Ci sono voluti undici anni di misure, ma alla fine la quantità di plastica che galleggia al centro del Pacifico Settentrionale, la cosiddetta “Great Pacific Garbage Patch” è stata determinata con una certa accuratezza. Si tratta di un'immensa massa di spazzatura che vaga nell'Oceano Pacifico: oltre 21 mila tonnellate di microplastica, in un’area di qualche milione di kmq con una concentrazione massima di oltre un milione di oggetti per kmq.
L’accumulo è noto da parecchio tempo, perlomeno dalla fine degli anni ’80, e ha un'età di oltre 60 anni. Un gigantesco vortice di correnti superficiali ha concentrato in quest’area i rifiuti formati principalmente da materiali plastici gettati o persi da navi in transito, o scaricati in mare dalle coste del Nord America e dall’Asia. Questa concentrazione, oltre che dall’effetto focalizzante delle correnti, dipende dal fatto che la plastica non è biodegradabile e permane per tempi lunghissimi nell’ambiente. Una lentissima degradazione a opera principalmente della luce del Sole, scompone i frammenti plastici in sottili filamenti caratteristici delle catene di polimeri. Questi residui, non sono metabolizzabili dagli organismi, e finiscono per formare un vero e proprio “brodo” nell’acqua salata dell’oceano.
Effetti tossici
Gli effetti per l’ambiente non sono stati ancora studiati in maniera approfondita e appaiono di difficile valutazione data l’estensione del fenomeno e le scale temporali associate, ma sono probabilmente importanti. Si pensa soprattutto alle alte concentrazioni di PCB (molto tossici e probabilmente cancerogeni) che possono entrare nella catena alimentare visto che i filamenti plastici sono difficilmente distinguibili dal plancton e quindi ingeriti da organismi marini, ma anche alla capacità della microplastica di fornire un supporto alla proliferazione di colonie microbiche di patogeni. Più in generale, è preoccupante la presenza di rifiuti pervasivi e tossici, in un ecosistema fondamentale, durante periodi di decine o centinaia di anni.
Anche nel Mediterraneo?
L’Isola di Plastica, che non e’ presente solo nell’Oceano Pacifico ma anche in Atlantico e probabilmente in Mediterraneo, non è solo un disastro ambientale incalcolabile ma è la metafora più precisa e terribile del fallimento del nostro modello di sviluppo. E’ un’ isola in mezzo all’oceano, quindi non è di nessuno, e nessuno se ne assume la responsabilità, tanto che i dati scientifici sono frammentari e acquisiti per la maggior parte con il contributo di associazioni ambientaliste come la SEA (Sea Education Association) che ha raccolto i dati dell’ultimo studio pubblicato su Environmental Science & Technology. E’, infine, la materializzazione del nostro incubo da “apprendisti stregoni” in un Pianeta che pretendiamo di controllare attraverso scorciatoie di comodo, che non prendono in considerazione l’impatto delle nostre azioni sull’ambiente e che, inevitabilmente, ci si ripercuotono contro.
L’accumulo è noto da parecchio tempo, perlomeno dalla fine degli anni ’80, e ha un'età di oltre 60 anni. Un gigantesco vortice di correnti superficiali ha concentrato in quest’area i rifiuti formati principalmente da materiali plastici gettati o persi da navi in transito, o scaricati in mare dalle coste del Nord America e dall’Asia. Questa concentrazione, oltre che dall’effetto focalizzante delle correnti, dipende dal fatto che la plastica non è biodegradabile e permane per tempi lunghissimi nell’ambiente. Una lentissima degradazione a opera principalmente della luce del Sole, scompone i frammenti plastici in sottili filamenti caratteristici delle catene di polimeri. Questi residui, non sono metabolizzabili dagli organismi, e finiscono per formare un vero e proprio “brodo” nell’acqua salata dell’oceano.
Effetti tossici
Gli effetti per l’ambiente non sono stati ancora studiati in maniera approfondita e appaiono di difficile valutazione data l’estensione del fenomeno e le scale temporali associate, ma sono probabilmente importanti. Si pensa soprattutto alle alte concentrazioni di PCB (molto tossici e probabilmente cancerogeni) che possono entrare nella catena alimentare visto che i filamenti plastici sono difficilmente distinguibili dal plancton e quindi ingeriti da organismi marini, ma anche alla capacità della microplastica di fornire un supporto alla proliferazione di colonie microbiche di patogeni. Più in generale, è preoccupante la presenza di rifiuti pervasivi e tossici, in un ecosistema fondamentale, durante periodi di decine o centinaia di anni.
Anche nel Mediterraneo?
L’Isola di Plastica, che non e’ presente solo nell’Oceano Pacifico ma anche in Atlantico e probabilmente in Mediterraneo, non è solo un disastro ambientale incalcolabile ma è la metafora più precisa e terribile del fallimento del nostro modello di sviluppo. E’ un’ isola in mezzo all’oceano, quindi non è di nessuno, e nessuno se ne assume la responsabilità, tanto che i dati scientifici sono frammentari e acquisiti per la maggior parte con il contributo di associazioni ambientaliste come la SEA (Sea Education Association) che ha raccolto i dati dell’ultimo studio pubblicato su Environmental Science & Technology. E’, infine, la materializzazione del nostro incubo da “apprendisti stregoni” in un Pianeta che pretendiamo di controllare attraverso scorciatoie di comodo, che non prendono in considerazione l’impatto delle nostre azioni sull’ambiente e che, inevitabilmente, ci si ripercuotono contro.
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