La conoscenza in forma di accumulo di dati predisposti e
organizzati non è la sola possibile. Ve n’è un’altra, che non
deve essere considerata alternativa, ma solo più idonea a
riconoscere ciò che alla prima sfugge.
La rete
Il sapere può essere figurato come una rete da pesca. Ognuno nasce
con la propria, le cui caratteristiche sono uniche, cioè lo spessore
e la qualità della sagola, la luce dei riquadri, nonché le
dimensioni dell’intera rete.
Nella struttura della rete in opera si impigliano solo e soltanto
certe nozioni, tutte le altre sfuggono. Più precisamente solo i dati
riconosciuti vengono trattenuti.
Ad ogni battuta di pesca, altri dati inspessiscono la sagola,
riducendo così la luce della maglia. Il sapere cresce mantenendo
però quale meccanismo di base, quello di poter trattenere solo e
soltanto i dati riconoscibili come pertinenti.
Da qui a vedere l’assurdità in cui questa cultura crede, che
corrisponde all’idea – mai discussa – che basti
argomentare con buona dialettica per tramettere il sapere, il passo è
più che breve.
L’esperienza non è trasmissibile. La rete ferma soltanto gli
elementi che gli sono permessi dal suo stesso stato del momento.
Tutti gli altri, quelli che professoralmente vengono declamati con
presunta autorevolezza, intrattenibili, ci trapassano, privi di
valore e significato.
Come non posso parlare di analisi due a chi è all’equazione
di primo grado, così non posso mostrare come tirare la lima a chi
non sa se è destrorso o mancino, a chi non è in grado di
riconoscere che non è la lima a fare il lavoro ma tutto il corpo e
come è posto.
L’assurdità raggiunge il suo culmine nel diritto di giudizio da
parte del presunto detentore del sapere verso i discenti ordinari
della scuola o occasionali dalla vita. Diritto che comporta
selezione, esclusione, morte. Che non è una conclusione eccessiva in
quanto tutti sappiamo quanto i nostri tempi e modi del cosiddetto
apprendimento possano essere diversi e quanto le nostre doti possano
essere coltivate o castrate in tutte le circostanze di relazioni
impari, di dipendenza, come possono facilmente essere quelle
ordinarie della scuola e della famiglia.
Tutto ciò, in una parola si chiama meccanicismo, la cui egida
governa i nostri pensieri non solo in un contesto didattico, ma
permanentemente. Volendo delineare il contrario del
meccanicismo si potrebbe utilizzare il concetto di relazionale. In
questo caso, l’altro non è meno di me, ciò che esso esprime ha il
massimo valore perché attraverso l’ascolto posso escogitare come
rimodulare la mia proposta didattica fino a trovare quella idonea al
livello della rete del mio interlocutore. Interlocutore, non
discente.
A parte la digressione dedicata all’esperienza non trasmissibile
(come per la scelta delle scarpe – misura ed estetica –,
tratteniamo solo i dati a noi idonei) e al razzismo della
meritocrazia (nient’altro che un criterio di mantenimento del
potere), la figurazione della rete cognitiva che gradualmente si
stringe fino a trattenere i dati più raffinati a causa di quelli più
semplici, già impigliati, rappresenta anche la specializzazione, o
meglio, il suo culto totalitaristico: davanti ala parola dell’esperto
e dello specializzato si deve tacere senza possibilità di appello.
Come per il giudice, esso è la verità. Fine.
Il totalitarismo del culto della specializzazione ne comporta il
dogma. Nessuno infatti, Ivan Illich (1) e Edgar Morin (2) a parte, ma
in verità anche altri, – per non parlare di tutte le tradizioni
sapienziali del mondo, sebbene l’abbiamo indirettamente fatto in
modo implicito al loro discorso – l’ha mai messa in discussione.
Ne ha mai evidenziato il potere mortificante che appare quando,
invece di tenere al centro la tecnica e il sapere stesso, ci metti
l’uomo e il modo in cui consuma la vita.
Le concezioni
Chi concepisce la rete come una struttura rigida, tende a rendere
impossibile la consapevolezza della sua intrinseca dinamicità. Così
i saperi sono impermeabilmente separati, bene che vada messi a
contatto con il palliativo detto interdisciplinarietà. Una specie di
specchietto per le allodole come lo è la sostenibilità, l’impatto
zero, l’economia circolare nei confronti della questione
ambientale-fintamente-ecologica.
Se la rete staticamente intesa è più simile all’urbanistica di un
accampamento romano, dove per spostarsi bisogna necessariamente
seguire l’ortogonia –sinonimo di sterilità creativa, rigidità
dottrinale – dei percorsi che lo caratterizzano, quando è invece
dinamicamente concepita, avviene una magia.
Ovvero, vedere la relazione di tutte le cose e quindi l’arbitrarietà
dei dogmi di qualunque sorta, comporta anche una emancipazione dal
concetto di dato come mattone della conoscenza e – che è ciò che
più conta – la sostituzione del Dato con la Consapevolezza.
L’accampamento da rigido diventa libero, ogni tenda o dato diviene
stella e ogni osservatore lo può relazionare ad altri, in
costellazioni e sinapsi non protocollabili, non algoritmabili.
Nella concezione dinamica della rete, i saperi – che prima di
tutto, non sono più solo cognitivi, ma emozionali, estetici – non
si erigono linearmente, mattone su mattone, destinati a far crescere
la Torre di Babele della finta conoscenza, della conoscenza di
superficie o materialista. In essa, i saperi assomigliano più a moti
ondosi, le cui forme non possono essere estrapolate, né separate, né
identificate. Ogni onda è tale a causa delle altre, la nostra
stessa inclusa.
Ciò che era ortogonale, prevedibile, schematico, nella concezione
dinamica della rete della conoscenza, è dendritico, scapigliato,
disponibile a ogni richiamo, perché il suo criterio non è
codificato ma energetico, non culturale ma naturale.
Nella concezione statica della rete, ogni mattone è legato a catena
con il precedente e il successivo e non ha altra posizione che quella
obbligata dalla meccanica costruttiva del sapere analitico.
In quella dinamica, nulla avviene linearmente. Nulla è costretto
entro il campetto di gioco della logica, dello spazio, del tempo e
del principio di causa-effetto. Le consapevolezze insorgono quindi
non per accumulo di dati ma con modalità più serempidiche e
quantiche, cioè al di là delle strutture obbligate dai principi
della logica – ciò che è può essere nel contempo anche non
essere –, dello spazio – ciò che è qui può essere anche là –,
del tempo – ciò che è passato diviene nell’emozione presente –,
del principio di causa effetto – le forze sono energetiche non più
solo nella sua forma materiale.
Se la rete statica è funzionale a gestire e amministrare, è
estremamente nociva quando applicata anche alla conoscenza in
generale e a quella dell’uomo in particolare, quella dinamica ha il
potere magico della metafora e quello frattalico della parte che
contiene il tutto.
Limitarsi a coltivare la conoscenza analitica è costringere a
credere di conoscere il fondo della verità senza avvedersi che la
dimensione cognitiva non solo è la più superficiale e la meno
idonea al benessere umano, privato e politico contemporaneamente. È
impedirsi della conoscenza attraverso i simboli, ovvero della
consapevolezza che, come in un moto ondoso, tutto le forme, che
pensavamo autonome e indipendenti, sono espressioni della medesima
energia.
Così in alto così in basso, non riguarda solo terra e cielo ma ogni
cosa. Riconoscerne la verità è riconoscere in che termini è vero
che l’osservatore fa il mondo.
Lorenzo Merlo
Note
Ricercatore
cattolico e saggista austriaco, 1926-2002
Filosofo e
sociologo francese, 1921.