Il soffio del cielo.
Il senso del luogo.
L’incantesimo della parola.
La Rete degli Agricoltori Custodi
La Rete Bioregionale Italiana
L’immagine di una treccia d’aglio, in una dimensione estetica unica, riassume il lavoro che ho svolto in questi anni: l’aglio con i suoi numerosi bulbilli simboleggia l’insieme delle esperienze che ogni singola unità porta al suo interno; gli agli legati assieme da un esile filaccio rappresentano la creazione del nuovo linguaggio che si è cercato di costituire attraverso la comunicazione tra le singole unità che in qualche modo sono state coinvolte nel progetto: agricoltori custodi, ricercatori, salvatori di semi, scuole, associazioni culturali e laboratori di ricerca.
Una ricerca iniziata nel 2005
Questa ricerca è iniziata nel 2005. Mentre svolgevo, attraverso il Centro Documentazione Case di Terra del Comune di Casalincontrada, una ricerca sul campo delpaesaggio delle case di terra, casualmente all’interno di una casa di terra, adibita a magazzino, ho trovato un autentico tesoro. La stanza terrosa era pervasa dalla luce pallida e polverosa proveniente dalla finestrella rivolta verso il tramonto. Questa luce amplificata in modo naturale dal vetro opaco e dai vecchi intonaci in calce dei muri, illuminava una serie di barattoli di tutti i colori e grandezze. Ho costretto quasi i miei accompagnatori, Ada e Domenico, una coppia di anziani agricoltori, ad aprire uno per uno i barattoli; sotto i miei occhi si susseguivano semi stupefacenti per bellezza e consistenza. Sono stati i primi agricoltori custodi della rete che andavo a cercare di costituire.
Lo scambio del seme
Nell’intervista mi hanno raccontato della scambio del seme che si effettuava tra gli agricoltori della zona, come forma di protezione; se un agricoltore perdeva il seme per singolari eventi, qualcun altro lo conservava. Il seme nello scambio manteneva più alta la germinabilità per le diverse qualità
del terreno dove veniva seminato successivamente. L’adattabilità del seme ai diversi microclimi lo rendeva più fecondo. Lo scambio investiva anche la sfera della socializzazione, nell’insieme dei rapporti umani che si allacciavano tra gli agricoltori anche con informazioni specifiche sulle varietà agronomiche scambiate. In genere le donne erano predisposte alla conservazione del seme per l’anno successivo. Esse scambiavano la semenza: spesso la varietà manteneva il nome dell’amica o parente con cui si era effettuato lo scambio, per esempio: “pomodori di Emma”. A volte le donne portavano in dote assieme al corredo varietà di sementi non presenti nella famiglia acquisita.
del terreno dove veniva seminato successivamente. L’adattabilità del seme ai diversi microclimi lo rendeva più fecondo. Lo scambio investiva anche la sfera della socializzazione, nell’insieme dei rapporti umani che si allacciavano tra gli agricoltori anche con informazioni specifiche sulle varietà agronomiche scambiate. In genere le donne erano predisposte alla conservazione del seme per l’anno successivo. Esse scambiavano la semenza: spesso la varietà manteneva il nome dell’amica o parente con cui si era effettuato lo scambio, per esempio: “pomodori di Emma”. A volte le donne portavano in dote assieme al corredo varietà di sementi non presenti nella famiglia acquisita.
Salvare i semi tradizionali
L’intervista si concluse con la presa di coscienza,anche un po’ dolorosa, che tale rete di rapporti sociali si era improvvisamente interrotta negli anni sessanta con la cosiddetta “rivoluzione verde”. In quegli anni cio’ che è stato definito in seguito dalla scienziata indiana Vandana Shiva “monocultura della mente” ha alterato l’equilibrio dell’ecosistema e la biodiversita biologica è stata debellata come fosse un parassita, nell’illusione di rendere la natura più controllabile, mentre le diversità culturali venivano cancellate o al limite bollate come superstizioni arcaiche. I contadini sono stati incentivati a buttare i semi locali e seminare i semi dei moderni ibridi che devono essere ricomprati ogni anno dalle multinazionali. Frutta e verdura tradizionali non possono competere con gli ibridi moderni in fatto di produttività, aspetto esteriore, adattabilita’ al confezionamento e al trasporto meccanizzato. In compenso, oltre ad adattarsi meglio all’ambiente locale, richiedendo meno pesticidi, sono spesso piu’ saporiti e nutrienti. Perdere la semenza di una varietà tradizionale, selezionata nel tempo,equivale alla sua estinzione. L’unica speranza è salvare quei semi prima che sia troppo tardi.
La creazione di una rete di Agricoltori Custodi
A questo punto ho avuto il desiderio immediato non solo di salvare i semi anche e soprattutto riattivare il sistema dello scambio attraverso la creazione di una rete di Agricoltori Custodi. Ho scelto di agire in due modi: a livello orizzontale ricucendo le relazioni tra gli agricoltori; a livello verticale attivando il dialogo tra gli agricoltori custodi e le istituzioni predisposte, come orti botanici, laboratori di ricerca, scuole, associazioni culturali. Orizzontalmente ho agito in due fasi: nella prima ho riattivato lo scambio tradizionale tra gli agricoltori appartenenti alla stessa comunità rurale. In pratica ho portato io stesso, all’inizio, i semi e le piantine da un posto all’altro, poi pian piano si sono riallacciate vecchie conoscenze e lontane parentele. Oggi, non si puo dire che questo scambio funzioni in modo continuo, anche se è cambiata la mentalità degli agricoltori, che in un certo senso hanno preso coscienza del patrimonio colturale che hanno sottomano. Mio obiettivo è stato dare tutela, dignità e valore al lavoro degli agricoltori custodi che, invece di percorrere la via piu’ facile legata alle colture intensive, hanno scelto di tradurre sul campo il concetto di agribiodiversità.
I salvatori di semi
Nella seconda fase ho cercato di coinvolgere il giro di amici e parenti in una piccola rete di “salvatori di semi”. Piccoli orti sparsi un po’ dovunque; a chiunque ha voluto semi da adottare li ho dati sempre volentieri, spiegando l’importanza del loro gesto, pregandoli di raccogliere il seme per l’anno successivo. Spesso li ho invitati a seguire e documentare tutto il ciclo della pianta, dalla germinazione del seme fino al raccolto dei frutti, anche con foto o un piccolo diario. A tal proposito è stato interessante l’impianto di alcuni orti cittadini, progetto ”orto in città”. E’ stato veramente una grande soddisfazione vedere grossi e rossi pomodori succosi tra muri e recinti cittadini o anche in vasi, su terrazzi e balconi.
La collaborazione con l’Orto Botanico di Penne
A livello verticale, ho attivato una convenzione di collaborazione con l’Orto
Botanico di Penne, riconosciuto con L.R. 35/97 parte integrante della Riserva Naturale Regionale Lago di Penne. I semi sono stati catalogati e selezionati con la direttrice, dott.ssa Caterina Artese. Parte delle sementi recuperata è stata conservata in frigo, come banco dei semi, un’altra parte è stata usata per un campo-catalogo all’interno dell’orto botanico. Sono state realizzate le schede di rilevamento per l’ARSSA di tutte le varietà colturali recuperate, con interviste dirette, nelle case o anche sui campi, con gli agricoltori custodi. Sono stati organizzati incontri, sempre a Penne, tra salvatori di semi, ricercatori, rappresentanti di parchi e riserve, associazioni agricole regionali; è stato stabilito un decalogo da rispettare nella coltivazione dei semi che si ricevono in custodia e un registro con i nomi delle varieta ricevute. Ho svolto, poi, un lavoro capillare di sensibilizzazione attraverso la partecipazione a seminari, convegni e mostre. Come il seminario dal titolo “La Rete degli Agricoltori Custodi”che si è svolto nell’azienda agricola “La Quagliera” a Spoltore; la mostra “Semi Proibiti”, dove semi e piantine sono stati provocatoriamente esposti in un allestimento
di arte contemporanea, sempre a Spoltore; l’incontro annuale della Rete Bioregionale Italiana a Pizzone, nel Parco Nazionale d’Abruzzo.
Botanico di Penne, riconosciuto con L.R. 35/97 parte integrante della Riserva Naturale Regionale Lago di Penne. I semi sono stati catalogati e selezionati con la direttrice, dott.ssa Caterina Artese. Parte delle sementi recuperata è stata conservata in frigo, come banco dei semi, un’altra parte è stata usata per un campo-catalogo all’interno dell’orto botanico. Sono state realizzate le schede di rilevamento per l’ARSSA di tutte le varietà colturali recuperate, con interviste dirette, nelle case o anche sui campi, con gli agricoltori custodi. Sono stati organizzati incontri, sempre a Penne, tra salvatori di semi, ricercatori, rappresentanti di parchi e riserve, associazioni agricole regionali; è stato stabilito un decalogo da rispettare nella coltivazione dei semi che si ricevono in custodia e un registro con i nomi delle varieta ricevute. Ho svolto, poi, un lavoro capillare di sensibilizzazione attraverso la partecipazione a seminari, convegni e mostre. Come il seminario dal titolo “La Rete degli Agricoltori Custodi”che si è svolto nell’azienda agricola “La Quagliera” a Spoltore; la mostra “Semi Proibiti”, dove semi e piantine sono stati provocatoriamente esposti in un allestimento
di arte contemporanea, sempre a Spoltore; l’incontro annuale della Rete Bioregionale Italiana a Pizzone, nel Parco Nazionale d’Abruzzo.
La Rete Bioregionale e il Progetto CEA
La rete bioregionale si pone come terreno comune per gruppi e singole persone per condividere idee, informazioni, esperienze, progetti ed emozioni al fine di sviluppare forme e pratiche culturali, sociali, spirituali ed economiche appropriate, di vita in armonia con il proprio luogo, la propria bioregione, con le altre bioregioni, il pianeta terra. La partecipazione a un convegno a Roma, organizzato dall’INEA, dal titolo ”Dall’Aratro alla Zucca” in cui si è discusso di agricoltura naturale e dell’architettura ecologica delle case di terra. L’ultima collaborazione è forse la piu’ soddisfacente: il progetto CEA “Casa e Contesto”, la biodiversita’ nel sistema insediativo; un progetto di educazione ambientale con la scuola media “G.Verdi” di Casalincontrada e con la scuola media “Pugliesi” di Ortona, due intere scuole e tutti gli alunni che vi hanno partecipato inseriti nella rete sempre piu’ grande degli agricoltori custodi. Il nostro pianeta, costantemente dimenticato, può contare su tanti piccoli custodi, tanti piccoli pacifici uomini che in ogni angolo del mondo tendono alla salvaguardia del patrimonio culturale e colturale, minacciato da stili di vita sempre meno ecocompatibili. Questi piccoli uomini con il loro impegno quotidiano, stanno salvando molto dall’estinzione, ritrovando, nei diversi ambiti di studio e ricerca, conoscenze quasi perdute. L’ingranaggio che hanno messo in moto sta coinvolgendo a vari livelli le comunità locali nella ricostruzione della catena culturale, economica e ambientale, con l’integrazione delle informazioni scientifiche a disposizione. Anche e soprattutto le donne sono coinvolte in questo lavoro, accogliendone l’antica sapienza e i consigli pratici.
Importanza delle case di terra
Questi piccoli uomini vogliono lasciare un segno d’amore su questo pianeta, un segno d’amore per la terra su cui vivono e con cui costruiscono le case, visto che un terzo della popolazione mondiale vive ancora in case di terra cruda. A giudicare dalla diffusione nel tempo e nello spazio, sembra che la casa di terra sia una costante nel variegato percorso del genere umano. Cosa c’è di piu’ naturale e istintivo che costruirsi una abitazione con il materiale piu’ a portata di mano, la terra che si ha sotto i piedi? Materiale che offre madre natura, alla quale, finito il ciclo vitale della casa, tornerà a costi ambientali nulli. La semplicità nel maneggiare questa materia ha permesso lo svilupparsi dell’autocostruzione, vissuta come evento sociale importantissimo all’interno della comunità. La fresca stanza di quella casa semi buia e silenziosa in cui è iniziato il mio viaggio segna l’inizio di un cambiamento, con la nascita di movimenti di pensiero che hanno iniziato ad indicare una via diversa, con lo scopo di recuperare una antica e sapiente gestione del campo, del territorio, dell’ecosistema. Oggi bisogna ripercorrere il solco di quelle tradizioni per gustare i frutti della terra e dei campi tra i colori delle stagioni. Allora, anche l’isolamento antropologico dell’agricoltore custode può diventare una ricchezza, se cambiano i modelli di riferimento attraverso la diffusione di un pensiero forte che vuol dire fondamentalmente questo: restituire all’agricoltore l’antica dignità di soggetto del pensiero, interrompendo il lungo periodo durante il quale tale pensiero è stato direzionato da altri.
Quando la tradizione è rivoluzionaria
Prima di tutto riallacciare un rapporto solido con le tradizioni della propria terra: la modernità non significa annientamento della propria identità, significa ricerca reale di una identità capace di interrogarsi sul proprio passato e sul proprio valore. E’ il momento giusto per una riappropriazione che sappia andare oltre le ideologie, usando la tradizione in funzione rivoluzionaria. Si vuole riscoprire il senso della comunità e dei legami intergenerazionali e diventa fondamentale ricostruire un legame con il luogo nel quale si vive. Riacquistare il senso del luogo significa osservare con attenzione l’ambiente che ci circonda, capire l’origine di quello che mangiamo, imparare a riconoscere i cibi stagionali, le piante, gli animali. In questo contesto si vuole celebrare il concetto di agricoltura antica e pensare all’azienda agricola come un organismo vivente, sottoposto al conflitto tra il rispetto dei cicli naturali e la moderna meccanizzazione.
Arcangelo e Filomena
Arcangelo e Filomena, anche loro agricoltori custodi, gestiscono la loro masseria con metodi antichi. Effettuano sui loro campi una policoltura con riposo dei terreni sovescio e maggese e concimazione esclusivamente con letame prodotto dagli animali della fattoria. Portano avanti tutto il ciclo di produzione rispettando il calendario lunare per semine e potature con ritmi lenti e naturali. La forma dei loro campi è legata ad alberi, piante e usanze colturali sedimentate nel tempo. La loro filosofia non costituisce un arretramento dell’agricoltura, diventa una presa di coscienza dei fattori ecologici e ambientali e soprattutto dell’aspetto qualitativo delle produzioni.
L’Abruzzo visto dalla luna
L’antropologa e ricercatrice del CNR Federica Riva, scrive in un suo articolo: «Guardare la terra dalla luna, significava affidarsi a un tempo circolare; la luna assumeva valore di una “regola” auspicata, indicando il ritmo di lavoro del contadino in relazione alle cadenze della vita collettiva e al ciclo delle coltivazioni. Dalla luna si aveva uno sguardo collettivo sul paesaggio. La rottura rispetto al passato viene vissuta come perdita di questo sguardo collettivo, dove ognuno fa quello che vuole, dove il tempo perde la sua ciclicità, diventa una linea retta in cui il ritmo è quello dettato dai ritmi sempre piu’ accelerati della produzione. Non c’è rimpianto per un passato di stenti, forse c’è solo la nostalgia di un paesaggio da cui ci si sta inesorabilmente allontanando: la terra d’Abruzzo vista dalla luna».
Recuperare il rapporto uomo - natura
Questo rapporto tra uomo e natura è completamente scomparso con la diffusione delle colture intensive e meccanizzate. Oggi l’agricoltore non compie alcuna indagine conoscitiva, non percorre nessun sentiero di scoperta intorno ai problemi agronomici perché già eliminati preventivamente. Non sono solo i microrganismi responsabili del deterioramento ad essere eliminati: insieme a loro scompare anche la vita del campo che ha come conseguenza la morte dell’etica dell’agire agricolo. L’agricoltura, nella sua evoluzione, ha sviluppato una stretta interrelazione tra uomo e natura,basato sullo scambio reciproco; una grande attenzione che nasce dal rapporto storico che vi è sempre stato tra “coltura “ e “cultura” termini che trovano origine comune nel verbo latino colere che significa “coltivare”. «Mi fi’ ndrà in sumenz’?», letteralmente: “mi fai entrare in semenza, mi dai i tuoi semi?” oppure “mi fai entrare nel tuo giro di scambio dei semi”, era l’invito che si rivolgeva a chi aveva sul campo varietà colturali talmente belle da suscitare l’interesse di altri agricoltori.
Il racconto di Ciro
«Quindici anni fa, circa, so scit’ di sumenz’, ho perso il seme di una varieta’ di mais tradizionale, poi amici e parenti mi ciann’ fatt’ arndrà, mi hanno aiutato a ritrovare semi tradizionali; con mio figlio sono andato fino a Palombaro, un paese ai piedi della Maiella, a prendere una varietà di mais rosso. Poi ho ritrovato anche la varietà nostrana di grandign’ che avevo perso; oggi ho ancora le due varietà di mais. Non so perché ho continuato a mantenere le sementi anno dopo anno, forse per tradizione o semplicemente perché spesso i prodotti di tali varietà sono buoni e mi sembrano pure piu’ sani. I legumi, di cui seguo personalmente la raccolta delle sementi, sono varietà adattate nel tempo al mio terreno, sono piu’ resistenti agli attacchi dei parassiti e i semi sono grandi e gustosi da mangiare. La raccolta dei semi di pomodoro è curata da mia moglie, Donata, abbiamo quattro varietà tipiche selezionate nel tempo e rinnovate nel giro di scambio. Due varietà,il nostrano e il pomodoro a pera, sono usati per fare le passate; i pomodorini rossi e gialli li conserviamo nella tipica forma del grappolo appeso, na ppesan’ di pummadurell’, tenendoli sospesi, al buio, in un posto fresco e consumati durante l’inverno. Il grano, ormai ne metto poco, ho un semenza non tradizionale; una ventina di anni fa l’ARSSA fece un campo catalogo di sperimentazione sui terreni di mio fratello Domenico selezionando diverse varietà. Alla fine scelsero un tipo di grano denominato “pandas” e lo distribuirono ai coltivatori. Alcuni agricoltori hanno ancora quella varietà. Domenico aveva una varieta’ di grano duro, ora perduto,denominato “creso”. Quando semino faccio caso alla luna, anche se come diceva un anziano del luogo, si ci stà lu sol e ngi sta lu vend mitt e ni sta pinza’ a niend’. In genere, per i legumi, si semina alla mancanza e si raccoglie alla crescenza». A parlare in questo modo è Ciro De Luca, agricoltore custode di Casalincontrada, nato il 23 luglio 1928. Ciro, sui suoi campi, effettua una policoltura con rotazione annuale dei coltivi ed è passato da un tipo di agricoltura tradizionale a un tipo piu’ convenzionale con un moderato uso di concimi e fitofarmaci di sintesi soprattutto da quando non ha piu’ animali nella stalla che producono letame; possiede un piccolo oliveto e da poco tempo ha estirpato la sua vigna. Ciro sta trasmettendo il suo sapere tradizionale e il suo tesoro di semi antichi al figlio Lucio, anche lui agricoltore custode.
L’esperienza di una artista a “Semi Proibiti”
Ed ecco il racconto di Cecilia Falasca, artista e pittrice. «Ho partecipato alla mostra di arte contemporanea denominata “Semi Proibiti” condividendone il principio e adattandolo alla mia soggettiva ricerca. Ho realizzato una installazione di 100 tavolette di legno ricoperte di terre colorate (25 colori, ognuno sviluppato in 4 gradazioni seguendo l’idea dello spettro dei colori); le formelle sono disposte alla distanza di cm 5 l’una dall’altra, possibilmente in linea retta per una lunghezza complessiva di circa 21metri. Si preferisce questa disposizione perché le formelle sono unite da una linea bianca continua a rilievo (cm 0.5) che le attraversa tutte come una lunga onda. Il titolo è “Quanto di luce”: quanto come minima quantità di energia isolabile, energia rappresentata dall’insieme delle formelle (quanti) disposte secondo lo spettro dei colori. Il lavoro una volta smembrato permetterà, di possedere un”segmento di luce”. Queste 100 formelle sono state poi disperse in altrettanti nuclei familiari, come semi da salvare, non piu’ proibiti, in un labirinto di relazioni che sarò tenuta a coltivare come una rete di agricoltori custodi».
La cultura della coltura
Il tema presentato è quello della perfetta coincidenza tra il comportamento creativo dell’agricoltore antico e quello dell’artista, con l’obiettivo di recuperare l’agricoltura come forma di arte. L’esperienza intende mescolare l’essenza effimera del gesto artistico con quello del gesto agricolo; lo sforzo sottile, e fortemente estetico dell’artista, con quello umile e fortemente razionale dell’agricoltore. L’aspirazione è rivitalizzare la cultura della coltura. Il valore dell’agire agricolo avrà raggiunto il suo obiettivo quando i terreni delle nostre colline non saranno piu’ trascurati evitando l’abbandono dei lavori agricoli. L’attenzione principale vuole essere sempre rivolta all’educazione ecologica e alla sensibilizzazione per le tematiche di rispetto e conoscenza della terra e di chi la coltiva, dei suoi prodotti e dei processi che conducono a tali prodotti. La rete attraverso il nuovo linguaggio comunitario e trasversale, lo scambio e la comunicazione delle esperienze vuole coinvolgere tutte le forme della cultura della societa’ contemporanea: dalle espressioni del sapere tradizionale a quelle forme di cultura giovanile cosiddetta alternativa, dalle forme spontanee delle associazioni culturali a quelle scientifiche dei laboratori di ricerca e soprattutto a quelle piu’ istituzionalizzate della scuola in tutti i suoi livelli. Come dice Gianfranco Zavalloni, direttore didattico e ricercatore dell’Ecoistituto delle Tecnologie Appropriate della Civiltà Contadina, recuperare semi antichi, seminarli, riprodurli e condividerli con altri coltivatori è un grande gesto educativo. Lo possiamo paragonare, come importanza, all’apprendere le tecniche basilari insegnate a scuola: scrivere, leggere e fare i conti. Penso sempre a quei piccoli semi conservati in vecchi barattoli impolverati nei magazzini di antiche case rurali che aspettano con pazienza di essere nascosti nella terra per germinare. Ciascuno di essi e’ adatto unicamente a un terreno, ciascuno con una forma e un nome, ciascuno con la sua storia locale legata ai ritmi lenti dei contadini che li hanno coltivati.
Un’operazione culturale che prende a pretesto le architetture in terra e che chiaramente può e vuole essere applicata a qualsiasi elemento che faciliti l’interpretazione e la riappropriazione dei luoghi. Da qui il collegamento “spontaneo” della casa di terra al progetto della rete degli “Agricoltori Custodi”, una libera associazione costituita in Italia qualche anno fa e che raggruppa soprattutto individui e piccole aziende, con l’obiettivo del recupero e della coltivazione di specie e varietà delicate e preziose, esposte al rischio di estinzione a causa della bassa resa o di difficoltà particolari nel processo di produzione.
Il percorso proposto è più complesso di quello che può apparire: come per le case di terra, occorrono la consapevolezza e le nuove motivazioni culturali dell’abitare e del vivere sano che si intravvedono prepotenti e che spingono gli agricoltori e non solo, a divenire custodi.
Mario Ortolani nel 1961 in “La casa rurale negli Abruzzi” descrive la tecnica denominata del massone : - Nella maggior parte delle pinciaie abruzzesi i muri sono eretti con un procedimento ancora più semplice. S’impasta con acqua l’argilla, presa dal terreno stesso ove sorgerà la pinciaia, o trasferita da una d’argilla pura (argilla rossa detta terra porcina), aggiungendovi poco alla volta paglia triturata o pula (detta dai contadini cama, came) e qualche manciata di pietrisco. Quando l’impasto ha raggiunto la consistenza adatta, un operaio con un misurato colpo di zappa ne asporta una zappata: la maneggia poi con le mani rotolandola sopra uno strato di cama, la quale vi aderisce e serve a dare elasticità all’insieme; un altro operaio prende le zappate e le pone in opera fino a completare, lungo l’intero perimetro della casa, un primo strato alto 50-70 centimetri. A questo punto bisogna lasciar asciugare per cinque o sei giorni: frattanto si procede con vanghe a lisciare la faccia interna ed esterna della parete edificata, tagliando ogni prominenza. Quando si riprende a costruire
bisogna prima bagnare l’ultimo strato di zappate poste in opera, in modo che possano fare buona presa con quelle fresche.
bisogna prima bagnare l’ultimo strato di zappate poste in opera, in modo che possano fare buona presa con quelle fresche.
Questa pubblicazione fa parte del progetto CED Terra “Case e contesto: recupero della dimensione naturale. La biodiversità nel sistema insediativo” Nel progetto “Case e contesto” i manufatti in terra cruda hanno assunto il valore di indicatori della biodiversità da attribuire anche al sistema insediativo tradizionale. Infatti, come ricordato nelle premesse del progetto: “La perdita di biodiversità risulta essere una delle emergenze globali alle quali l’umanità intera è chiamata a far fronte; ed è anche una delle priorità nel nostro territorio regionale, caratterizzato da quella stretta connessione tra il contesto antropizzato ed il sistema naturale che si manifesta in maniera accentuata nell’ecosistema rurale”
Ferdinando e Alessio Renzetti
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