Se non ci avvediamo dei sentimenti e delle emozioni che attraversano gli uomini, se non riconosciamo in essi il perno della giostra che chiamiamo realtà, se non ce ne emancipiamo fino a osservare con chiarezza quando e come ci identifichiamo in essi e, quindi, fino a riconoscere che maggiore è l’identificazione, maggiore sarà la forza con la quale li difenderemo, nulla, se non la castrazione cognitiva, potrà ridurre il rischio di perpetuare il conflitto e la guerra.
Non significa non avere più sentimenti ed emozioni, soltanto non esserne più dominati. Ammesso che si voglia fare realmente qualcosa di utile al benessere individuale e sociale. Ammesso che si voglia cercare la coerenza tra la nostra condanna alla guerra e ciò che pensiamo e facciamo.
La storia si ripete. Le sue circostanze non sono infinite. A cicli ritmici si ripropongono travestite con nuove maschere, animate dalle stesse emozioni, condotte dagli stessi sentimenti. Sono infatti proprio queste tre inconsapevolezze a mantenere inalterati il moto dei cicli che si ripropongono a tutti i livelli – dall’individuale al politico – e la certezza che quanto la storia ci ha mostrato ancora ci mostrerà. Inconsapevolezze nei confronti delle quali non esiste azione culturale intenta a farcene prendere coscienza e quindi a evolvere, facendo nostro il necessario per emanciparci dal giogo della ripetizione, il cui antidoto razionale, fatto di leggi, censure e divieti, nulla può. Come per la medicina e la farmacopea scientista, la dimensione razionale, per quanto perfetta per giudicarne e sopprimerne gli esiti, non è atta a riconoscere le ragioni delle patologie.
Il miglior argomento razionale non basta a modificare o interrompere una fioritura pregna di entusiasmo, ovvero spaccare l’inossidabile muro emozionale e sentimentale che avviano e sostengono le nostre scelte. Razionalità e cosiddetto buonsenso volano senza turbolenze nel loro piccolo cielo di superficie, dove l’intelletto, convinto d’essere l’Intelligenza, spadroneggia nella sua gabbia da canarino, certo d’essere libero.
E anche il miglior argomento di una delle parti della diatriba non può scioglierla. Al contrario – e nonostante le pretese di ragione e le implicite richieste di sottomissione alla parte avversa – esso la alimenta, in quanto impone la propria difesa o il contrattacco dell’altra fazione.
Non solo: il perdono di una delle parti nei confronti dell’altra, se sulla carta pare una soluzione, di fatto, nei confronti della meteora sentimental-emozionale che siamo e che sta all’origine del conflitto, nulla può.
Se, dunque, la fioritura della storia darà di nuovo il frutto moralmente indesiderato, non potremo che concludere che, alla faccia del dogmatico accredito del razionalismo quale solo strumento idoneo alla convivenza pacifica, la pianta è stata ben e lungamente coltivata.
Lo spirito del liberismo, la sua natura competitiva, la sua apolide moralità, la sua arrogante presuntuosità, il suo ontologico materialismo sono nel latte che succhiamo dal primo giorno di vita. Nostra madre Cultura ci nutre così, fin da subito, dei germi indispensabili alla florida pianta della guerra. E anche i suoi presunti antidoti alle socio-psicosi, quali lo sport, non sono che palliativi.
Nella pratica sportiva, infatti, l’aggressività sarebbe deviata in grinta e quindi consumata, mentre l’alienazione avrebbe spazio per essere dimenticata. Ma tale attività non può assorbire l’enorme e continua pressione che vediamo con regolarità crescente esplodere nell’individuo, nel privato e in società. Lo sport, da presunto psico-analgesico, dovrebbe essere visto anche nel suo nefasto potere educativo, quale incentivo a mantenere fuori dal rettangolo di gioco il medesimo comportamento imparato sul campo, pena la panchina, l’esclusione, l’alienazione, la rabbia. L’unica cosa che conta è vincere. Ce lo dicono i guru della cultura, annidati nel seno di mammà.
Chi teme dunque che le paraboliche vicende in cui siamo sempre coinvolti e attori possano imboccare direzioni sconvenienti ai propri valori e alle proprie ideologie travestite da ideali, potrebbe analizzare il proprio passato, più che giudicare il presente che crede altrui e dedicarsi, con presunta saggezza, a premonire il prossimo su un futuro terrifico, qualora non seguisse i suoi consigli. Niente più che una canarinica svolazzata sulla superficie del mondo.
Non significa che non ci sia nulla da fare allora, in questo momento critico. Nei momenti di crisi c’è un paesaggio insolito, dove è possibile osservare aspetti altrimenti tenuti nascosti sotto i divani del benessere o zittiti dalle raffiche di mitra. Il boom economico del nostro dopoguerra ha trovato la sua linfa emozionale tra le macerie. Gente comune e imprenditori avevano visto a che punto erano arrivati gli uomini. Sapersi sopravvissuti al peggio li ha stretti a corpo unico. Avevano macerie intorno e, invece che dedicarsi al lamento, hanno scavato, sapendo che avrebbero trovato la linfa vitale senza la quale tutto è impossibile.
È un elisir segreto, finché si continua a cercare nel prossimo la ragione della propria condizione di pena. È una brocca dionisiaca e creativa per chi raggiunge le doti per guardarsi dentro e trovare in sé lo stato del mondo. Allora, qualunque sia la condizione storica, sapremo mantenere la nostra spinta creativa, il nostro equilibrio, e così sfruttare al meglio ciò che questi ci propongono. Evolvere, cioè, nella condizione apollinea, la sola idonea a riordinare e armonizzare il caos. Diversamente è guerra.
Ma nessuna politica, esaurita nella sola dimensione economica del mondo, potrà mai dedicarsi a tanto. Il compito è individuale. Cosa banale, se ci si assume la responsabilità del mondo; impensabile e ridicola, se ancora in attesa di qualcuno che faccia le cose per noi.
Nel primo caso, ci dedicheremo ai figli, affinché facciano dell’ascolto, dell’assunzione di responsabilità e della reciprocità un piano di lettura della realtà; affinché non pensino più che il sapere consista nel misurare e scomporre, ma sentano l’organismo di cui sono espressioni, loro e gli altri.
Nel secondo, ci occuperemo ancora di noi stessi. E, credendoci separati dagli altri, cercheremo di prenderne le distanze, esaurendo cioè l’infinita realtà nel giudizio con il quale ce la rappresentiamo.
Nel primo caso, sarà tangibile la parabola che sboccerà dai nostri sentimenti e si alzerà per andare a creare la realtà a essi corrispondente; diventerà banale pensare all’amore cristico – ora non più chimerico – come a una possibile evoluzione disponibile agli uomini; diverrà chiaro come non possiamo astrarci dal contesto, giudicarlo e, soprattutto, identificare in quel giudizio l’esistente; apparirà ovvio che ci muoviamo entro un volume in cui agiscono forze differenti; diventeremo capaci di chiaroveggenza, perché quelle forze le vedremo come goccia d’inchiostro nell’acqua e, senza incertezza, le sapremo evitare, se nocive, o cavalcare, se opportune.
Nel primo caso, dunque, saremo sulla via dell’equilibrio, della forza, della bellezza. Saremo noi, non più disponibili a delegare il comando di noi stessi, finalmente capitani adatti a tenere la rotta, indipendentemente dalle burrasche che attraverseremo.
Nel secondo, resteremo dove siamo e concorreremo a ripetere la storia. Sdegnati, segnaleremo con l’indice cosa va e cosa non va. Penseremo di non essere responsabili di ciò che osserviamo, e con le toghe d’ermellino crederemo di poter restare assisi di fronte al mondo. Non arriveremo a sentire la natura della nostra natura. Strati ideologici di ogni stirpe continueranno a ricoprirla, lasciando agli archeologi della psiche il compito di recuperarla.
Nel primo caso, arriveremo ad abbracciare la vita; nel secondo, a imbracciare le armi. Sì, noi, proprio noi, così per bene e onesti.
Lorenzo Merlo
Nessun commento:
Posta un commento