in questo momento si accavallano
mescolando gioia, affetto, riconoscenza, procurandomi commozione ed
emozione. Grazie dunque al Sindaco Osvaldo Messi, all’assessore
alla cultura Vittoria Trotta, a tutta la Giunta e a tutti i
consiglieri per aver voluto concedermi questo onore che tanto mi
inorgoglisce, perché così grande e inaspettato e anche
sproporzionato rispetto a quello che io ho fatto. La mia riconoscenza
si amplifica e la decenza mi fa arrossire e chinare il capo se penso
che prima di me tale riconoscimento Appignano l’ha conferito solo
ad un importante e grande personaggio qual è stato il Prof. Luciano
Chiappini del quale, al tempo della redazione della Storia di
Appignano, ho avuto il piacere di apprezzare le doti umane, il suo
magistero e la grande professionalità. Non nascondo che fa molto
piacere trovarsi in tasca un titolo non inflazionato, ma questo
procura anche un po’ di timore.
Ma
un grazie anche a tutti coloro che in questi venti anni di rapporti
con Appignano mi hanno gratificato con la loro stima pensando a me
per avviare un percorso insieme nella vita culturale di Appignano.
Penso alla prima persona che mi contattò per redigere una storia
locale, la signora Zelia Cammarata, allora assessore, poi
all’assessore Daniela Smorlesi per proseguire nello stesso cammino
che finalmente raggiunse l’obiettivo con il Sindaco Maurizio
Raffaelli e il suo vice e assessore Mario Gasparrini. Una lunga
vicenda quella della redazione della Storia di Appignano, tanto da
poterci scrivere sopra una storia della storia. E poi la vicenda del
libro sugli Statuti, impresa sollecitata da Raffaelli e Gasparrini,
avviata con Osvaldo Messi e l’assessore Luca Cerquetella e portata
a compimento dalla passata amministrazione del sindaco Messi e
dell’assessore Zepponi, con la pubblicazione del corposo volume
presentato qui dall’illustre Prof. Mario Ascheri. Negli stessi anni
l’allora presidente dell’Irca, Giancarlo Gagliardini, che
ringrazio, mi affidò la curatela di un volume sulla famiglia
Falconi.
Nel
dire grazie non posso dimenticare persone che mi sono state vicine
con suggerimenti e aiuti come Mario Buldorini e Roberto Bronzi, anche
loro appassionati di storia locale e autori di interessanti ricerche
e pubblicazioni. Voglio anche ricordare gli studenti universitari di
Appignano che nel tempo mi hanno chiesto la tesi e si sono laureati
con me, contribuendo a tenere sempre vivo in me il legame con le
vicende storiche di Appignano. Mi piace ricordarli: Carla Calamante,
Katia Grassi, Francesca Giuliani, Silvia Del Mastro, Daniela Smorlesi
e don Claide Tarabelli che non è più con noi e che ricordo con
tanto affetto. Costoro per primi dovrebbero tenere viva la fiaccola
della passione per la ricerca sulla storia di Appignano e soprattutto
coloro che oggi sono insegnanti dovrebbero stimolare altri giovani a
proseguire sulla strada da loro intrapresa.
Non
posso dimenticare le affettuose attestazioni di compiacimento, quando
si è diffusa la notizia di questo conferimento, inviatemi da parte
di amici e conoscenti di Appignano. Cito solo due persone che si
chiamano allo stesso modo ma che, credetemi, per questa vita non
troverete mai insieme nella stessa lista in una elezione
amministrativa: sono Mario Buldorini e Mario Gasparrini. Il primo,
avvezzo a scrivere e pubblicare anche poesie, appena conosciuta la
notizia del conferimento ci ha scritto sopra una simpatica poesia in
dialetto, il secondo mi ha inviato subito messaggi affettuosi e di
congratulazione, e come loro anche altri.
Ci
tengo a dire subito che la cittadinanza di Appignano che oggi mi
viene conferita la considero come una legalizzazione di qualcosa che
dentro di me già c’era. Consentitemi una battuta: se mi aprite il
costato vedrete che dalla parte del cuore c’è scritto “Alta
Pinus”, come nel vostro stemma. Scherzo ovviamente, ma fino ad un
certo punto perché, a pensarci bene, come può uno che è nato e
vive a Chiesanuova di Treia, a quattro chilometri da qui, non
sentirsi anche un po’ di Appignano, questo non solo per la
vicinanza, ma anche per una naturale omologazione tra le popolazioni,
consolidata nel tempo e fatta di continui rapporti fra le persone, di
interessi in comune, di amicizie e parentele. Se c’è un confine
giuridico tra il Comune di Treia e quello di Appignano, presente
sulle mappe, esso di certo non è presente nell’animo delle
persone.
Venendo in qua i Treiesi che stanno dopo il ponte detto
delle tavole forse si sentono più di Appignano che di Treia. Del
resto in alcuni periodi del passato Treia e Appignano sono state un
tutt’uno e ancora oggi, venendo da Chiesanuova, un confine visibile
non c’è, non c’è un ruscello, non c’è un fossato, non c’è
un ponte. Se recupero i miei ricordi d’infanzia, anche se un po’
sbiaditi, risento ancora mio padre o mio nonno, che mi dicevano che
Appignano stava dopo la curva “de Jometta”, quasi ad indicare
l’inconsistenza di un confine legato all’esistenza terrena di una
famiglia o di una persona. Ma attenzione, il nome Appignano non
risuonava mai per intero in quelle parole. Appignano, pronunciato per
intero, era un nome che allora era appannaggio solo dei pochi
appartenenti alla classe dei colti e di quelli un po’ snob; per noi
di campagna, e un po’ per tutti, questo paese era semplicemente
Pignà e, qualche volta, al di là del confine, per indicarlo non si
usava nemmeno il nome spezzato, bastava la burla che indirizzava
verso “lu portu”, un appellativo antico che indicava il paese,
frutto di una canzonatura la cui origine ha visto complici anche i
Treiesi, per fortuna unitamente ad altri.
Oggi,
in una giornata per me tanto importante, i ricordi si accavallano e
affiorano nella mente tante testimonianze dell’antico legame tra la
mia famiglia, me stesso e Appignano. Alcuni ricordi sono rimasti
fissi, indelebili, impossibile da cancellarli e capaci sempre di
suscitare tenerezza e nostalgia, come quando nella mia famiglia già
a Pasqua si cominciava a valutare lo stato fisico delle ochette e
delle paperette per capire se erano pronte per essere vendute il
giorno della grande fiera di Appignano del 29 aprile, da noi in
campagna conosciuta come fiera delle ochette. E quella mattina, tanto
attesa, partivo con i miei, carichi di piccole ceste piene di
animaletti da vendere, il cui ricavato veniva subito destinato
all’acquisto di cose modeste, ma necessarie per il vivere
quotidiano di una famiglia di contadini. Qualche spicciolo non
avanzava mai, ma alla fine un soldino accantonato da mia madre quasi
di nascosto, saltava fuori ed era il prezzo di un regalino per me che
io sceglievo tra la sterminata moltitudine di coccette disseminate
lungo borgo S. Croce. La più grande ricchezza che da secoli avevate.
A me bastava una campanella di coccio o un fischietto e se andava
bene ci usciva anche un piccolo salvadanaio, essendo stato rotto la
sera prima quello vecchio, che in teoria era solo mio e il cui
contenuto era promesso a me, ma a me non arrivava mai. In una
situazione di povertà tutto diventava utile per tutti.
Quello
non era solo il giorno della fiera, era anche un giorno di festa. Un
giorno nel quale si tentava di alleviare la dura fatica di sempre e
le pesanti rinunce. Gli uomini potevano concedersi un bicchiere in
più e le donne trattenersi davanti alle bancarelle e scambiare
convenevoli con le conoscenti. E di sicuro qualche conoscente di mia
madre le avrà posto la fatidica domanda: “do’ vai co’ su
fetò?”, u fetò ero io che di certo avrò posto subito a mia madre
l’altrettanto fatidica domanda: “ o ma’ ca ditto quella? E mia
madre mi avrà spiegato che se io a Chiesanuova ero un frichì a
Pignà ero un fetò e le frichine erano fetacce. Solo alcuni decenni
dopo ho capito che ad Appignano si parlava un po’ latino tutti i
giorni, perché quel fetò derivava da fetus e capii anche perché
gli animali nelle nostre stalle non partorivano, come diceva la
maestra a scuola, ma fetavano. Dunque una straordinaria autonomia di
linguaggio tutto appignanese sciorinato con una cadenza unica nella
zona. Molto più tardi mi sono reso conto che quello forse poteva
essere un elemento di confine tra Appignano e le zone limitrofe come
la mia, ma non era un ostacolo. Un patrimonio prezioso, con una sua
giustificazione scientifica, che determinava l’identità di
Appignano, ma che ormai è andato perduto.
Durante
l’anno, per le necessità primarie, nella zona di Chiesanuova le
famiglie frequentavano soprattutto Appignano perché ci si poteva
arrivare in minor tempo e con meno fatica rispetto a Treia. La mia
famiglia in particolare poteva contare qui ad Appignano su una vasta
rete di parentele tra i piccoli commercianti, e il rivolgersi a loro
poteva garantire un occhio di riguardo sulla merce da acquistare e
soprattutto la speranza di ottenere un piccolo sconto. E allora oggi
riaffiorano nella mia mente nomi curiosi che sentivo pronunciare
spesso dai miei con espressioni tipo: “gimo da Tetella”, Tetella
era una signora anziana, nostra parente, che gestiva nel borgo un
piccolo emporio dove c’era di tutto, dalla pasta allo zucchero, dal
sale al carbone. E riaffiorano altri nomi legati a Tetella: Flora,
Fiume, immagino in memoria delle gesta di D’Annunzio e non del
Monocchia che scorre qui sotto, e poi Lambì e Silvé, nomi spezzati
che si adeguavano allo spezzamento di Pignà, ma che apparivano
unici, indispensabili e non sostituibili per descrivere una identità,
un carattere, una fisionomia. Tetella era sorella di Peppe de
Scattulì, rappresentante di un altro filone nel guazzabuglio degli
intrecci del parentado.
Ricordo il curioso fazzoletto al collo,
indossato anche d’estate, da un altro parente: Ristide de
Giachetta, il cui figlio e figlie sono ancora qui. E che dire di
Popò, un altro parente la cui moglie non poteva che essere per tutti
la Popona. Popò vendeva casalinghi nella cui bottega i miei si
recavano di rado per comprare piatti, bicchieri e qualche pentola che
nell’indicarla non era mai pentola, ma sempre cazzarola e solo
raramente assurgeva al rango di tegame. Più o meno quelle stesse
botteghe rifornivano di brocche, brocchetti, bottiglie, vasi da notte
e scaldaletti, questi ultimi detti monache, le quali per procurare
l’effetto desiderato, sotto le lenzuola si dovevano unire al prete.
Ma non c’era niente di sconveniente, era l’unico modo per
riscaldarsi, ma le allusioni che i grandi facevano al riguardo, le ho
capite solo dopo molti anni. Da un altro parente appignanese di nome
Livio i miei compravano le famose pezze di stoffa da portare al sarto
per confezionare qualche indumento, ma questo accadeva non più
spesso di ogni morte di papa.
Mi
piace aprire una parentesi per dire che l’antica rete di parentele,
più o meno strette, non si è esaurita, ancora oggi è così, qui ad
Appignano vivono gloriosi rappresentanti della vecchia guardia dei
Meriggi, a Treia non ci sono, e qui sono presenti anche parenti del
ramo di mia madre, gli Orsetti. Affetti che si estendono anche nella
sacralità del Cimitero dove riposano altri parenti e anche i miei
nonni materni. Molti dei vivi li vedo qui e li saluto.
Riferivo
prima del passato e mi soffermavo su nostalgie e ricordi riemersi in
me da un tempo che non c’è più. Un tempo ben descritto con un po’
di rimpianto da Mario Buldorini nel suo bel libro “Versacci
appignanesi” e da Anna Zanconi in “La casa dalle persiane rosse”
e in altri scritti. Ricordi che, per il semplice fatto di essere ben
fissati nella mia mente, testimoniano l’esistenza di un vincolo
stretto e antico tra me e questa comunità. Del resto poteva essere
solo così perché a ben vedere io, appena nato, la prima persona che
ho visto era di Appignano, la levatrice Liana e il primo medico che
mi ha curato è stato il dott. Giuseppe Falconi, appignanese, egli e
il fratello Giacinto erano anche i padroni del terreno di Chiesanuova
dove io nacqui mezzadro. Ricordo ancora mio nonno che si agitava
tutto, togliendosi il cappello, quando sentiva il clacson della
giardinetta di Giacinto che in quel modo si annunciava un chilometro
prima di arrivare. Meno traumatiche erano le visite del dott.
Giuseppe che si muoveva con la sua fiammante Giulietta. E
dopo il medico padrone fu la volta del medico pediatra, il dott.
Massaccesi, sempre di Appignano, il cui nome Raul, a casa mia fu
trasformato subito in Raole.
Ma mi fermo qui perché se descrivo
tutti i personaggi e gli aneddoti che di tanto in tanto mi ritornano
in mente dovrei dilungarmi per ore e soffermarmi sul fattore, sul
compratore delle vacche e su quello dei maiali, sul padrone della
trebbia e su tanti altri, tutti personaggi di Appignano che nel tempo
hanno avuto a che fare con la mia famiglia, come più di recente il
dott. Marzio Milesi, con i suoi inseparabili pantaloni e stivali alla
cavallerizza. Anche
per questo, e non solo, Appignano non l’ho mai sentita estranea o
indifferente.
Sono
ricordi di un’epoca che, a guardarla con gli occhi di oggi, non
appare lontana dalla fine della guerra, erano gli anni Cinquanta,
periodo vicinissimo alla fine della guerra, ancora segnato da
divisioni sociali nette, rigorose e dalle conseguenti palesi
ingiustizie: da una parte ancora qualche nobile e diversi proprietari
benestanti e dall’altra la gente comune, forse non sempre misera,
ma povera sì e in continue angustie per il pane quotidiano. Ancora
ricordo i racconti che riferivano di situazioni di assoluta povertà
soprattutto della gente del centro abitato, una povertà però sempre
vissuta, qui ad Appignano, con tanta dignità.
Ma
oggi, in questa circostanza, desidero sottolineare un aspetto che io
ritengo di notevole importanza e che non può essere sottaciuto.
Dalla povertà e anche dalla miseria gli Appignanesi hanno avuto la
forza di riscattarsi in fretta, più rapidamente di ogni altra
cittadina della zona, distinguendosi su tutti nel giro di pochi anni
per intraprendenza, capacità, voglia di sacrificarsi, impegno,
iniziativa e creatività, elementi che hanno permesso a questa
comunità di realizzare un progresso economico e sociale fino a
qualche anno prima neppure lontanamente immaginabile. E di certo la
locale classe dirigente di allora seppe anticipare quel tipo di
politica di cui oggi in Italia si parla molto, ma che si stenta ad
applicare: la politica del fare.
Forse
qualcuno, in questo momento, pensa che sto indulgendo alla retorica
in un giorno di complimenti. Non è così! Basta pensare ad un solo
fatto, al nascere di quella industria del mobile tutta frutto
dell’iniziativa locale che ha portato lavoro per Appignano e per i
paesi vicini. Forse prima che nel Fabrianese sorse qui la figura del
lavoratore cosiddetto metalmezzadro perché si divideva tra campagna,
fabbrica e famiglia. Io
mi accorsi di questo quando, ormai adolescente, ascoltavo in
famiglia, ma anche in parrocchia e al bar (che non era ancora il bar
ma solo il caffè) -ascoltavo dicevo- i ragionamenti degli adulti,
tutti all’insegna dell’ammirazione per quello che avevano saputo
fare gli Appignanesi, a differenza di altre comunità della zona che
invece assistevano quasi impotenti ad una emorragia di popolazione
verso la crescente zona calzaturiera. E mi accorgevo che a volte
quella sincera ammirazione era anche condita da un briciolo di
invidia per quella rapida crescita di questa comunità. E credetemi,
ancora oggi, quando fuori di qui si parla di quei tempi,
quell’ammirazione persiste e quello slancio degli Appignanesi verso
il progresso e il benessere è ancora universalmente riconosciuto e
additato come esempio.
E
dunque, a ragione, il senso comune e la mentalità collettiva, dal
dopoguerra ad oggi, hanno esaltato per Appignano soprattutto il
lavoro e il benessere sociale, due settori in cui la cittadina è
stata, ed è, all’avanguardia. C’è un rumore che tutti i giorni
rammenta questo agli Appignanesi: alle otto del mattino e a
mezzogiorno dal Comune suona ancora la sirena, a ricordare lo
scandire dei tempi del lavoro nelle fabbriche, e nessuno lo avverte
come fastidio, ma come ricchezza. E non mi pare che in altre località
della zona sia presente questa usanza.
Cittadina
del lavoro, dunque, ma va anche detto che per stare al passo con i
tempi e per rispondere sempre prontamente alle sollecitazioni del
progresso, Appignano ha dovuto costantemente guardare avanti, al
futuro, aggiornarsi, magari sacrificando per anni la rivalutazione
del proprio passato e delle proprie tradizioni. Forse più mobili che
libri, ma anche qui c’è stato un immediato recupero grazie alla
sensibilità, intelligenza e lungimiranza delle amministrazioni
comunali che si sono susseguite da venti anni ad oggi, le quali hanno
capito che se era vero che Appignano aveva per vocazione il pensare
al futuro, era altrettanto vero che quel pensiero non poteva
prescindere da quelle radici che traggono proprio dal passato la loro
linfa vitale. In effetti avere a disposizione per la cittadinanza
libri sulle proprie radici è indispensabile per ogni paese che vuol
continuare ad essere comunità e non si può essere comunità senza
avere coscienza della propria storia.
E
a proposito mi fa piacere sottolineare un aspetto a onore e merito di
Appignano che a me pare non trascurabile. In anni di difficoltà a
livello di risorse per tutti gli enti locali, le amministrazioni di
Appignano sono riuscite a muoversi per la cultura, settore sempre tra
i primi ad essere taglieggiato. Io posso testimoniarlo perché in
ogni circostanza è stata sempre Appignano che mi ha invitato a
collaborare su progetti ben delineati, non mi sono mai fatto aventi
io chiedendo e proponendo. Questo, ancora una volta, testimonia la
sensibilità e la volontà delle amministrazioni appignanesi nel
voler recuperare le proprie radici e di rivalutare il proprio
patrimonio storico e culturale. Ed è cosa rara che i libri
pubblicati siano stati donati a tutte le famiglie.
E
allora permettetemi di rivolgere a tutti gli Appignanesi presenti una
preghiera e di chiedere a loro di procurarmi oggi un altro motivo di
soddisfazione: portate a casa i libri sulla storia di Appignano,
soprattutto quello verde sugli statuti che non è stato molto
divulgato, il Comune ne offre una copia ad ogni famiglia e,
soprattutto, leggeteli, perché in quelle pagine ci sono le origini
della vostra identità e in quelle righe c’è scritto come voi
Appignanesi, nel corso dei secoli, attraverso sudori, sacrifici, ma
anche gioie e soddisfazioni, siete diventati così come oggi siete, e
da quelle righe emerge l’anima e lo spirito che vi
contraddistinguono, appunto, come Appignanesi.
Io
da quando ho cominciato a frequentare Appignano con una certa
assiduità ho avuto la conferma di quanto da sempre ho sentito dire:
Appignano effettivamente offre di sé l’immagine di una cittadina
viva, intraprendente, con gente aperta, attenta al benessere proprio
e della propria famiglia. Una vita sociale che ricorda un po’
quella dei villaggi di un tempo, con le persone aperte all’amicizia,
alla comprensione del prossimo, alla condivisione delle gioie e dei
dolori con i parenti, i vicini di casa, i conoscenti. E come in un
villaggio ci si conosce tutti e si sa di tutti vita e miracoli, non
solo di quelli viventi, ma anche di quelli di ieri e dell’altro
ieri che riposano all’ombra dei cipressi, eppure ancora ci si
ricorda di loro, delle loro virtù e dei loro vizi, delle loro
generosità, estrosità e stravaganze. Qui si vive a stretto contatto
di gomito, ma soprattutto di sentimenti e questo comporta il farsi
carico con generosità delle sorti altrui.
Ad
una popolazione così non si può che voler bene: abitanti impastati
di terrenità e di cuore, di genialità e di sapienza antica, di
fatti e misfatti, di sobrio scetticismo e di quello spirito fiero
incarnato dal brigante Pietro Masi, il vostro Bellente. A me pare che
gli Appignanesi abbiano ancora un forte spirito di appartenenza e
come altrove, anche qui ci sono Guelfi e Ghibellini, santi e
peccatori, devoti di S. Giovanni e Santa Tecla, ma anche di Bacco e
Venere, ma quella di Appignano resta comunque una comunità compatta,
dove rimane inviolata soprattutto la possibilità di dimorare con se
stessi e cercare un senso più che alle parole, al vivere. Qui, al
mattino, dinanzi a un manifesto funebre ancora fresco d’inchiostro
e di colla, ci si raduna e si commemora l’amico o il conoscente
scomparso, se ne rievocano le gesta amabili e non si manca di
accompagnarlo nell’ultimo viaggio. Così anche il dolore appare più
umano e partecipato e riserva quindi qualche dolcezza per il cuore.
Sentimenti e valori questi che nella massificazione delle più grandi
aree urbane purtroppo vanno scomparendo.
E
io, oggi, sono davvero felice di non essere più un appignanese
abusivo e sono orgoglioso e fiero di essere diventato cittadino di
una comunità che conserva questi valori e questi sentimenti, ancora
capaci di far raggiungere la tranquillità della propria coscienza,
che è l’unico ponte verso la felicità.
Avvicinandomi
alla conclusione rivolgo a voi una domanda che spesso ho rivolto a me
stesso: mi avete dato questo riconoscimento perché per Appignano ho
fatto lo storico, ma serve ancora la storia in un mondo come quello
odierno in cui tutto sembra essere proiettato verso il futuro? Ha
ancora senso fare il mio mestiere e scrutare il passato oggi che è
in atto un processo di mondializzazione e globalizzazione ad ogni
livello e in ogni settore? La mia risposta è sì!
Proprio perché è
in atto questo processo di globalizzazione è più che mai necessario
evitare di lasciarsi schiacciare dal livellamento globale verso cui
tutto sembra tendere, e anche la cultura. Dobbiamo evitare che le
abitudini, i costumi, i comportamenti, le peculiarità e gli stili di
vita tendano sempre più a omogeneizzarsi, col rischio di scomparire
e di far perdere le proprie radici agli individui e alle comunità.
La vostra sapienza con la terracotta, il vostro straordinario e unico
dialetto, la capacità di costruire mobili, l’antica devozione per
la chiesetta dei santi, sono espressioni uniche della vostra identità
che non possono essere gettate nel dimenticatoio. Allora credo che
bisognerà dedicare più energie per salvare e rivalutare le identità
e questo è possibile farlo dedicando più attenzione e più risorse
al recupero e alla valorizzazione delle tradizioni e del patrimonio
storico anche delle piccole realtà, perché li si trovano le radici
delle identità. I libri di storia sono strumenti utili e
indispensabili per non disperdere le proprie radici, ma anche per
cogliere gli aspetti positivi del passato e per non ripeterne gli
errori.
Concludo
ringraziando e salutando tutti i presenti, le autorità che mi hanno
onorato con la loro presenza, e rinnovando al Sindaco e a tutti gli
Appignanesi i sensi della mia gratitudine per l’onore conferitomi
quest’oggi, impegnandomi a garantire, nei limiti delle possibilità
e capacità umane, se richiesto, di collaborare con voi anche per il
futuro. E in questo momento mi piace pensare che quando tu Osvaldo e
l’amministrazione avete deciso di rendermi appignanese con la carta
intestata, sapevate già che io nel cuore ero da sempre “unu de
Pignà”.
Grazie! Alberto Meriggi
Intervento letto ad Appignano il 27 giugno 2015 per il conferimento della cittadinanza onoraria.