Formalizzando la realtà in campi, piani, prospettive o
suggestioni è possibile riconoscere dinamiche altrimenti occulte. È
possibile compiere un passo verso una condizione individuale e
sociale meno alienante e perniciosa. Verso il benessere
individuale-comune. Un fine concreto a mezzo della nostra evoluzione
di emancipazione dalle inconsapevolezze che ci trattengono in schemi
arbitrari ma vissuti come definitivamente veri. È possibile
edificare un’altra storia a mezzo di un’altra concezione del
reale?
«Una persona può rappresentarsi un qualunque fenomeno, per
esempio il proprio stipendio o le proprie malattie, in modo non
adeguato e, tuttavia, quella rappresentazione sarà del tutto reale».
(1)
Realtà oggettiva
Crediamo esserci una cosiddetta realtà oggettiva. Questa, è una
stregua di un oggetto. La possiamo maneggiare e conoscere in modo
definitivo condiviso. È una realtà figlia dell’inconsapevolezza.
E corrisponde a ciò che siamo.
«Mettere l’accento sul fatto che “la conoscenza,
indipendentemente da come viene definita, sta nella testa delle
persone, e che il soggetto pensante non ha alternativa: può solo
costruire ciò che sa sulla basedella sua stessa esperienza”».
(2)
Ciò che siamo e che nel momento sentiamo genera un’interpretazione
del reale che rispetta il sentimento che ci anima. Questo, in quanto
tale, è sinonimo di vita. Ovvero, non rispettarlo è sinonimo di
morte. È infatti mortificante quando è vissuto come una violenza,
ed è alienante quando ignaramente subìto. Come sappiamo, nessuno
vuole impedirsi di vivere, neppure simbolicamente. Anche l’azione
contro di sé soggiace a questa dinamica. Quando il mondo è nero –
questo e null’altro che esiste nel sentimento suicida – senza più
vie di fuga, la sola soluzione per continuare ad essere è
affermare, comunicare la propria condizione a mezzo di un’ultima
scelta, simbolicamente, un urlo di vita. Condizione disperata o
ordinaria, in ambo i contesti ciò che affermiamo riflette la nostra
biografia, ed è evacuato dal retto della nostra storia.
Inconsapevoli del vincolo egoico, utilizziamo argomenti che
giudichiamo razionali per sostenere le nostre istanze, ma che invece
– nuovamente – sono frutto del nostro
interesse-sentimento-emozione-concezione. Di razionale hanno solo
l’intento, il falso involucro, la suggestiva confezione. Non
vestono che una maschera, autorizzata dalla cultura genuflessa al
razionalismo. Una sorta di velo di maya, una specie di spinta in
fondo alla caverna platonica che ci impedisce di conoscere come
stanno le cose. Di conoscere le energie sottili in campo.
«Essa risponde all’esigenza di una decisa svolta epistemologica
[...], da realizzarsi attraverso il superamento della tradizionale
separazione su cui si fonda ogni indagine scientifica: quella che
immagina un universo del tutto indipendente dall’osservatore, e,
dall’altra parte, un osservatore comodamente collocato nella God’s
eye view». (3)
La fede che abbiamo nel razionalismo ci legittima a sopraffare il
prossimo dialetticamente – ma non solo – inferiore. A mezzo del
fondamentalismo con il quale la professiamo, con facilità arriviamo
all’arrocco dell’arrampicamento sui vetri. Insuperata evidenza
della natura emozionale delle scelte. E del muro protettivo entro il
quale confiniamo l’infinito che siamo.
Con queste premesse è ordinario arrivare ad escogitare ed eleggere i
protocolli, quali assoluti espedienti di indagine. Tuttavia, questi,
per quanto utili in contesto amministrativo, sono disumani in
ambiente relazionale. I protocolli, per quanto aggiornabili, sono per
ontologia schemi chiusi con i quali classifichiamo gli uomini, e il
loro peculiare infinito.
«Ciò che abbiamo affermato in relazione all’individuo vale
anche per lo scienziato. Uno scienziato elabora una teoria, un corpus
di costrutti con un punto focale e un ambito di pertinenza». (1)
Con i quali, senza avvedercene, perpetuiamo il meccanicismo, quella
concezione che ci riduce alla stregua di macchine. Un aberrato
procedere le cui conseguenze hanno a che vedere con una forte spinta
alla creazione di patologie e alienazioni. La satanica dinamica si
ripete con le ideologie, null’altro che protocolli anabolizzati.
Ideologie a mezzo delle quali non abbiamo difficoltà
all’autoreferenziale proclamazione di chi le adotta a detentore
della verità definitiva.
Le inconsapevolezze che stanno alla base di queste ordinarie modalità
di comportamento, legittimate in oggettive solo e soltanto per
consuetudine, hanno anche altri oscuri riflessi. Arrivano a toccare
il vanesio desiderio di immortalità, in quanto implicano il
tentativo di perpetuare se stessi, attraverso l’alimentazione del
campo in cui hanno effettivamente dominio. È inopportuno il paragone
con la missione inseminatrice maschile. Questa riferisce una forza
biologica, non ha nulla di vanesio, semmai lo cavalca. Semmai, è
l’opportunità per ricordare che la simmetrica fertile missione
femminile, ha più lo spirito del dono e contemporaneamente
dell’accoglienza e del rispetto di ciò che si ha e di ciò che è.
Non c’è nel femminino né spada né scudo.
Non basta. Per quanto inconsapevolmente, quel procedere
conquistatorio è portatore di un’arroganza grave. Nella misura in
cui cerca di costringere la vita entro la propria concezione delle
cose, ritiene di essere al pari, nonché superiore, alla natura.
Tuttavia, tale modalità, entro la propria società, famiglia, clan,
circolo, club, campo, da arrogante si muta in giusta, doverosa,
necessaria, separatoria, da difendere. Ogni ideologia, sia minuta,
contingente o strutturata è una guida che ci fa talebani. Una
metamorfosi ai cui estremi sta la potenzialità devastatrice e la sua
strumentalità. Solo il gradiente di emancipazione nei confronti dei
protocolli e delle ideologie ci spinge verso una o l’altra
estremità.
Il medesimo discorso, la medesima critica si può formulare in altro
modo, attraverso il molle piede di porco dell’argomentazione
concettuale, l’entità che nella nostra cultura intellettualistica
gode del massimo credito e dunque di potere.
«Meccanica classica, poiché il grande successo di questa scienza
non lasciava alcun dubbio circa il suo carattere obiettivo». (4)
Che però è, tra quelle che abbiamo, la dote più superficiale ed
inconsistente in termini di evoluzione umana. Non ci si fa caso ma lo
spirito demoniaco insito nel razionalismo è che l’esperienza sia
trasmissibile. Un Tallone d’Achille che prima o poi diverrà noto
anche ai più miopi. Se l’esperienza fosse trasmissibile la
troveremmo scritta nel grande librone della storia, la studieremmo e
saremmo definitivamente saggi. Ma per quanto evidente e banale sia
riconoscere che non lo è, procediamo a testa bassa nell’arido
solco del razionalismo. La prevaricazione che esso compie nei
confronti dei nostri pensieri e delle nostre politiche non viene
registrata, né criticata se non da alcuni settori di studiosi, non a
caso di ambito relazionale (psicologi, pedagoghi, linguisti, ecc).
Tuttavia, anch’essi – generalizzo, pardon – sebbene il
razionalismo tenda per sua ontologia al meccanicismo e al
positivismo, poco si adoperano per la promozione di un’emancipazione
popolare nei confronti del mito che ne sorregge il fantoccio.
«Si deve smettere, una buona volta, di lasciarsi accecare dalle
idee e dai metodi ideali e regolativi delle scienze “esatte”, e
in particolare nella filosofia e nella logica, come se il loro in sé
fosse realmente norma assoluta, tanto per quanto riguarda l’essere
oggettuale come per quanto riguarda la verità». (5)
Infine, attraverso il criterio razional-intellettuale si crede di
poter contenere e dirigere la vita, non a caso, ridotta a storia.
Così, è stata uccisa l’etica delle comunità, disciolta nel
mantra che il business is business. Mantra al quale siamo stati
educati e con il quale abbiamo guidato le nostre vite. Ma forse, per
quanto mortificati e allontanati da se stessi, gli uomini non
potranno mai veder morire lo spirito di bellezza con il quale sono
venuti al mondo. Chi lo desidera può fare la sua parte scendendo
dalla giostra del consumismo.
Diversamente, volendo continuare a girare, restando nocchieri di
finte carrozze, e a cavallo di finti destrieri, non facciamo altro
che riproporre frattalicamente la storia, inclusa quella parte che
contemporaneamente critichiamo. Storia che, sotto il cielo digitale,
costellato dal firmamento tecnologico, seguiterà a vendere
eterodirette previsioni tecno-zodiacali, indispensabile bromuro da
spargere nella polveriera sociale.
L’esito è funesto: nessuna evoluzione umanistica. Se accodarsi al
canone trasmesso dai passacarte filogovernativi è egoisticamente
ordinario, creativamente è esiziale. Una considerazione d’importanza
fondamentale se si dispone della consapevolezza che l’uomo è
infinito. Quando le nostre potenzialità vengono ridotte a pochi
parametri protocollabili, la dimensione della castrazione è
incalcolabile.
Si tratta di modelli funzionali al sistema culturale e politico, che
per molti sono soli disponibili. Incantesimi mai svelati che
divengono i soli campi in cui esplicare la vita propria e altrui.
Vista la maggioranza che abita la superstizione del razionalismo, si
può parlare di legittimità causa ingenuità.
«Gregory Bateson definisce tale credenza [dell’oggettività.
Nda], testualmente “una forma di superstizione”». (6)
Va ricordato infatti che è il credito che diamo al prossimo, a
maggior ragione se incensato dalla meritocrazia che l’autorevolezza
del guru e delle mostrine convalida, che crea il campo di
condivisione. Che genera il vincolo energetico attraverso il quale
soddisfiamo le esigenze della nostra identità. Da ciò alla realtà
il passo è inesistente. Nel discorso (Foucault, Lacan, Bateson,
Watzlawick, Maturana) si sviluppa la verità. Una peciosa rete
emotiva che impedisce la critica. Simbolicamente, che impedisce la
morte.
Pare così di comunicare. In realtà ci si sta muovendo in territori
dove ambo le parti del dialogo conoscono i percorsi e le loro
caratteristiche. Dove gli accessi del muro che ci avvolge,
normalmente ermetici al cospetto della differenza da sé, sono
spalancati. Ciò che le due parti si passano sono conforti alla
propria posizione e concezione. I reciproci implementi di pensiero
avvengono in quanto si fermano e si integrano su una rete strutturale
dalle maglie idonee a recepire quel discorso e non altri.
Avviene che, tanto più il campo e il linguaggio ad esso idoneo sono
limitati, tanto più l’equivoco tende a svanire (matematica), come
l’autoreferenzialità a crescere (imbonitore). Significa che le
parti in dialogo compiono un’osservazione sovrapponibile del mondo.
L’etica, la morale, le leggi, eccetera sono campi solo
occasionalmente comuni dove si concretizzano i dialoghi, quindi la
pace.
«Cambiare i significati delle parole implica cambiare gli ambiti
di azione e cambiare gli ambiti di azione implica cambiare il modo di
convivere». (7)
Occasionalità che si catalizzano solo e soltanto quando i ruoli con
i quali ci identifichiamo sono reciprocamente riconosciuti. Ovvero
quando le parti traguardano il mondo attraverso la medesima
prospettiva. Utilitaristicamente allineano a qualche dato tra gli
infiniti.
Qualunque sia l’osservazione condivisa, rispetterà il principio
del fermo immagine. Nel dialogo interno o condiviso con altri, dal
grande volume degli elementi della realtà in permanente movimento e
variabile relazione di tutti con tutto, creiamo o estraiamo e
fermiamo i medesimi dati. Dalla dinamica caotica del nostro
autoreferenziale cosmo personale estraiamo una bidimensionale
fotografia, sulla quale speculiamo con serena certezza, ignari di
rispettare solo le spinte della nostra biografia. È qui che avviene
il più vero dialogo, ma leggi, il più potente. È infatti un falso
scambio in cui accade di non aggiungere o modificare nulla di noi
stessi. Tranne quel dato al quale mancava un solo gradino nella rampa
infinita della vita. Il processo si verifica solo tra pari grado
di competenza specifica. È in questo tipo di realtà che sorge
l’idea della sua oggettività. In essa infatti, tanto
l’affermazione, quanto il giudizio (anch’esso un’affermazione)
sono estensioni di noi stessi. Toccarle, criticarle, ne comporta
l’automatica difesa o offesa. Siamo nel territorio del domino
dell’io su noi stessi. In cui tra noi stessi e l’io non c’è
soluzione di continuità. Come pure tra noi stessi e il campo di
realtà in cui ci muoviamo, soli o accompagnati.
La realtà oggettiva si genera anche dalle classificazioni e dalle
intitolazioni.
«Il nome proprio, tuttavia, in questo gioco non è che un
artificio: permette di additare, cioè di far passare furtivamente
dallo spazio in cui si parla allo spazio in cui si guarda, cioè di
farli combaciare comodamente l’uno sull’altro come fossero
congrui». (8)
Significa che quando si ha a che fare con qualunque oggetto, se a
questo corrisponde un nome o una categoria, come per esempio lo è
una noce, questa non è altro che una noce. Ovvero, l’infinito di
esplorazione che contiene il mettersi in relazione sensoriale e
spirituale con essa è scacciato dalla realtà, è perduto. Così con
un essere umano. Se schizofrenico, esso corrisponde a quella
struttura che, per quanto argomentabile, è stata arbitrariamente
definita e accreditata. Dal cosmo che può svelarci uno sciamano,
sotto il titolo di ciarlatano, a parte il conforto benpensante e
scientista, non troveremo nulla. Il nostro potere, la nostra
conoscenza resterà costretta entro le categorie, giudizi e
classificazioni nelle quali i saperi cognitivi ci costringono.
«”Don Juan dice: ‘Vedi quello?...’, e Castaneda risponde:
‘che cosa? Non vedo niente’. La volta seguente, don Juan dice:
‘Guarda qui’. Castaneda guarda e dice: ‘non vedo un bel
niente’. Don Juan si dispera, perché vuole davvero insegnargli a
vedere. Finalmente don Juan trova la soluzione. ‘Ora capisco qual è
il tuo problema. Riesci a vedere solo ciò che sai spiegare. Lascia
perdere le spiegazioni e vedrai’”». (9)
Realtà soggettiva
Trovarsi sul medesimo campo, impiegare il medesimo linguaggio piegato
alle medesime accezioni, tende ad essere esperienza frequente in
ambito tecnico-amministrativo. Ma vale anche in campo relazionale.
Per lo psicoterapeuta, portare l’assistito in un campo condiviso e
utile al recupero della stabilità emozionale è scopo primario. Solo
così potrà avviare l’opportuno dialogo evolutivo di presa di
coscienza di come, quando ed eventualmente perché, una certa
interpretazione del reale ha prevaricato la stabilità emozionale del
suo paziente.
«Queste resistenze, sia nel comunicare un costrutto sia nel
sottoporlo a verifica, costituiscono una delle sfide più impegnative
per lo psicoterapeuta nella relazione con il paziente». (1)
Si tratta di contesti puri, in cui tutti
comprendiamo tutto. Più facilmente siamo in ambiti spuri,
contaminati. Quelli in cui, volenti o nolenti, cerchiamo di far
prevalere la nostra posizione, il nostro io, la nostra
interpretazione del mondo. La cui figurazione prevede un campo
per ogni osservatore. Ognuno dei quali – inconsapevolmente –
ritiene il proprio come il solo valido e vero. Campo il cui sinonimo
è universo. Quindi universi e cosmogonie tanto differenti, quanto
inconsapevoli credono di dialogare affidandosi al razionalismo e alla
propria accezione del linguaggio impiegato. L’equivoco e il
conflitto ne sono l’ordinario epilogo.
«Identificano la conoscenza con l’universalità, considerano le
teorie come gli autentici veicoli dell’informazione e cercano di
ragionare in modo canonico o “logico”. Vogliono sottomettere la
conoscenza al dominio di leggi universali». (10)
La cultura non aiuta a divenire consapevoli dell’assurdo procedere.
Forse un utopistico matriarcato o un ritorno effettivo del femminino
nella politica, potrebbe provvedere a tanta ottusità biecamente
marziale. La nostra cultura, razionalisticamente strutturata,
intellettualisticamente delimitata, riduce l’infinito alle poche, –
quantunque siano – categorie nelle quale comprimere il Tutto nel
niente che sa.
Tanto più ci identifichiamo con la nostra area di interpretazione,
in modo direttamente proporzionale la difenderemo fino al conflitto
e/o arriveremo ad essere disponibili alla sopraffazione del prossimo.
Tutto ciò è il peso e la potenzialità della realtà soggettiva.
Una dimensione che – nuovamente – in certa pedagogia e in certo
ambito psicoterapeutico trova totale capacità di accoglienza, quindi
di dignità, rispetto e parità. Doti che, culturalmente-socialmente
si riducono di consistenza fino a svanire nelle situazioni di scontro
relazionale.
«Vi sono importanti differenze tra il mondo della logica e il
mondo dei fenomeni, e queste differenze devono essere tenute presenti
ogni volta che basiamo le nostre argomentazioni sulla parziale ma
importante analogia tra i due mondi». (11)
Navighiamo ordinariamente in acque facilmente pronte alla burrasca
emozionale. Ovvero con ridotte doti di governo su noi stessi. Alla
riflessione, alla presa in carico delle affermazioni altrui, reagiamo
secondo ruolo, in sua difesa, per un motto d’orgoglio. Una virtù
tanto apprezzata e perseguita quanto tossica. Ogni volta che una
relazione ci procura e provoca malessere siamo nell’evidenza di non
aver saputo come raggiungere le acque chete delle rade. Lo scontro è
dunque in agguato tra campi di realtà inconsapevolmente differenti.
Non è inconsapevole di queste forze e dinamiche il provocatore,
l’impostore, il delatore, il proboviro, l’ipocrita, il despota.
Anche nei campi soggettivi viene inconsapevolmente adottato il
sistema del fermo immagine. Per interesse personale evinciamo dalla
molteplicità dell’infinito una realtà bidimensionale che non
ammette letture differenti dalla nostra. Queste ultime ci risultano
sempre in qualche punto inficiate. Con strumenti razionali ci
adoperiamo allora a piegarle entro le forme che ci corrispondono.
Oppure, non godendo di dignità, divengono una ragione di
allontanamento, separazione, interruzione della relazione. Il
conflitto è ontologicamente latente. L’identificazione con il
proprio giudizio, celebra il dominio dell’io su noi stessi. Al
diavolo il prossimo.
«Ogni cosa, nella nostra coscienza, è come la si era messa, ma
poi si scopre che non si era padroni in casa propria, che non si vive
da soli nella propria stanza e che ci sono in giro spettri che
buttano all’aria le nostre realtà, e che questa è la fine della
nostra monarchia. Se però lo si capisce nel modo giusto e nel modo
che ci mostra lo yoga tantrico, il riconoscimento del fattore
psicogeno è, semplicemente, il primo riconoscimento del parusa. È
l’inizio del grande riconoscimento». (12)
L’individuo in qualche misura consapevole dei rapporti di forza
presenti nelle relazioni e in qualche misura idoneo a governare
l’azione e i tempi – vedi i venditori e gli affabulatori –
sanno dell’esistenza dei campi soggettivi, sanno come
entrare nel nostro, come farsi aprire i portoni del guscio in cui
creiamo il nostro equilibrio e la nostra verità, sanno come
trascinarci nella rete che hanno predisposto per il loro vantaggio.
Sanno riconoscere quando affondare.
Il campo oggettivo e quello soggettivo si abbracciano e si lasciano
secondo sottili psicobioalchimie relazionali sulle quali normalmente
non v’è controllo alcuno. Se così non fosse saremmo saggi da
migliaia di anni. Da epoche lontane avremmo ereditato culture di
armonie, in sostituzione di quelle che invece godiamo, cariche di
alienazione, frustrazione, sofferenza, infelicità.
Realtà nella relazione
«Dovremmo metterci in relazione con gli latri trattandoli non
come oggetti, ma come esseri che, come noi, costruiscono». (13)
Se le realtà Oggettiva e Soggettiva si riducono ad una soltanto e
hanno carattere razionalistico, quella relazione ha un fondamento
estetico, in quanto emerge dal recupero della dimensione estetica
dell’esserci (Hidegger).
Consapevoli dei campetti di gioco che ognuno impiega per formulare
verità e regole, per stabilire i falli laterali, i fuori gioco e le
espulsioni diviene possibile riconoscere che realtà oggettive e
soggettive sono soggette alla medesima critica, al medesimo limite.
Sono la medesima realtà la cui variazione risiede nel condividere o
meno la posizione altra.
«La fede nella possibilità che formarci al pensiero della
relazione ci aiuti a danzare le nostre interazioni quotidiane in
forme meno degradanti, meo aggressive, meno distruttive. In forme
maggiormente rispettose di noi stessi, degli altri, dei contesti
sociali e naturali che abitiamo». (6)
È una consapevolezza che ne include un’altra. Quella della logica
del proprio ruolo, quando a questo ci identifichiamo. Identificarsi
con qualcosa, titolo, ruolo, posizione sociale, eccetera comporta il
difenderne l’onorabilità. Comporta la reazione piuttosto che la
riflessione su quanto ci viene mosso a critica.
La consapevolezza che la realtà viene da noi creata in funzione
della relazione che abbiamo con ciò che consideriamo esterno a noi
permette di formulare l’idea che la realtà stia solo e soltanto
nella relazione. Il bello e il brutto, il vero e lo sbagliato, il
giusto e l’ingiusto, il pesante e il leggero, fanno capo a noi, non
ad una arbitraria misurazione risedente presso il Museo di arti e
mestieri di Parigi quale prototipo referente di una verità
assolutamente condivisa. Fanno capo all’idea duale del mondo che
comporta una realtà a noi esterna. Tutte le classificazioni, come i
giudizi, fanno capo al nostro giudizio e sentimento. Considerarlo
definitivo è all’origine di conflitti, malesseri e malattie.
«Il riguardo, la crudeltà e l’egoismo sono una questione di
interpretazione e costruzione. Il mondo non si presenta di per sé
con delle etichette adeguate: siamo noi ad assegnargliele, nel
tentativo di dare un senso alle cose». (13)
Ma ciò non costituisce una premessa per concludere che dobbiamo
astenerci da qualsivoglia ruolo o giudizio. Piuttosto, che la
consapevolezza che questi ci trascinano in terreni motosi quando
espressi sotto il dominio dell’io.
La figurazione della realtà nella relazione è uno spazio aperto,
nel quale, con distanza variabile, dal contatto all’infinito, i
singoli campi d’interpretazione e concezione di ogni persona si
muovono secondo i ritmi delle forze in campo. Forze cosmiche che ci
attraversano e si interrompono, deviano, ristagnano o scorrono in
funzione direttamente proporzionale alla nostra armonia, alla nostra
capacità di amare e/o di non pretendere. Ovvero di emancipazione dal
nostro io.
Tutti i campi, tutti noi, che ci muoviamo nel medesimo fluido
energetico, siamo anche emissari di forze. Queste agiscono
indipendentemente dalla nostra capacità di riconoscere l’azione o
reazione che provocano. È la nota questione del battito d’ali di
una farfalla in Amazzonia che scatena la tempesta nei cieli del
Texas. Tutto è contiguo e organico, ben oltre quanto si possa
considerare dal razionalistico piano materialista.
«La microfisica ha rivelato – a livello di particelle – i
limiti della nostra possibilità di osservazione: non è possibile
conoscere simultaneamente posizione e velocità di una particella, ed
è di conseguenza impossibile una descrizione oggettiva della realtà
fisica». (14)
Con la consapevolezza di questo volume – da cui volumetria come
concezione della realtà nella relazione – in cui la vorticosità è
autopoieticamente regolata, il tempo lineare mostra la sua
arbitrarietà e il suo limite. Esso diviene sentimento. Si allunga
nel malessere, si ferma nel benessere. Le verità fenomenologiche e
costruttiviste prendono corpo e significato.
È un territorio cosmico in cui la presa di distanza dal proprio io,
dal proprio giudizio, diviene non solo possibile ma necessaria per
non cadere nei difetti del mondo che l’importanza personale
necessariamente crea. In cui si riconosce di cosa è capace l’uomo
se dominato dall’io e dell’infinito che viene liberato a
emancipazione compiuta. In cui evoluzione individuale e bene comune
non presentano discrepanze; in cui alla pari dell’affermazione di
sé avremo come arma di convivenza l’ascolto. Quello strumento
di conoscenza e vita tendenzialmente occulto, ma assai più duttile e
utile di un banco di esperti black and decker, dove chi buca,
buca, chi pialla, pialla e guai a dirgli qualcosa. Dove la creatività
e i talenti individuali non sono repressi nel rispetto di esiziali
leggi produttivistiche.
I saperi scompongono la realtà. Credere in essi è uccidere
conoscenza, è determinare verità e considerarle oggettive. La
conoscenza impone la meraviglia.
«Malgrado la tesi di Kant che l’intelletto non attinge le sue
leggi dalla natura, ma le prescrive ad essa, la maggior parte degli
scienziati si sentono ancora oggi “scopritori”, coloro che
rivelano i segreti della natura e allargano lentamente ma con
sicurezza il campo del sapere umano; e innumerevoli filosofi si
dedicano al compito di assicurare a questa conoscenza faticosamente
acquisita l’inconfutabilità che tutti si aspettano dalla verità
“autentica”». (15)
Lorenzo Merlo
1, George
Kelly, La psicologia dei costrutti personali, Raffaello
Cortina, 2004
2, Ernst
von Glasersfeld, Il costruttivismo radicale, Odradek, 1995
3, Heinz
von Foerster e Ernst von Glasersfeld, Come ci si inventa,
Odradek, 2001
4, Ilya
Prigogine, La fine delle certezze, Bollati Boringhieri, 2014
5, Lothar
Kelkel e René Schérer, Husserl, Il Saggiatore,1966
6, Sergio
Manghi, La conoscenza ecologica, Raffaello Cortina, 2004
7, Humberto
Maturana e Ximena Davila, Emozioni e linguaggio in educazione e
politica, Eléuthera, 2006
8, Michael
Foucault, Le parole e il discorso, Rizzoli, 2016
9, Heinz
von Foerster, Sistemi che osservano, Astrolabio,1987
10, Paul K.
Feyerabend, Addio alla ragione, Armando, 2004
11, Gregory
Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, 1990
12, Carl
Gustav Jung, La psicologia del Kundalini-yoga, Bollati
Boringhieri, 2004
13, Trevor
Butt, George Kelly e la psicologia dei costrutti personali,
Franco Angeli, 2009
14,
Conserva, La stupidità non è necessaria, La Nuova Italia,
1996
15, Paul Watzlawick (a cura di), La realtà inventata,
Feltrinelli, 2008