Poche righe per inquadrare la natura del
mistero.
Se chiedi al pesce: “Com’è l’acqua?” Ti guarderà stranito
dicendo: “Quale acqua?”
Come il cefalo siamo immersi nella nostra acqua, anche se solitamente
la chiamiamo concezione. La concezione determina la realtà, le
parole per descriverla, i pensieri per considerarla, le idee per
progettarla, le azioni per realizzarla.
Non a caso, a parità di problematica, il Bushido
samuraico-giapponese, il Kanun nord-albanese, il Codice
barbaricino barbagio-sardo, il Pashtunwali
pashtun-afghano-pakistano, l’Adat
islamico-caucasico-balcanico, tutti disciplinatori delle questioni
sociali, hanno forti similitudini nelle modalità di gestione delle
problematiche comunitarie, quali l’ospite, la famiglia, la
proprietà, il matrimonio, l’eredità, l’onore, il furto,
l’omicidio, la vendetta, la giustizia, eccetera, non c’è aspetto
della vita tralasciato, hanno adottato soluzioni alquanto simili,
nonostante la separazione culturale che li contraddistingue. La
concezione della questione era identica per tutti.
Digressione consuetudinaria a parte, la nostra acqua si chiama
logica. Un grande oceano che tutto contiene, oltre il quale non ci
sarebbe niente. I cui mari minori sono detti razionalismo,
materialismo, scientismo.
Ogni cefalo nuota tranquillo credendo di visitare la realtà. Non
sospetta di essere il creatore di ciò che vede ed esperisce. Ovunque
si rechi, la logica, il razionalismo, il materialismo, lo scientismo
glielo impediscono.
Immerso nell’acqua, il cefalo non dispone di altra concezione di
una realtà altra dalla propria. Di vedere che l’osservato e
l’osservatore costituiscono una diade, non se ne parla neppure. Non
ha proprio i mezzi per maneggiare la questione. Emanciparsi dalla
certezza che il suo pensiero e il suo credere siano autonomi e
indipendenti dall’ambito in cui sorgono in lui, non lo riguarda.
Anzi, se la prende, classificando ciarlatani coloro che gliene fanno
cenno.
Dunque, come ogni cefalo, ritiene che oltre all’acqua non ci sia
mondo. Una convinzione così totale che non lo disarmi neppure quando
gli fai presente che il suo oceano non solo è grande ma deve
necessariamente essere allora infinito. Sarebbe logico, no? Eppure,
pur riconoscendo – sempre per logica – che effettivamente non lo
è, e non può esserlo, non ritiene di prendere in considerazione
alcunché che logico non sia, non ritiene che la logica abbia qualche
difetto. Quindi per lui il tempo è sempre lineare, la natura e
l’uomo sono macchine, la realtà, come detto, è oggettiva, la
verità è possibile, il principio di causa-effetto è il solo,
materia e energia sono di natura differente, la mente è il luogo dei
pensieri, l’intelligenza è nel cervello: nel mare – dice – c’è
tutto.
A ben guardare c’è del vero, nel momento in cui si limita il mondo
ai campi chiusi delle conoscenze tecniche, qui dette anche
amministrative. In questi, tutti coloro che chi vi albergano o
transitano sanno tutto, linguaggio e regole, e anche condividono il
castigo nei confronti di chi non le rispetta.
Ma sono un sisma
umanistico, un ingorgo evolutivo, quando la logica, il razionalismo,
il materialismo e lo scientismo divengono modalità che vogliono
imperare anche in campo aperto, ovvero nelle libere relazioni dove
gli universi diversi che siamo si incontrano e scontrano, senza il
sospetto che le reciproche affermazioni hanno un alto potere
d’equivoco e basso di comunicazione. È sempre così quando non c’è
terreno comune, sentimento o emozione condivisa. Dove – per diritto
di logica – crediamo che gli altri stiano alle nostre regole, che
non conoscono e che pure a volte non conosciamo noi stessi. Dove
siamo incapaci di vedere il sopruso del nostro ordine morale, di
vedere che esso funziona solo e soltanto entro campi riconosciuti e
condivisi, o da soli, quando infatti tronfi vediamo la soluzione dei
problemi, e non capiamo perché questa non funziona più quando la
esponiamo al campo aperto degli universi diversi degli interlocutori
che, infatti, “sono loro che non capiscono”, dice tranquillo il
cefalo.
Ignaro del limite dell’acqua, il cefalo avanza come uno squalo
lasciando scie di sangue e questioni che non risolve per le quali fa
spallucce. Una di queste è il mistero.
Che fa il cefalo davanti al mistero? Intanto, non si cura della
contraddizione tra riconoscere nei suoi pensieri la presenza del
mistero e la logica che, in quattro e quattr’otto – visto che con
essa tutta la verità dovrebbe venire a galla – dovrebbe darne di
conto e non assillarlo più. Secondariamente, ma questo in
quanto cefalo glielo si può concedere, non si avvede che il mistero
non è altro che il confine del suo oceano e che – ulteriormente
difficile – quel confine è proprio lui a disegnarlo, nel momento
in cui ci chiede: “Quale acqua?” Ma c’è un terzo argomento,
più forte dei precedenti. Il cefalo non si avvede che è proprio la
modalità della logica a generare il mistero, quando con i suoi
inadatti strumenti vuole indagare ciò che non sta sul suo limitato
banco di lavoro. Il mistero di A e B non sa che farsene e anche
proporgli un AB è solo un penoso logico tentativo destinato
all’insuccesso, oltre che dimostrazione dell’inettitudine del
cefalo.
Dunque il mistero e tutte le sue forme, quindi
dio, la natura, il cosmo, la vita, la coscienza, eccetera, secondo le
considerazioni qui in corso, sono un’entità
creata dalla logica. Assurdo? Come?
La logica per funzionare richiede A e B, non
soltanto uno dei due. Il cefalo, ma anche lo scientista, quando
gliene viene meno uno, torna indietro, cambia strada. E, se gli
chiedi perché, la risposta è sempre la stessa: “Di lì non c’è
niente”. Nonostante questa conclusione ferma e ripetuta, non si
perde d’animo. Seguita a non riconoscere l’inadeguatezza dei suoi
strumenti cognitivi. Del resto, è lui che ce lo insegna, la scienza
misura la realtà e la realtà non misurabile, semplicemente non lo è
o, quantomeno, non conta nulla sulla bilancia della verità. Infatti,
siccome la logica non porta a sciogliere il misterioso problema di
dio, a che punto arriva lo scientista forte del suo metodo? Nessun
problema, lui ha la soluzione. “Non ci sono prove, quindi non
esiste”. Se solo sapesse di essere lui stesso ciò che sta cercando
e anche escludendo, sarebbe tutto un altro oceano.
È proprio il suo sistema, il suo oceano logico
la sola base di partenza dal quale spicca il volo il problema del
mistero. A volte è meglio evitare di dirglielo, i forconi ce li ha
sempre appresso. Eppure, è proprio dalla logica che nasce il
mistero. Un simile bisticcio non è, evidentemente, alla portata del
cefalo, che infatti seguita a nuotare nelle sue convinzioni.
Tranquillità che, peraltro, gli permette di accusare di pregiudizi e
bias, chiunque gli parli dell’acqua dell’oggettività in cui
vive. E soprattutto, come se lui ne fosse libero. Così pensa il
cefalo.
Se il mistero è creato dalla logica in quanto
fuori dalle sue, per altro eccellenti doti amministrative, significa
che sottraendo la logica dalla supremazia nei pensieri, non solo il
mistero non è più creato ma sparisce dall’orizzonte delle
problematiche, cioè dalle questioni che l’arroganza oceanica dei
cefali ritiene di poter tralasciare. Sparisce perché invece di
analizzarlo come un oggetto, avvieremmo i processi per esserlo.
Per il cefalo esploratore, sarebbe logico porsi
in ricerca di quanto non sta alle regolette del campo chiuso della
scienza – soprattutto per una macchina, quale deve, per coerenza
meccanicista, riconoscere di essere – eppure è proprio così, il
magico e l’alogico per lui non esistono. (Tralascio di commentare
la sua concezione del magico, che gli impone pensieri e parole
sideralmente lontane dalla natura del tema). Anzi, se gli parli
dell’uomo come creatore del mondo, ti prendi, come detto, del
ciarlatano. Sempre meglio di un’inforcata. Se gli fai presente che
gli uomini realizzano solo e soltanto ciò che risiede in loro, che
senza un’idea non c’è creazione, e che in questo processo
replichiamo nel piccolo ciò che il mistero ci impone di ritenere
qualcuno o qualcosa abbia a suo tempo fatto in grande, non fa una
piega. Si gira dall’altra parte e se ne va. Il ciarlatano non gode
di pari dignità con il cefalo-scientista. Che se è proprio gentile,
come si trattasse di una specie di equazione, si mette di buzzo buono
e inizia a spiegarti come effettivamente stanno le cose nell’oceano.
In più, preda della rete lanciata dalla
vulgata del cristianesimo, facilmente crede che quel dio sia un
signore saggio e giusto che sta in cielo. No. Non è così cefalo da
arrivare a tanto, anche se ci va vicino. Sì, perché lo concepisce
come fuori da noi, come del resto fa tutta la marmaglia filo
cristiana, ma, è bene accennarne, anche filo-islamica, mica che i
probiviri della par condicio, in combutta con quelli
dell’inclusività, si inalberino e imbraccino i forconi contro un
ciarlatano qualsiasi.
Cultura liquida a parte, – ma neanche tanto
visto che le ragioni logiche sono molte a sostenerla e quelle
spirituali “non esistono” – bisogna rispettare che il mondo
logico del cefalo concepisce dio e il mistero come esterno al creato
per la banale osservazione che la logica non gliene permette altra.
La relazione allora non è più con un dio esterno al quale chiedere
pietà nel male e ringraziare nel bene. Essa riconosce invece la
natura divina di noi stessi, quali creatori della nostra migliore o
peggiore condizione, proprio in funzione dell’accettazione degli
eventi o del rifiuto di questi in quanto non secondo noi meritati. Si
tratta perciò di un terreno dove la logica non è che un piccolo
espediente storico di convivenza o scontro. Si tratta del campo
libero della magia, dei poteri umani che la logica ha castrato, delle
dinamiche della realtà, delle forze, non brute e meccaniche, che la
muovono.
In sostanza, l’incantesimo del mistero, come
oggetto da scomporre per vedere di cosa e come è fatto, per
svelarlo, in una parola, si risolve prendendo consapevolezza
dell’acqua in cui nuotiamo. È a quel punto che il cefalo vede il
cielo e l’infinito che contiene il suo piccolo, bricioloso, oceano.
È a quel punto che la verità alogica e magica, prende diritto di
pari dignità con quanto la cultura logica del cefalo pensava di
esaurire il mondo. È quel punto che anche la fisica, ha iniziato a
intravvedere, riconoscendo così il limite della realtà creduta
asetticamente osservabile e dalla logica meccanicistica, su cui
basava la vantata universalità delle sue autoreferenziali modalità
di ricerca.
Il mistero si risolve accettandolo, essendolo,
cessando di crederlo un problema indagabile con pinza e microscopio.
Si risolve andando oltre il nostro io e quello che crediamo di
essere, scambiando ciò che sappiamo, ciò con cui descriviamo il
mondo come verità. Si risolve riconoscendo che nel cielo non ci sono
le parti, gli A e i B, ma solo gli interi. Che è dal cielo
iperuranico che gli uomini cefalici prendono le metà degli interi
che necessitano per portare avanti i loro discorsi sul palco della
storia. Metà affinché mantengano alta la superstizione e
l’arroganza della conoscenza e con essa le fiamme dell’inferno,
che innocentemente chiamano realtà. E se il cefalo non l’ha
capito, bisogna dirglielo meglio: la logica non è tutto come crede
lui, è una parte. Scambiarla per tutto, fa difetto.
Allora il mistero inizia a parlare e le nostre
carni a recepire, che il progresso è da compiere dentro, affinché
la vita da pena muti in gioia.
Ma c’è sempre un cefalo fuori standard. Il
quale giustamente chiede: “E i sentimenti, le sensazioni? Amore e
odio, piacere e sofferenza, non bastano a confermare che oltre il
dualismo non v’è altro? Che oltre la storia non esiste nulla?”
Bella domanda, nel senso che quando si pensa,
il mondo si muove, e la pari dignità delle prospettive che lo
raccontano si realizza.
La risposta è elementare, se per formularla si
adotta una prospettiva differente dalla cefalica. Non si tratta
infatti di credere che solo il piacere e l’amore possano fare a
meno del loro contrario. Non è questa la via, per il semplice fatto
che la questione non si dipana su un piano logico. Questa, sta invece
nell’emancipazione dall’interpretazione egocentrica di quanto ci
accade. L’uomo nella storia non può eludere il dualismo ma può
invece emanciparsi dal loro dominio, dalla cultura materialista e
avviarsi alla conoscenza liberandosi dal conosciuto imparato a casa e
a scuola. Un passo necessario per accedere alla consapevolezza che
l’interpretazione personale esalta desideri, aspettative,
sentimenti e sensazioni, quindi che genera la pena, il male, la
malattia, quando questi non sono soddisfatti.
Dunque il culmine del discorso risiede nel
prendere coscienza che accogliere ciò che ci accade come accade a
tutti gli uomini, consente di vivere con la migliore presenza,
energia e creatività la vita. Allora la logica e il materialismo da
tiranno dei nostri pensieri torneranno ad essere semplici strumenti
sul banco di lavoro dell’esistenza.
Sarebbe logico allora concludere con le parole
di un amico: “Abbiamo intuito che quando difendiamo con calore e a
spada tratta un’opinione siamo i primi a non esserne convinti fino
al fondo delle nostre profondità”.
Sarebbe, ma non per il cefalo.
Lorenzo Merlo