martedì 1 marzo 2016

"Come gestire i conflitti ambientali" - L'approccio di Sergio Vazzoler



Abbiamo intervistato Sergio Vazzoler * recentemente intervenuto sull'argomento all'iniziativa Come gestire i conflitti ambientali.
Abbiamo censito l'esistenza di 83 casi di contestazioni/conflitti ambientali in Toscana nel 2014. Impianti di smaltimento di rifiuti, di produzione energetica (specialmente biomasse), infrastrutture di mobilità, esistenti o in progetto, sono gli oggetti di queste situazioni. Si ha l'impressione che non sia possibile realizzare più niente nei nostri territori. È così? Quale dovrebbe essere la strada da seguire?
Attorno alla mancanza di fiducia nei confronti dei decisori pubblici, si è creato un nefasto circolo vizioso dove diventa assai complicato distinguere tra progetti di sviluppo sostenibile e opere ad elevato impatto ambientale. A mancare sono i fondamentali: certezza delle regole e comunicazione trasparente. Aspetti, questi, che vengono ancora prima della richiesta di partecipazione e coinvolgimento da parte delle comunità locali. Spesso, infatti, in caso di conflitti ambientali, l’attenzione si concentra sulle modalità di partecipazione adottate o meno ma il fattore decisivo riguarda il modo in cui nascono e muovono i primi passi i progetti di impianti, infrastrutture o opere.
È in questa fase iniziale che si creano le condizioni del conflitto, in quanto il decisore pubblico è spesso incerto o opaco nel definire l’iter amministrativo e autorizzativo, così come la volontà politica di realizzare i progetti di sviluppo sul territorio appare timida e contradditoria. E la comunicazione va di pari passo: si preferisce rimanere sul vago, sull’ipotetico e non si investe da subito in un piano di comunicazione dettagliato che veda pubblico e privato uniti nella condivisione delle regole d’ingaggio.
Da qui si lasciano eccessivi spazi di manovra alle strumentalizzazioni e alle mistificazioni, spesso fondate più sul gioco delle parti che non sul merito del progetto. E la strada diventa tutta in salita. Al contrario, chi ha la responsabilità delle scelte, dovrebbe riscoprire tanto la cultura dell’ascolto quanto quella della responsabilizzazione dei cittadini. A tal proposito dovremmo tutti ricordarci la frase scritta da Aldo Moro nel 1978, poco prima del suo rapimento, che indicava come si sarebbe rivelata effimera la stagione dei diritti senza far rinascere nel Paese il senso del dovere.
Viceversa, così tante contestazioni non possono indicare una qualità della progettazione che tiene poco conto degli impatti ambientali e sulla salute delle persone?
Sarebbe un errore generalizzare. Ci sono progetti che rispettano tutte le prescrizioni di legge in tema ambientale e spesso sono persino migliorativi rispetto alla norma e altri, invece, che cercano la scorciatoia per aggirare i vincoli e risparmiare sugli investimenti. Ma, sinceramente, non penso che il principale problema della mole di contestazioni sia imputabile a questo fattore. Semmai è proprio la “cornice” in cui si collocano questi progetti a influire sulla loro accettabilità sociale: oltre all’incertezza delle regole e al deficit di comunicazione di cui parlavo prima, aggiungerei anche il sistema dell’informazione a livello locale.
Seppur con le dovute eccezioni, i media locali spesso inseguono le contestazioni senza la necessaria terzietà, in quanto l’allarmismo “paga” di più rispetto alla divulgazione e all’approfondimento sul merito dei progetti. Alla fine, dunque, abbiamo una situazione i cui ognuno dice la sua, nessuno ascolta e nessuno decide. Al contrario, come ricorda il Prof. Cassese, i cinque passi fondamentali sono in sequenza: informare, ascoltare, discutere, decidere e motivare la decisione.
Pensa che una forma di regolamentazione per legge della partecipazione del pubblico ai processi decisionali che riguardano le opere di interesse pubblico, analoga al Dibattito pubblico in Francia, potrebbe servire?
Intanto occorre partire da un dato di fatto: è da anni che i diversi governi che si susseguono annunciano l’imminente introduzione nella legislazione italiana di un istituto analogo al Débat Public. Ma poi evidentemente si è preferito glissare per i troppi veti incrociati. Ora con la riforma del Codice degli Appalti sembriamo vicini alla concretizzazione del dibattito pubblico, almeno per le grandi infrastrutture strategiche. Sulla sua utilità, ci sono fior fiore di esperti che sostengono l’inefficacia del dibattito pubblico in quanto modalità troppa timida rispetto a forme di vera e propria democrazia diretta, altri invece che si oppongono strenuamente per il paventato rischio di un ulteriore rallentamento del processo decisionale.
Personalmente non condivido né l’una né l’altra posizione e vedo favorevolmente l’introduzione di una qualche forma di regolazione nazionale dei percorsi di partecipazione. Perché innanzitutto il dibattito pubblico può servire a far crescere il Paese da un punto di vista culturale rispetto al tema dell’equilibrio tra sviluppo, ambiente e salute: le imprese e le istituzioni si devono allenare a una maggiore interazione con le comunità locali mentre i cittadini imparano ad approfondire il merito delle questioni. È la logica dei vasi comunicanti, dove ognuno mette in comune un pezzo di conoscenza e cede un pezzo di sovranità. E, ritornando alla lezione di Aldo Moro, è il modo per tenere insieme diritti e doveri.
Le agenzie ambientali, fra i loro compiti istituzionali hanno quello di raccogliere, organizzare e diffondere i dati ambientali. Che impressione hai della situazione esistente in tal senso? E cosa dovrebbero fare le agenzie ambientali in materia di diffusione dei dati ambientali?
Penso che la gestione dei dati ambientali sia un compito centrale, destinato ad assumere un valore crescente. L’impressione è che siamo di fronte ad una situazione a macchia di leopardo tra le diverse agenzie ma, in generale, manca ancora una forte connotazione alla divulgazione e in qualche caso alla “traduzione” del dato tecnico in informazioni facilmente comprensibili e confrontabili. Qualche tempo fa ho ascoltato un consigliere comunale affermare che “la politica non deve occuparsi dei dati ambientali”: per ribaltare questa sgangherata visione del ruolo del “controllore”, occorre far sì che chi raccoglie, organizza e diffonde questi dati utilizzi una comunicazione diversa, con meno acronimi, più infografiche e glossari.
Più in generale, dal suo punto di vista di professionista della comunicazione, che lavora soprattutto nel settore privato, cosa si aspetterebbe dalla comunicazione di una ARPA?
Le ARPA devono osservare e misurare attentamente le richieste delle comunità in termini di accesso alle informazioni ambientali. Soltanto tramite un ascolto strutturato delle istanze dei cittadini (e non solo quelle dei gruppi organizzati) si potrà calibrare la comunicazione esterna dei temi ambientali. L’obiettivo a cui tendere è diffondere dati e conoscenze interagendo con i propri interlocutori (e non solo informarli): è così che si accorciano le distanze e si fanno vivere delle esperienze da cui trarre maggiore consapevolezza rispetto a temi indubbiamente complessi e delicati. Pur nel rispetto dei ruoli diversi, penso che tutti i soggetti che comunicano l’ambiente devono seguire un percorso comune: abbandonare i propri schematismi e la routine per intraprendere una strada fatta di ascolto, dialogo, feedback e rielaborazione continua. Insomma, anche le ARPA devono compiere un salto culturale ancor prima di pensare a quello o quell’altro strumento di comunicazione: sta qui la sfida da cogliere.

Consulente in comunicazione istituzionale, politica e ambientale, si occupa da oltre quindici anni di gestione del consenso, stakeholder engagement e community relations. Membro del Comitato Scientifico di FIMA (Federazione Italiana Media Ambientali) e socio professionista FERPI (Federazione Italiana Relazioni Pubbliche). È amministratore e partner di Amapola - Talking Sustainability, società di consulenza specializzata nella comunicazione di sostenibilità.
(Fonte: Arpat)

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