domenica 9 marzo 2025

Alla Fiera delle "libere idee"...

 


Il mondo è come viene descritto. Peccato non sapere che quelle descrizioni corrispondono a noi e in quanto tali non valgono più di quelle degli altri.

Come ben dicono gli studiosi, i maghi, le tradizioni sapienziali e anche qualche uomo comune, nelle parole risiede la realtà. Ogni tanto se ne fa cenno, anche per caso, come in questo articolo. Nelle righe dedicate al linguaggio vive un esempio di come le parole costituiscano la voliera invisibile in cui le nostre idee – come i fringuelli ignari dell’esistenza del cielo – volteggiano da uno staggio all’altro credendosi libere.

Sebbene in questo altro scritto non si prenda direttamente in esame il linguaggio, la sua sintassi, i suoi lemmi e le relative accezioni, emerge come una certa narrazione della realtà – che potremmo definire ortodossa – con le sue definizioni/interpretazioni, imponga una gabbia al pensare e all’immaginario.

In questo secondo articolo – del quale non condivido diversi aspetti – si presenta La pietra della follia, un breve saggio-narrativo di Benjamin Labatut. (1)

In merito al nostro discorso sul linguaggio, in esso si legge:

“Non possiamo più limitarci a sminuire la paranoia e a confidare ciecamente che la scienza – o i nostri stessi sensi – ci mostrino il mondo per quello che è. Dobbiamo imparare a vedere le cose sotto una luce diversa, perché la fiaccola della ragione non è più sufficiente a illuminare l’intricato labirinto che sta prendendo forma [...] intorno a noi.  [...]

Ma questa visione illuministica, per quanto eserciti ancora fascino e influenza, oggi si trova schiacciata”. (2)

Tutta questa critica alla modalità ordinaria di produrre conoscenza è una conseguenza dell’inconsapevole concezione egocentrica del mondo. Un egocentrismo dall’aspetto di ideologia, tale per cui chi non la condivide è nell’errore e quindi, tra l’altro, perseguibile ed emarginato se si tratta anche di ideologia di maggioranza.

Una concezione che, sebbene gonfia di batteri sanguigni e bellicosi, è assolutamente legittimata dalla storia, come se l’uomo, indipendentemente da cosa si voglia pensare sia, avesse dovuto e dovesse necessariamente portare e passare da questa gogna.

Passaggio obbligato, soglia di consapevolezze oltre il quale si rivela un mondo alternativo generato da pensieri e immaginari differenti, più caratterizzati dalla tolleranza. Uno stato, però, non imposto per legge, ma scaturito dai cuori degli individui, ora consapevoli della voliera che li conteneva.

Una soglia al di là della quale si prende coscienza della concezione egocentrica quale sola e assoluta, in cui ci trovavamo senza possibilità alcuna di metterla in discussione. Al di là della quale la realtà cessa di essere un luogo in cui ci troviamo e da ordinare secondo il nostro piano cartesiano, ma un foglio bianco dal quale essa emerge come un disegno man mano che procediamo nella vita.

Per quanto questa concezione sia roba vecchia per tutte le tradizioni sapienziali del mondo, la questione, oltre al suo valore imperituro, assume da qualche decennio, e ora più di prima, quello dell’attualità. Essa è infatti presente sui banchi di lavoro della scienza o della nuova scienza, cioè quella che ha necessariamente sbugiardato il monopolio meccanicista e la sua voliera.

La fisica quantistica e le ultime – a partire dalla Scuola di Palo Alto, in California, negli anni Sessanta del secolo scorso – ricerche sulla natura della conoscenza raccontano, infatti, di una realtà per niente scomponibile, per niente ordinabile, per niente pre-esistente a noi.

“La cognizione e il mondo si originano in modo interdipendente attraverso il corpo vivente”. (3)

“Una volta compiuta questa operazione riflessiva, non possiamo più attenerci alla tradizionale concezione realista della scienza come rivelatrice del mondo in cui le cose sono in sé a prescindere dalle nostre interazioni con esse. [...] Nel creare la scienza classica, noi mettiamo da parte le caratteristiche di questo tipo di esperienza che variano individualmente e non possono essere oggetto di un consenso stabile. Utilizzando la logica e la matematica, creiamo una rappresentazione astratta e formale di certe caratteristiche invarianti e strutturali di ciò di cui facciamo esperienza in condizioni rigorosamente controllate, che noi stessi imponiamo, e questo modello formale diventa oggetto di consenso e la base per una descrizione oggettiva. [...] la conoscenza scientifica non è l’esposizione della natura della realtà per come è in sé, bensì un’espressione della relazione tra la cognizione radicata nel corpo [non nel cervello, NdA] e il mondo che essa pretende di conoscere. [...] Sorvolare su questo significa ricadere in una concezione oggettivista della scienza [...]”. (4)

“Gli ricordò che la psiche umana era un mistero più grande di qualsiasi enigma matematico, e che non era saggio proiettare le idee della fisica in ambiti così lontani come la psicologia”. (5)

La psiche o più semplicemente l’uomo inteso come oggetto materiale tridimensionale, esauribile nella dimensione logico-razionale, diviene altro. Il criterio meccanicista non è applicabile a ciò che non è costretto entro una voliera consapevole e condivisa, anche nel suo linguaggio, da tutti i canarini. La natura della psiche o dell’uomo, e la realtà che questo descrive, diviene più accessibile se intesa in termini quantici. Ovvero che essa, in modo tendenzialmente imprevedibile – salvo essere maghi – assume le forme in funzione del contesto. E ancora non basta, in quanto il contesto non è il contesto, ma ciò che noi possiamo dire su esso.

Osservato e osservatore costituiscono una diade, un ente non scomponibile, entro il quale esiste un certo mondo. Sono in numero crescente coloro che ne sono al corrente. Ma questa consapevolezza corrisponde a una prospettiva che richiede un aggiornamento. Si può osservare, infatti, che l’osservato non esiste proprio senza osservatore. È per questo che il ce l’avevo sotto il naso e non lo vedevo, più che una formula da tutti impiegata per spiegare come siano potute accadere certe cose, contiene e allude alla residenza del mondo o della realtà nella relazione.

Un esempio equipollente lo si trova nel bastava che... Quante volte l’abbiamo detto e sentito dire, come se quanto stiamo vedendo ora fosse a disposizione anche prima o come se quanto vedevamo noi lo stesse vedendo anche il nostro interlocutore. E lo si trova anche nel richiamo al buon senso. Come se fosse uno per tutti.

Una consuetudine, uno status quo è più forte di una persona. È una specie di corrente che ci trascina senza aver coscienza di essere trascinati, almeno finché non ce ne si avvede. Solo allora possiamo riconoscere d’aver scambiato le consuetudini, i valori e una certa realtà per la sola realtà possibile. Solo allora il perno egocentrico recede e tutto passa da oggettivo a relazionale, da solido e stabile a dipendente e ologrammatico.

L’impermanenza della realtà, nonostante sia la prima evidenza che la storia ci offre, diviene ora, fuori dalla voliera egocentrica, emancipazione dall’illusorietà della mondanità e soglia d’accesso alla consapevolezza dell’eternità delle dimensioni preformali.

Tutti gli uomini possono partecipare a questo processo se adeguatamente motivati alla ricerca. Così quando questo si compie non diviene più possibile descrivere in questo modo la realtà, come fosse materialmente e definitivamente esplorabile. Il problema è che, procedendo in quel modo, ci si dà la zappa sui piedi, ci si impedisce quell’evoluzione che ha in sé il seme della bellezza, in quanto germe di serenità e benessere. Ci si impedisce l’avvento di un paradigma non più sanguigno e bellicoso!

Lorenzo Merlo



Note

1. Benjamin Labatut, La pietra della follia, Milano, Adelphi, 2021.

2. Ivi, p. 22-23.

3. Francisco J. Varela, Evan Thompson, Eleanor Rosch, La mente nel corpo, Roma, Astrolabio, 2024, p. 23.

4. Ivi, p. 24-25.

5. Benjamin Labatut, Quando abbiamo smesso di capire il mondo, Milano, Adelphi, 2021, p 57.



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