I padroni del mondo squarciando il velo d’ipocrisia con cui ammantavano i loro loschi affari non hanno più bisogno di simulare. Ormai perseguono i loro nefasti progetti alla luce del sole confidando nell’ignoranza e nell’indifferenza generale. Come Brenno gettano con violenza sul piatto della bilancia la loro spada per ricordare ai vinti chi è il più forte.
Qualche lupo ancora si camuffa travestito d’agnello e ama ostentare le sue munifiche elargizioni unicamente perché giova alle sue trame. Di fatto da consumati burattinai i padroni dominano il mondo a spese dell’intera umanità, sempre più impoverita e sofferente.
Una tragedia che si trasforma in commedia grazie soprattutto al circo mediatico al servizio della propaganda, che ama allestire, non senza una certa dose di cinismo e di senso degli affari, il più amato degli spettacoli: lo scontro nell’arena.
Cosa c’è di più bello e di più entusiasmante per un popolo distratto e turlupinato, annoiato e privo di emozioni se non quello di inscenare un bel duello rusticano all’ultimo sangue? D’altronde gli imperatori romani l’avevano capito molto bene quest’arma di “distrazione di massa” coniata nella celebre locuzione “Panem et circenses”.
Il pane in una società opulenta non serve più a sfamare, ormai è un retaggio della povertà, e per assistere allo spettacolo basta una busta di popcorn e una lattina di coca cola da consumare sdraiati comodamente su di un divano mentre a reti unificate va in scena l’ennesimo duello.
Come è noto, ogni duellante ha i suoi fans pronti a scatenarsi e a vomitare tutta la loro rabbia repressa, anche a commettere gesti indicibili, pur di contribuire alla vittoria del loro idolo.
E così, mentre l’imperatore e la sua corte accrescevano prestigio e potere, i lanieri di turno incrementavano i loro affari sulla pelle degli schiavi, i gladiatori quando sopravvivevano godevano di qualche istante di gloria in attesa del duello successivo, e infine una parte degli spettatori composta dalla plebe, quella il cui beniamino aveva vinto, tornare a casa soddisfatta. Per un momento avevano dimenticato i loro problemi.
L’identificazione con l’eroe vittorioso nutriva la loro voglia di riscatto sociale e rafforzava il senso di appartenenza ad una fazione, ma era un’illusione perché la loro condizione non sarebbe mutata. Rimanevano sempre nel recinto dei paria agli occhi dei potenti. Al più potevano far parte di una macabra scenografia. Secoli di storia ci hanno raccontato questo triste destino.
Il tifo è una manifestazione dell’animo umano incline al parteggiamento e non c’è ambito sociale in cui non si creano fazioni. Tante sono le ragioni che spingono gli uomini a schierarsi e ciascuno ha le sue preferenze. Ma non tutte le competizioni suscitano lo stesso interesse, ci sono alcune, come la guerra, specie nell’era atomica, che va al di là della semplice passione e che invece sono foriere di un totale annichilimento che mette seriamente a rischio la sopravvivenza stessa dell’uomo.
Da queste semplici considerazioni, la predisposizione a prendere le parti sembrerebbe congenito alla natura umana per cui tifosi si nascerebbe. Ma anche questa è una “verità” parziale come cercherò di dimostrare.
Per molti il tifo, specie quello più organizzato, è una specie di religione che ha i suoi riti, i suoi templi e suoi sacerdoti. Sul suo altare la prima vittima sacrificale è la ricerca della verità e la seconda, altrettanto nefasta, è la demonizzazione dell’avversario. Quest’ultimo tanto più sarà screditato come il male assoluto, quanto più i tifosi riterranno giusta la causa per cui combattono.
Una dimostrazione di queste dinamiche conflittuali è rappresentata dalla vita politica dove i partiti tutelano o meglio dovrebbero tutelare gli interessi del loro elettorato, al netto di promesse non mantenute! Una raffigurazione che non aderisce più alla realtà, dal momento che la partecipazione al voto è precipitata vertiginosamente a dimostrazione del fatto che i cittadini non si fidano più di nessuno. Essi non si sentono più rappresentati dai partiti tradizionali a cui rimproverano, tra l’altro, l’asservimento ad interessi di potentati extranazionali che espongono il paese alla subalternità e al ricatto.
Ritornando a ragionare sulla domanda espressa nel titolo di questo articolo, possiamo ragionevolmente affermare che l’obiettività è una virtù rara perché presuppone il riconoscimento e il rispetto dell’altro a prescindere dal proprio tornaconto.
Un atteggiamento fatto di ascolto, di equilibrio, senso del limite, conoscenza dei fatti e soprattutto di fiducia reciproca. Ma se è difficile riscontrarla anche tra i più virtuosi, diventa perfino blasfema per quelle tifoserie particolarmente focose perché chi compete con il loro beniamino o con la parte socio – politica a cui appartengono, è un nemico che non merita nessun rispetto e che anzi deve essere sconfitto e soggiogato.
Se questi meccanismi perversi, che una certa consuetudine ha normalizzato, sono il sale, bene o male, di una competizione sportiva, nel mondo in cui viviamo, dove vige “Homo homini lupus”, cioè la legge del più forte, sono il segnale di una deriva disumanizzante che relega le masse nell’insignificanza.
Ho voluto accennare questo breve excursus per confidarvi che non sono interessato a questo genere di contese. Non mi appassionano né le arene mediatiche, né tutto il teatrino che gli gira intorno, ma cerco di osservare le vicende umane per quelle che vedo, almeno dal mio punto di vista, e non ho particolare stima per coloro che creano subdolamente la contrapposizione e lo scontro per venali ragioni di bottega.
Le mie poche forze sono destinate a creare una possibile convivialità delle differenze perché le divisioni nel tessuto sociale non fanno altro che il gioco dei potenti. Anche qui ci viene in soccorso un’antica locuzione latina “divide et impera” che ci ricorda come il potere teme la coesione sociale e che farà di tutto per seminare discordie e rivalità grazie al sostegno di un sistema mediatico corrotto che foraggia lautamente e che ha il compito di aizzare le tifoserie.
Che si creino ponti e si abbattano muri, mi verrebbe a dire! Anche se un sentimento di scoramento e di impotenza sembra vanificare le migliori intenzioni sotto questo cielo. Morale della favola: tifosi non solo si nasce, ma anche si diventa!
Si diventa perché un esercito di prezzolati corifei, tutti i giorni, approfittando dell’ignoranza diffusa e dei tanti malumori che serpeggiano nella società, inoculano nel cuore dell’uomo il veleno mortifero dell’inimicizia generando diffidenza e paura. Attraverso un’informazione disonesta e fuorviante cercano di suscitare gli spiriti più retrivi nei loro accoliti da scagliare contro fantomatici nemici.
Uno stillicidio martellante e subdolamente strumentale che serve a giustificare le vere intenzioni che perseguono e che si vorrebbero ineluttabili. I prepotenti non perseguono la giustizia, ma cercano unicamente una giustificazione per legittimare la loro sete di potere.
Solerti e miserabili pennivendoli sono impareggiabili maestri nella creazione del nemico di turno a cui attribuiscono le peggiori nefandezze. Un nemico che rappresenta il male assoluto e una minaccia da estirpare. Come se la minaccia giungesse sempre e comunque dall’esterno, dagli altri, e non da noi stessi e dal nostro oscuro mondo interiore.
Ad essere onesti la disinformazione avrebbe più difficoltà a propagarsi se trovasse una società più attenta e responsabile, tanto lenta a giudicare, quanto sollecita ad informarsi correttamente utilizzando buon senso e spirito critico. Non è semplice barcamenarsi nel mare magnum delle notizie, né si ha il tempo necessario per documentarsi meglio, ma se si sospendesse il giudizio in attesa di maggiori chiarimenti non sarebbe vano.
La mia esperienza mi suggerisce che il miglior antidoto per proteggerci dal fanatismo fazioso, che potrebbe albergare soprattutto in noi, è la predisposizione al dialogo e al confronto, dove nel riconoscere le ragioni dell’altro scopriamo che ci sono infiniti punti di vista e soprattutto che non siamo il centro del mondo intorno al quale tutto ruota. Quando il dialogo si basa sul rispetto reciproco e sulla sincerità potrebbe diventare una risorsa preziosa per tutti. Non bisogna aver ragione a tutti i costi, ma tendere al bene comune cercando ciò che ci unisce.
Se non siamo mossi da sentimenti di malvagità e al contrario siamo animati da una sincera compassione si tende a solidarizzare con gli inermi quando sono vittime dei soprusi e delle prepotenze dei più forti. E allora, non di rado, spinti da carità fraterna si tende la mano verso coloro che vivono nell’indigenza. L’umanità è piena di questi esempi, ma se prendere le parti delle vittime dei soprusi e delle tante ingiustizie è un sentimento nobile che sgorga nell’animo umano, francamente mi riesce difficile parteggiare per gli squali che si scontrano nelle arene del mondo per accaparrarsi il bottino. Se hanno scelto di fare gli squali sanno che non devono soccombere se vogliono prevalere. Sanno che “Mors tua vita mea”.
Negli squali spesso si assiste che alle prime schermaglie, una volta che si sono annusati e stimate le rispettive forze, non di rado anche quelli più protervi stimeranno più conveniente mettersi d’accordo, piuttosto che scannarsi a vicenda, assegnando il boccone più grande allo squalo più forte. C’è solo un problema in questo scenario, si fa per dire, che quel boccone siamo noi, il popolo bue!
Mi chiedo allora: “Perché i pesci più piccoli, che hanno un destino segnato se non trovano intelligenti strategie unitarie, senza le quali verranno prima o poi fagocitati dall’insaziabile voracità dei loro predatori, dovrebbero parteggiare per i loro carnefici?”
Perché dovrebbero tifare per i loro squali - aguzzini? E ancora, perché dovrebbero simpatizzare per quello meno forte? Per entrambi gli squali i pesci più piccoli non sono che cibo! Non riesco sinceramente a capire l’entusiasmo delle vittime nell’imbandire la tavola dei loro assassini. E come consegnare “corda e sapone” al boia che ti sta trascinando al patibolo!
Per chi non ama schierarsi il problema sorge quando le tifoserie ti vogliono intruppare per forza nel loro reggimento perché, come recita un vecchio adagio “Chi non è con noi è contro di noi”. Una semplificazione manichea che si commenta da sola. Chi non si uniforma alle idee dominanti è un pericoloso sovversivo verso cui viene aizzata la canea inferocita al soldo della propaganda.
E in ultimo, per quello che vale, mi permetto di ricordare a chi ha scelto di non far parte delle tifoserie, a chi ha un pensiero autonomo, che prima o poi il suo nome verrà inserito nella lista di proscrizione dalla propaganda di regime ed esposta al pubblico ludibrio con tanto di foto segnaletica sotto la quale spiccherà a carattere cubitali il prefisso “Filo” che anticipa il nome del nemico che vorrebbero annientare.
Michele Meomartino
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