Rispetto a dove ci sta portando la politica, dovremmo andare in
direzione opposta. Ma la
sveglia non ha suonato. Siamo in netto ritardo sullo svolgersi della
giornata. Le scelte sono già state prese. Non solo senza di noi, ma
molto tempo prima che ci svegliassimo. È un’osservazione
distribuibile a tutte le circostanze politiche di quest’epoca che
vogliono resettare. Il cui scopo è realizzare il necessario per
controllare le persone, in quello che pensano e fanno.
Sirene per un esiziale sortilegio
Uno degli espedienti impiegati allo scopo dell’avanzamento della
politica del resettaggio è il diversivo. Così, mentre ci si danna
su quisquiglie, vengono portate avanti leggi e scelte che ci
riguardano e delle quali non ci avvediamo se non in ritardo.
Tuttavia, anche le quisquiglie sono funzionali allo scopo del
controllo.
La questione del genere e, più in generale, del politicamente
corretto ne sono campioni degni di encomio.
Non si può dire nano, frocio e spazzino. È un divieto sostanziale
per proteggere i deboli, che sono magari felicemente grassi o
vanitosamente smilzi. Non si può neanche più
dire bruto
al violentatore, perché sennò si offende e poi non bisogna
escluderlo. Quindi suppongo che non si possa neppure dire che
il politicamente corretto sia ripugnante, nonostante lo sia. Non
tanto per il culmine di ipocrisia da record del mondo che implica;
non tanto per la sua virulenza nei confronti del sistema immunitario
della cultura e delle identità, quantomeno pari a quella raggiunta
con l’ideologia dell’esportazione della democrazia; ma per la
sostanzialità della questione di sostegno ai cosiddetti deboli. Il
massimo danno della cancellazione delle culture, della proibizione
delle parole, della riscrittura della storia, della ossessiva
digitalizzazione e in particolare quella relativa all’id e al
denaro, è proprio su di loro che ricade, come una mannaia imposta e
voluta da chi crede di poter governare secondo politiche che nulla
hanno più a che fare con noi.
Se così non fosse, tra le innumerevoli opzioni disponibili, si può
osservare quella delle crescenti stragi di compagni classe, dei mitra
scaricati a scuola e al lavoro, delle psicopatologie e delle
patologie gravi in endemico crescente numero. Sulla carta bastanti a
ripensare dove siamo arrivati, e invece mercato farmaceutico di
arricchimento. Emblemi della deriva dell’opulenza, dell’edonismo,
dell’individualismo, del positivismo, del liberismo, del
materialismo, nei confronti dei quali ulteriori
diversivi vengono buttati nella mischia della somma di poveracci che
fanno coincidere la vita e la verità con quella che vedono dal
divano. O, peggio, con quella che considerano scienza.
Disastri umani e sociali, con un costo che gli stessi poveracci sono
obbligati a sostenere, nei confronti dei quali il nulla di valido
potrà essere realizzato per il loro bene e tutto sarà fatto per
incrementare gli incassi degli speculatori. Rispettabili persone che,
protette dalle leggi e dal senso comune, diranno “stavo solo
lavorando”. Mi chiedo se anche per questi esisterà, come per i
loro originali, una Norimberga che processi e condanni il
capitalismo.
Non si tratta di essere contro la protezione dei deboli. Si tratta di
ritenere la modalità legale, impositiva e punitiva, del tutto
inidonea, sconsiderata e inutile. Di considerarla una ideologia buona
per imbambolare, per riempire la saccoccia di autostima fondata sul
buonismo e su un altruismo di superficie.
Riferire la responsabilità ad una parte
soltanto, sottrarla del tutto all’altra, è cosa spiritualmente vuota, che una volta di più riduce la realtà
e l’uomo alle regole del meccanicismo. Assolutamente inadeguate per
gestire le dinamiche
relazionali.
L’opportuna direzione per prendersi cura
delle persone va in senso diametralmente opposto. Come la diffusa
azione vittimistica ha generato il diritto per legge del presunto
debole, così in direzione opposta, nella consapevolezza che la
nostra azione ha un potere immenso di creazione della realtà,
operando per la forza interiore, genereremmo un contesto sociale più
genuino e sereno. Ci emanciperemmo dal considerare l’altro alla
stregua di una terra rappresentabile dalla mappa che usiamo noi per
muoverci nella vita.
In direzione opposta
Qual è lo scopo della prima educazione?
Tra i molti, uno è da eleggere. Quello che intenta lo sviluppo
creativo, la forza d’animo, l’indipendenza di pensiero,
l’autonomia critica. Quello che conduce a credere in sé stessi, la
sola modalità per sfruttare al meglio tutti i gradienti di talento
che abbiamo in noi. La miglior via per discernere in funzione della
propria natura. Il maggior rischio di realizzare una vita storica
ricca e serena. La condizione ideale per prevenire incidenti,
sofferenze e malattie.
La miglior educazione tende ad affermare l’abitudine prima, e le
relative consapevolezze poi, per non cercare fuori, ma dentro di noi
le ragioni dello stato delle cose. Per disporre del massimo rischio
di arrivare a illuminarle e a trasformare in oro quel piombo che ci
aveva afflitti. A non chiedere, ma a dare. A donare e non pretendere.
A trarre spunto dagli altri, per scoprire in quali termini a nostra
volta abbiamo identicamente fatto. Ovvero a mutare
l’esperienza in scuola evolutiva. L’educazione dovrebbe
provvedere a formare in noi il necessario per riconoscere la verità
della reciprocità e della pari dignità, ovvero l’idea di essere
identici a parità di circostanze. A riconoscere che giudicare separa
e che la separazione è all’origine di ogni conflitto. Infine, a
prendere coscienza della struttura dell’io, della sua logica
coercitiva. Un passo che contemporaneamente comporta giungere a
riconoscere il proprio sé, plinto dell’armonia.
È una concezione educativa che va in opposta direzione a quella in
essere nell’attuale cultura globalista. Sostanzialmente basata
nella protezione dei cosiddetti deboli,
diversi, esclusi. Nell’interpretazione delle
loro istanze, allo scopo di elaborare leggi che sanciscano i loro
diritti ad essere, ma che di fatto non sono che imposizioni e
condanne nei confronti di un linguaggio voluto offensivo nei loro
confronti.
Ma affermare la supremazia della logica del diritto del cosiddetto
debole è una consuetudine alla cura che non cura, ma mantiene, cioè
alimenta il diritto di restare cosiddetto debole e quindi di
mantenere la dipendenza dalla richiesta di aiuto. Nessun debole
troverà in questa modalità meccanicistico-fittizia il necessario
per un’evoluzione esistenziale che lo renda forte, che renda
ridicolo offendersi per un frocio. Se lo sei, lo sei. Se non lo sei,
non lo sei. L’offesa non sta nella parola, sta
nell’interpretazione. Chi la pronuncia per offendere ottiene il suo
scopo per ragioni di dominio sull’altro, non per la parola
impiegata.
Per quanto il linguaggio, come i pensieri, facciano la realtà, resta
vero che questa, quando è fenomenologicamente vissuta, perde il
potere che ha su di noi. Solo in questo modo diviene possibile
ridurre la portata di sofferenza di vessazioni, violenze, abusi,
lutti, dolori. Gli insulti solo tali in chi reagisce. Ma se reagisci,
vuol dire che sei sotto il dominio dell’io, di quell’entità a
cui dai tutto te stesso senza avvederti che è all’origine del male
che senti e che fai. Se reagisci, dai potere a chi non l’avrebbe
senza una stupida reazione.
Nessun regno della storia dei poteri si è mai occupato dei deboli e
delle minoranze in quanto tali. Lo hanno
fatto altre minoranze, altre congreghe
senza portafoglio. Se ora se ne occupano nientemeno che i fuochisti
del mondo, come non pensare che il loro interesse di controllo –
che implica quello economico e politico – non passi attraverso i
luccichini lanciati negli occhi delle masse?
L’educazione è nella forza. Che altro è la fiducia in sé? In che
altro modo allenarla? Come altrimenti riconoscere le vie per
raggiungerla? Che altro dovrebbe fare l’educazione, se non operare
per questo progetto di bellezza?
Quando la direzione educativa si dedica al protezionismo senza
occuparsi di ciò che genera il problema, quindi anche
dell’educazione di coloro che non sono considerati deboli, ovvero
della maggioranza delle persone, non fa altro che dare acqua alla
pianta del vittimismo e al suo fiore mai passito della continua
richiesta di aiuto, capace di arruolare soltanto insetti felici di
trarne linfa.
La strada verso la migliore invulnerabilità va in opposta direzione.
Passa attraverso la ricapitolazione di quanto ci ha coinvolto e
ferito, al fine di una rivisitazione che ci permetta di osservare
come avevamo attribuito la responsabilità del nostro male e la sua
sostanziale arbitrarietà, spesso travestita da occulto moralismo,
ideologia, dogmi, scientismo, autoreferenzialità. Per poi giungere a
chiudere la ferita, ad andare oltre, a tornare liberi e creativi,
quando riconosciamo come assumerci la responsabilità che prima senza
incertezze attribuivamo all’altro.
Non è una responsabilità limitata al diritto e ai suoi succedanei
da proboviri del buon senso, geniale idea per organizzare il sociale,
ma anche per impedirne l’evoluzione spirituale. È quella estesa al
punto da rendere chiaro che senza noi il mondo non esiste e che,
quindi, tutto quello che vi accade è a causa nostra. Quella capace
di smantellare l’identificazione con l’io, causa di tutte le
interpretazioni guarda caso sempre rispettose della biografia che le
esprime.
Un’educazione contiene un’iniziazione. Contiene cioè il
necessario affinché si possa fare piena esperienza del fatto che
rialzarsi dalle cadute è possibile a chi cerca in sé, ed è
difficile a chi cerca fuori da sé le ragioni di quanto accaduto.
Vale lo stesso per la capacità di
sofferenza, resilienza, lotta, dedizione, impegno, essenziali per la
fiducia in sé, per sapere di potercela fare,
per riconoscere il potere della fede, miglior motore per
arrivare ovunque. Resilienza, non come lotta
con se stesso, o contro gli altri, ma realizzabile a mezzo della
contemplazione, la sola modalità che può liberarsi dal
chiacchiericcio massacrante dell’io, capace di emettere solo forza
momentanea, sterile, slegata dal profondo.
Non abbattersi, o ridurre al minimo l’urto di evento indesiderato,
è mantenere o recuperare al più presto la disponibilità della
creatività. Al contrario, abbattersi è mortificarla, è mantenere
il necessario per non uscire dalla situazione sconveniente. Come
si spiega sennò l’handicappato di successo e il ricco, bello e
bravo finito suicida?
“I pensieri di ansia e di paura sono
spaventose forze che dimorano in noi e che con il loro esiziale
effetto, avvelenano alla radice le energie vitali, distruggendo
l’armonia, la normale efficienza, la vitalità ed il vigore. Mentre
i pensieri di tutt’altra natura, quali i pensieri di contentezza,
di gioia e di coraggio recano forti e soavi virtù che accrescono
immediatamente la capacità di moltiplicare all’infinito i poteri
della mente.” (1).
Di questa direzione si occupa certa psicoterapia e certa pedagogia.
E, sebbene modulata per altri scopi ben lontani dal bene comune, se
ne occupa con considerevole successo certa modalità formativa di
venditori e funzionari.
È di questa educazione ad uso sociale e non privato che dovrebbe
occuparsi la politica, se il suo scopo fosse la cura della
cittadinanza, se in sé avesse la lungimiranza. In questa direzione è
implicata la capacità dell’accettazione, della rinuncia, della
sconfitta. Che in nessun modo allude alla remissività.
L’accettazione è uno strumento potentissimo per mantenere
l’equilibrio, per evitare di precipitare, per scacciare le sirene
della falsa autostima fondata sul vincere sempre.
L’accettazione è uno strumento per creare il
potere dell’assunzione di responsabilità. A sua volta mezzo per
trasformare in scuola gli eventi che ci hanno colpito, per cessare di
investirli con nostre proiezioni, per perdonare e diffondere la
miglior educazione, ovvero il bene e l’amore. Il suo contrario,
cioè il rifiuto dell’accettazione e di conseguenza il mantenimento
dell’attribuzione di responsabilità, non è invece altro che
strumento utile a ripetere quanto ci ha colpiti, a mantenere le
premesse per la sofferenza.
E invece no. Niente di tutto questo. Tutto ridotto a un buonismo
d’origine ideologica e moralista, fondato su istanze razionali, le
meno adatte alla conoscenza.
Conoscere sé, i propri sentimenti, osservare il legame che implicano
o sentirne l’indipendenza. Riconoscere le
emozioni e la loro forza, aver chiaro cosa comportano in noi e negli
altri, non sono temi sul tavolo della politica. Ma sono su quelli
delle psicopatologie. Un settore in incremento costante dall’epoca
della modernità, quella dell’alienazione sociale. Incremento
prevedibilmente da esponenzializzare nell’attuale epoca della
digitalizzazione ossessiva. La migliore per diffondere la pandemia di
un virus esistenziale, destinato a sottrarre da sotto i piedi il
punto di appoggio delle identità individuali, sociali, culturali.
Crescere persone in grado di amare, distinguerlo dal possedere
richiede a gran voce di seguire una direzione opposta a quella dei
diritti civili. Solo tra persone compiute si può realizzare la
giustizia e l’inclusione. Solo con il contrario dell’affermazione,
ovvero con l’ascolto come elemento costitutivo dell’educazione,
si può pensare di ridurre i contrasti sociali, si può vedere la
pena e l’assurdità di soluzioni quali le quote rosa, il
politicamente corretto, l’utero in affitto, le famiglie secondo
diritto, il femminismo limitato alla divisione dei poteri e dimentico
che il suo vero potere sta nella celebrazione del femminino, non
nella colpevolizzazione del mascolino, e il divieto di dire “ciao
bella” senza il rischio di essere perseguiti. Arriveremo
alle quote azzurre da parte di qualche stupido maschio finito dentro
al torbido ciclone del femminismo quantitativo.
La concezione del progresso in essere ci ha portato in uno stato
sociale e politico drammatico. La linea da seguire per tentare di
sottrarsi a tanta imbecillità va esattamente in opposta direzione.
Il rispetto dell’altro basato sull’imposizione del diritto
colpevolizza chi non lo esegue, ma non ha spessore. È quello fondato
sull’ascolto che lo prevede, come suo frutto che dovrebbe essere
ricercato, promosso, diffuso, fatto cultura. Ma si tratta di una
linea contraria all’individualismo, al mors tua vita mea, a
gli affari sono affari, formulette bastarde nascoste sotto
strati di diritti, in cui l’educazione
all’ascolto è esattamente il contrario del cinismo sul quale sono
eretti. L’ascolto corrisponde alla conoscenza dell’altro e di sé.
Tutti i titoli di giornali, tutte le forme, tutto il cincischiare e
il dibattere lo imbrattano. L’ascolto è un’antenna e
quell’antenna siamo noi. Puri recettori della verità delle cose,
quando appunto non invischiati in misere lotte. L’ascolto permette
alla madre di relazionarsi al bimbo senza l’aiuto di dottrine,
senza doverlo imparare. L’ascolto è in noi e dedicarsi alla verità
del diritto ne è l’assassinio.
C’è un registro di potenza interiore in cui
nessuno, se dici frocio, si offenderà. Perché non lo è o
perché lo è. L’insulto è in noi, non nel
“frocio” che qualcuno può dirci.
Semmai, possiamo essere insultati soltanto da
una politica mercantile lontana anni luce dalle ragioni per le quali
abbiamo dato il nostro voto. Lontana dalle aspirazioni di un contesto
sociale creativo e sereno. Mancare di parola è un insulto, e la
politica lo ha fatto. Mancare di rispettare la natura dell’uomo è
un insulto, e la politica lo ha fatto.
La trama della debolezza
Ma si tratta di note vuote. Che si uniscono alla considerevole
quantità di interventi di filosofi, di psicoanalisti, di giornalisti
a-regimici, di intellettuali
senza portafoglio, che da anni vanno urlando, criticando, piangendo,
pregando, insultando la politica. Entità senza
più neppure uno straccio di cordone ombelicale con le persone, con i
loro interessi, con la loro cura. Votata alla corta misura
dell’interesse personale, genuflessione all’altare del nuovo
ordine della vita a punti.
Ma come siamo arrivati a tanto? Una risposta è nell’aver creduto
negli uomini, nella democrazia, nel positivismo di fondo della
cultura materialista in cui nasce e cresce anche il più
spiritualista. Una fede che ha comportato che
anche la più lungimirante e critica
avanguardia si rivelasse sempre e molto inconsapevolmente in ritardo
rispetto a chi detiene le leve del comando. I potentati commerciali,
i neocon
e loro sodali hanno ben chiaro in quale condizione d’incantesimo le
loro fandonie hanno rinchiuso i nostri pensieri. La loro pasturazione
arriva da molto lontano, da molto prima che i critici la
denunciassero. Ma, nel frattempo, avevano già comprato la libertà
di pensiero della maggioranza, quando non acquisita per libera scelta
di quelli convinti con un benefit
qualunque.
Esattamente così come era successo con
l’islamismo, ideologicamente aizzato dall’impurità dei
miscredenti d’Occidente e dalla loro blasfema invasività nella
cultura musulmana, che aveva imbrattato di pornografia varia i
pilastri della loro civiltà. Il conflitto terroristico con
l’Occidente, a parole, era un tentativo per esonerare l’Islam
dalla purulenta contaminazione. Di fatto, quell’odio si scatenava
in ritardo. Ed era dovuto proprio dalla constatazione che l’infezione
aveva già attecchito, che anche l’Islam o il suo ideale erano già
stati infettati.
Il potere era avanti, e di un bel pezzo. È avanti di un bel pezzo.
La digitalizzazione e la questione dei diritti civili non sono un
allarmante segno dei tempi che verranno, ma un’esiziale
attestazione che il dominio del pensiero è già stato compiuto.
Il multipolarismo, la riduzione di egemonia
atlantica fanno paura agli zerbini europei. Come spiegarsi sennò il
razzismo vantato a petto in fuori, come un motto d’orgoglioso
dovere, nei confronti di inermi lavoratori e semplici cittadini
russi, nei confronti della cultura russa? Hanno paura, fino a
emettere sentenze che vanno oltre un’ipotetica moltiplicazione
della già orrenda distopia orwelliana in essere. Hanno emesso una
condanna contro Putin, come se la Corte penale internazionale
dell’Aia fosse un organo super
partes. Al quale, tra l’altro, per
evitare autogol, Stati Uniti e Ucraina non aderiscono (2).
Siamo nella geopazzia.
C’è da sperare in un Tribunale internazionale di San Pietroburgo o
Novosibirsk che dir si voglia, che metta in pari le nefandezze della
storia americana e quelle di questi anni alla deriva della salubrità
umanistica. Lo spessore d’inquinamento politico-culturale con cui
l’Occidente ricopre il mondo impedisce alla maggioranza di noi di
vedere la natura monda della realtà. Ma non è opera da stupidi,
come direbbe certa avanguardia sprovveduta. È un’azione studiata,
una strategia, un ultimo appello e tentativo di impedire l’avvento
dell’Eurasia, e la conseguente possibile autarchia americana.
Lorenzo Merlo
Note
Swami
Sivananda, La potenza del pensiero,
Produzione Babaji, 1973, p. 33.
https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/03/20/travaglio-arresto-di-putin-zelensky-e-biden-esultano-ma-non-riconoscono-la-corte-penale-dellaja-perche-temono-di-finirci-davanti-su-la7/7102728/.