giovedì 16 luglio 2015
L'emissione di cattivi odori è ora perseguibile per legge
Una recente sentenza della Corte di Cassazione riconduce le molestie
provocate dalle emissioni di cattivi odori al "getto pericoloso di
cose" e riconosce il valore probatorio delle testimonianze dirette,
vista l'impossibilità di accertamenti tecnico-scientifici
L’emissione di cattivi odori è uno dei problemi più ricorrenti negli
esposti e segnalazioni che pervengono ad ARPAT.
Si tratta però di un problema di non facile soluzione, sia perché non
sempre è possibile per i nostri operatori verificarne l’effettiva
presenza al momento dei sopralluoghi, sia per la difficoltà di
individuare con certezza la fonte emissiva.
Questo può accadere specialmente in aree vaste, dove non insistono
impianti particolarmente a rischio o, al contrario, in aree densamente
industrializzate dove sono molti gli impianti potenzialmente a
rischio.
Tuttavia, la conoscenza delle tipologie di insediamenti che insistono
nel territorio, e la ricorrenza delle segnalazioni consente spesso ai
nostri tecnici di individuare le cosiddette fonti puntuali.
Fondamentalmente vi sono due tipologie di emissioni perseguibili
provenienti da attività produttive:
emissioni di sostanze inquinanti, che rientrano nell'ambito
dell'inquinamento atmosferico;
miscele di composti gassosi (che possono in parte coincidere con
quelle inquadrate nell’ambito dell’inquinamento atmosferico) che
producono anche molestia olfattiva ossia gli "odori molesti"
Per le emissioni di sostanze inquinanti la legislazione è ampia e
chiara (parte V del D. Lgs 152/06 e smi di seguito TUA –Testo Unico
Ambientale). Il superamento dei limiti fissati per le emissioni in
atmosfera di attività produttive, fissato dalla normativa vigente e
indicato negli atti autorizzativi, è sanzionato ai sensi dell’art 279
del TUA che prevede la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda.
Qualora il superamento dei limiti tabellari determini anche il
superamento dei valori limite di qualità dell’aria previsti si
applica, ai sensi del comma cinque del medesimo articolo, la pena
detentiva dell’arresto fino a un anno (pena quindi, non
oblazionabile).
I sistemi di autocontrollo delle aziende, i monitoraggi in continuo e
i controlli da parte dei soggetti istituzionali - tra i quali ARPAT -
garantiscono un elevato grado di sicurezza sul rispetto dei limiti. I
parametri per la caratterizzazione e misurazione degli inquinanti
seguono metodologie validate e certe, tanto che le stesse aziende sono
in grado di intervenire direttamente in caso di criticità impreviste.
Per quanto riguarda le emissioni odorigene, l'attività di contrasto
risulta molto difficile infatti pur esistendo norme tecniche per la
loro misura[1],ad oggi in Italia[2] l’inquinamento olfattivo non è
disciplinato in maniera specifica dal legislatore e mancano
completamente dei riferimenti normativi cogenti sui livelli di
accettabilità degli odori e del disagio olfattivo (unica eccezione è
contenuta nel DM 29/01/2007che richiama le Migliori Tecniche
Disponibili per i Biofiltri). Il Testo unico ambientale, infatti, pare
ricomprendere implicitamente l’inquinamento olfattivo nella
definizione di "inquinamento atmosferico" di cui all'art. 268 comma 1
lett a [3] , tuttavia non prevede limiti, espressi in unità
odorimetriche, alle emissioni di sostanze odorigene dagli impianti e
metodologie o parametri per valutare la rilevanza o meno del livello
di molestia olfattiva da essi determinato, limitandosi a qualche
riferimento o enunciazione di principio riguardo alla problematica
dell’impatto olfattivo (ad es in materia di rifiuti l’art. 177,
prevede che la gestione degli stessi debba avvenire "senza causare
inconvenienti da odori").
La molestia olfattiva è nondimeno da considerarsi una forma di
inquinamento che può causare pesanti disagi per la qualità della vita
e per l’ambiente ed ormai è consolidato l’orientamento
giurisprudenziale che riconduce tale tipo di molestie al reato
previsto dalla parte seconda dell’articolo 674, codice penale “getto
pericoloso di cose” che punisce “chiunque getta o versa, in un luogo
di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui
uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero,
nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di
vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti."
La recente sentenza della Corte di Cassazione (sent. Cass. pen sez 3.
num 12019 del 10 febbraio 2015) afferma che il reato di cui all'art.
674 del Codice penale è configurabile anche in presenza di "molestie
olfattive" promananti da impianto munito di autorizzazione per le
emissioni in atmosfera e rispettoso dei relativi limiti, non riferiti
però agli odori (quindi sanziona le molestie olfattive a prescindere
dalla sussistenza dell’inquinamento atmosferico). Nel caso esaminato
dalla recente sentenza i valori limite autorizzati per le immissioni
erano stati rispettati dall’imputato, tuttavia tali limiti non si
riferivano agli odori e proprio gli odori erano risultati molesti
sulla base delle testimonianze degli abitanti residenti nelle
vicinanze dell’impianto. La sentenza ha inoltre individuato quale
parametro di legalità dell’emissione quello della "stretta
tollerabilità", attesa l'inidoneità ad approntare una protezione
adeguata all'ambiente e alla salute umana del criterio della "normale
tollerabilità", previsto dall'art. 844 del Codice civile, che in
un’ottica strettamente individualistica e non collettiva, tiene conto
non solo della sensibilità dell’uomo medio, ma anche della situazione
locale (infatti, l’autorità giudiziaria nell’accertare il superamento
della “normale tollerabilità”, deve contemperare le esigenze della
produzione con le esigenze della proprietà e può tener conto della
priorità di un determinato uso.)
In secondo luogo la sentenza in commento ha riconosciuto che qualora
difetti la possibilità di accertare strumentalmente in modo obiettivo
l’intensità delle emissioni odorigene, la molestia olfattiva possa non
esser "accertata" in via scientifica e “il giudizio sull’esistenza e
sulla non tollerabilità delle emissioni odorigene può ben basarsi
sulle dichiarazioni di testimoni, specie se a diretta conoscenza dei
fatti, quando tali dichiarazioni non si risolvano nell’espressione di
valutazioni meramente soggettive o in giudizi di natura tecnica, ma
consistano nel riferimento a quanto oggettivamente percepito dagli
stessi dichiaranti”. È auspicabile che la successiva giurisprudenza
chiarisca i tratti distintivi del criterio di stretta tollerabilità
rispetto al criterio maggiormente noto, della “normale tollerabilità”
previsto dall’art. 844 codice civile.
Fonte: Arpat
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