Non ci eravamo accorti che pensavamo come fossimo un trenino
Marklin. Indomiti segugi orgogliosi di seguire e riconoscere i binari
della logica, pronti a puntare sui reprobi affinché la punizione
sparata dalla doppietta del razionalismo li eliminasse. Così,
stupidi almeno come chi giudicavamo stupido, avevamo creduto che il
mondo fosse davvero il diorama sul quale pedestremente, a
imperterrito ciclo continuo, non cessavamo di roteare beandoci. Ops.
“Lui si dichiarò disposto a dirle tutto se lei avesse risposto a
una sola domanda: cos’è un metro?” (1)
Dannazz maledizz (2)
Non si può usare l’infinito come un numero,
come un dato dalle caratteristiche definite. L’infinito è sempre
latente, la storia, ovvero gli uomini, costretti dall’esistenza e
dalle sue esigenze, non lo vedono e costantemente lo riducono a
qualcosa di definibile da impiegare all’uopo, esattamente come un
numero qualsiasi.
La logica, articolata architettura senza
profondità, non se ne cura. Non si avvede di rappresentare il mondo
piatto e, in quanto tale, falso come ombre cinesi o platoniche, vere
solo e soltanto entro la propria autoreferenzialità.
Utilizza l’infinito come un elemento
fisso e a se stante. Così facendo – altro non può – crea
il paradosso (uno tra i più) cioè, annuncia, sebbene
inconsapevolmente, il limite di sé. Come può il discorso logico
contenere il Tutto se non appropriandosi dello scibile con la spada
travestita da verità? Se non convertendo a essa con la scuola ogni
bambino? All’interno della bolla logicista tutto viene affermato e
contraddetto. Ciò accade nel momento in cui due parti contrapposte
si confrontano, e nel tempo. Non è vero che oggi rinneghiamo ciò
che abbiamo sostenuto in passato? Non è vero che abbiamo osservato
nel prossimo il medesimo processo? Se la contraddizione nel mondo
logico non è presenza gradita, nell’infinito essa vive senza
l’arroganza di sottrarre dignità al pensiero alogico e a qualunque
altro.
“«Un punto di vista è limitato di per sé. Ci dà una visione a
senso unico del paesaggio. Solo quando si sommano più sguardi
complementari sulla stessa realtà si ha pieno accesso al sapere
delle cose. [...] È questa la natura di una visione autentica:
mettere insieme i punti di vista già conosciuti e mostrarne altri
finora ignoti, insegnandoci che, di fatto, sono tutti parte dello
stesso Tutto»”. (3)
Nonostante ciò, l’idolatria scientista, che
ha nella logica e nel razionalismo il suo truccato asso nella manica,
seguita a fare adepti. L’incantesimo è confortato dalla quantità
e dalla maggioranza, se sei apocrifo, sei da abbattere.
Un fatto di cui la cultura, il suo sistema e i
suoi intellettuali non si curano e, sotto il vessillo dei principi
aristotelici e illuministi, seguitano nella loro – fallace –
avanzata verso la conoscenza... del plastico.
Oltre la logica esiste il mondo che la scienza non può misurare e
quindi, per questo, non considera conoscibile.
“Gli ricordò che la psiche umana era un mistero più grande di
qualsiasi enigma matematico, e che non era saggio proiettare le idee
della fisica in ambiti così lontani come la psicologia”. (4)
Una precisazione. Il potere della logica è massimo entro un sistema
chiuso, regolamentato, condiviso dalle parti che vi entrano. Ne sono
esempi la matematica – nient’altro che un alfabeto con cui
narrare qualunque storia – il gioco del Monopoli (tutti i giochi),
il codice della strada, eccetera. Tuttavia per l’idolatria citata
l’uomo (ma non la madre) tende a credere che il medesimo potere
possa dispiegarsi fino a segnalare la verità condivisa anche in
contesto emozionale aperto, ovvero tutti quelli relazionali umani,
non amministrativi. Allora qui il miglior servizio che la logica può
offrirci non solo viene meno ma crolla trascinando tutto (i
relazionati) con sé, tirando fuori dagli uomini la loro più
creativa crudeltà e indifferenza. È ciò cui assistiamo
quotidianamente quando giudichiamo male il prossimo che si comporta
in modo estraneo ai nostri modelli, quando accadde l’equivoco,
quando cioè non possiamo ammettere – perché neppure lo
sospettiamo – che l’altro sia sempre o in quel momento in un
universo diverso dal nostro, ovvero entro un’emozione altra.
Gli scienziati (e anche gran parte dei medici) – ma ora, senza più
vocazione spirituale, meglio chiamarli tecnici al servizio di
chiamate vanitose e materiali – lavorano dimentichi del carattere
socratico (ippocratico per i medici) della loro Madre Scienza,
opportunamente messo in evidenza da Karl Popper, da Kurt Gödel e da
Ludwig Wittgenstein.
Si deve quindi ai notabili della cultura materialista, supremi
maggiordomi della politica, la riduzione dell’infinita realtà
entro i binari di un mondo ridotto, senza saperlo, al diorama uscito
dai loro disegnini e appunti. Riduzione che implica anche la
compressione dell’uomo – che nella tradizione sapienziale, va
ricordato, è detto microcosmo – entro le sue regolette così
piatte da stare comode e a spadroneggiare a loro agio solo su un
piano cartesiano, ma perfino ridicole sul quello
umanistico-evolutivo, emozionale-energetico, simbolico-archetipico.
Nel seguente brano, un esempio di come si esprime l’assolutismo
cognitivo logico-razionale-scientista.
“Dopo essersi ritirato, nell’autunno del 1930, Hilbert fu
invitato a tenere un discorso nella sua città di origine,
Königsberg. Davanti all’Associazione degli scienziati e dei medici
tedeschi parlò a lungo di scienze naturali, dell’importanza della
matematica nella scienza e del primato della logica nella matematica.
Affermò perentorio che mai si dovrebbe accettare l’inconoscibilità,
che non dovrebbero esistere problemi scientifici irrisolvibili né
limiti ontologici alla nostra comprensione, che nulla dovrebbe essere
considerato a priori al di fuori della nostra portata, e
concluse la sua appassionata invettiva, traboccante di germanico
orgoglio, proclamando a gran voce: Wir müssen wissen! Wir werden
wissen!
Dobbiamo conoscere! Conosceremo!” (5)
La loro progenitrice Scienza, che tutto osservava e di tutto
dubitava, sapeva che la conoscenza tratta dal plastico e stipata in
forma di dati nei magazzini dei libri non costituisce sapere, se non
tecnico. Cioè un tipo di conoscenza assolutamente assimilabile a
quella necessaria per erigere un muro.
Non è un caso che i suoi pronipoti non abbiano mai potuto indagare e
dare risposta alle domande fondamentali. La loro miglior arma, la
logica, neppure scalfisce il corpo di alcun mistero. Anzi, è proprio
lei a generarli ponendosi, con atteggiamento positivista, le domande
fondamentali. Chi non è sotto il dominio del pensiero scientista non
pone nella domanda il culmine della propria ricerca, perché sa
che la risposta non può avere carattere positivo, perché
sa che una domanda di natura cartesiana, per quanto in buona fede,
distorce la prospettiva in cui il mistero viene meno, quella che ci
permettere la consapevolezza che il mistero siamo noi, che per
conoscerlo possiamo solo esserlo, che ritenendoci altro da lui,
sempre l’avremo dirimpetto e sempre resterà positivisticamente
inconoscibile. Ne più né meno di quanto fatto da Cristo in merito
al dolore del mondo: se vuoi ridurlo, devi esserlo e per esserlo il
tuo interesse, orgoglio e identità devono sparire nella
consapevolezza che sono provvisori e caduchi artifici della storia.
Ops
Questo articolo non è contro la scienza in sé ma contro coloro che,
a causa della pressione delle consuetudini, comprensibilmente l’hanno
scambiata per una dea e posta in cima alla montagna più alta. È
contro i suoi devoti, gli scientisti. Sono loro il problema. Ultimi
pronipoti che non solo hanno travisato tutto della loro madre, ma
hanno proprio dimenticato di averla avuta, hanno frainteso tutto fino
al punto di rinnegarla e correre a succhiare le tette a una sua
surrogata e succedanea detta tecnologia.
Il risultato, ciò che ne resta, è mortificante. La scienza ridotta
a scientismo senza più alcuna autonomia né terzo occhio, da virtù
è divenuta merce con diritto d’onnipotenza. Così, il padrone ha
mandato gli inservienti al mercato a comprarla.
Il libro di Benjamin Labatut, attraverso la narrazione delle vicende
di grandi fisici rivela le dimensioni umane per le quali la meccanica
classica non è rappresentativa, mentre quella quantistica permette,
invece, di adocchiare le dinamiche relazionali in campo aperto,
almeno all’uomo ripulito dai dogmi scientisti.
L’autore olandese nel suo Quando abbiamo smesso di comprendere
il mondo (Adelphi), seguendo piste da termitaio ci racconta le
vicende di una serie di uomini e delle loro idee. Si tratta di
scienziati che il mondo chiuso nella capsula scientista non è in
grado di intendere. Come faccio a dirlo? Guardo al punto in cui ci
troviamo, le guerre, la volontà di dominio sul prossimo, il
capitalismo finanziario come rispettabile miglior mondo possibile, il
degrado, da quello valoriale a quello sociale e materiale, la povertà
crescente, la disoccupazione che neppure fa più testo,
l’esportazione della democrazia, le guerre travestite da aiuti,
quando non da pace, sono elementi di un elenco impressionantemente
lungo, impressionantemente dato per status quo e incredibilmente base
per occuparsi d’altro, solitamente più vanitoso, di corta veduta e
d’interesse personale. Un elenco che chiunque può osservare per
vedere dove la cultura scientista, quella diretta alla verità
– ricordate? – ci ha condotti.
Nonostante ciò, non sono gli scienziati a doversi svegliare, a dover
riprendere in mano un’etica umanistica e gettare quella
positivisticamente mercificata, siamo noi che dal divano dobbiamo
spegnere la tv e bigiare i banchi di scuola. Loro senza il nostro
consenso potrebbero ancora proporre qualunque direzione ed evoluzione
tecnologico-materiale, ma non arriverebbero a realizzare quanto hanno
fatto in quest’epoca mercenaria. Altroché aver rinnegato madre
Scienza, altroché essere divenuti fieri di stare sul banco del
mercato in attesa del maggiordomo giusto. Hanno perso il contatto con
la matrice della vita, con la madre primigenia, hanno creduto di
poter fare da soli, di non dover rendere conto a nessuno se non al
padrone, di trovare suprema legittimazione di se stessi nel solito
tengo famiglia. Quello che, per legittimare la propria azione,
dice anche il ladro e, mediamente, la categoria dei giornalisti,
degli intellettuali e degli artisti. Ed ecco dove siamo. Guardati
intorno, cosa vedi? Bellezza? Salute? Serenità? Compassione?
Beatitudine? Gioia? Tranquillità? O affanno? Paura? Avidità?
Invidia? Sopraffazione legalizzata? Indifferenza? Luoghi comuni
gettati come bombe a grappolo dalle squadriglie del politicamente
corretto? Interessi individuali? Politiche inconcepibili? Orizzonti
di guerra? Corruzione? Sfruttamento? Bruttezza? Consumi come
soddisfazione? Alienazione omicida e suicida? Infatuazioni per le
mode?
Non mancano, anzi ne siamo pieni fino al rigurgito, i moniti
apoteotici della mente succube della logica. Ignaro del potere
conoscitivo della contemplazione, del corpo, della meditazione di
fronte all’incomprimibile, lo scientista, pur impettendosi, non può
che vacillare e rifugiarsi nei suoi luoghi comuni, gli stessi
utilizzati per vendere dentifrici “scientificamente testati”.
Formula che riempie in un istante la pancia vuota degli adoranti.
“«Esiste almeno una cosa stabile su cui si fonda l’universo o
non c’è nulla a cui aggrapparsi in questa catena di movimenti
senza sosta nella quale tutto è intrappolato? Rendetevi conto fino a
che punto siamo caduti nell’incertezza. Se l’immaginazione umana
non riesce a trovare un solo luogo in cui gettare l’ancora e non
c’è pietra al mondo che possa considerarsi immobile!».
Schwarzschild auspicava la venuta di un nuovo Copernico”. (6)
Lo scientista è colui che si muove solo nel ristretto mondo del suo
oratorio – il resto del mondo non c’è – perciò da esso parla,
proclama e legifera. Non può configurarsi qualcosa che non sia
composto dai suoi simboli matematici che crede essere un’esclusiva
della fisica, cioè non vede che sul palco del mondo sono sempre gli
stessi attori a recitare parti diverse e che queste non sono che
reciproche metafore. Metafore che, a loro volta, corrispondono a
magie che, se non riconosciute, incantano l’attenzione sulla forma.
Restando così concentrato sulla forma seguita a credere che ognuna
di queste comporti un suo primato di sapere impedendosi così la
conoscenza. Non vede che tutto è Uno, né che col suo alfabeto si
possono raccontare storie che vanno al di là della fisica, del
pedante mondo del determinismo-meccanicista. Nessuno più dello
scientista soggiorna impunito, in sdraio, ombrellone e bibita con
cannuccia, sul fondo della caverna di Platone.
Le verità universali, invece, da qualunque tradizione sapienziale
provengano convergono tutte al medesimo centro: l’essere non è
nelle idee ma nella loro assenza, dunque non negli apparenti saperi,
valori e certezze, ma nel riconoscere questi come fenomeni storici,
al pari dei passatempi.
Purtroppo si tratta di una banalità per alcuni e di un segreto per
gli scientisti, per quel clero civile votato alla chiesa del
determinismo, del riduzionismo, del razionalismo e del meccanicismo.
Anche se l’humus strettamente meccanicista impregna la cultura, vi
sono ricercatori, tra cui Karl Gödel, consapevoli che il mare in cui
nuotano i pensieri umani non è tutto. Il matematico tedesco chiama
singolarità ogni evento che non sta nello spazio-tempo.
Prendendo a prestito il suo gergo, possiamo riconoscere che quando i
singoli dati misurati si radunano in massa a comporre grandi numeri,
ciò che da questi emerge non è più prevedibile, come invece,
tendenzialmente, lo era singolarmente o in piccoli numeri, la cui
volatilità e volubilità tendeva a non crearsi. Ciò è una sorta di
evidenza dell’inefficacia o del limite del meccanicismo quando
vuole governare una realtà che non sia ridotta ad amministrazione
della vita, composta da elementi separati e fermi, o da dinamiche
mosse da poche variabili. Una realtà in cui, come in salotto,
possiamo entrare e uscire convinti di ritrovare tutto come l’avevamo
lasciato.
“La singolarità era un fenomeno cieco, fondamentalmente
inconoscibile. [...] La fisica semplicemente smetteva di aver senso”.
(7)
“Inconoscibile” solo logicamente parlando, ma chiaro e senza
bisogno né possibilità di dimostrazione, quando ci si emancipa
dalle forme e dalle quantità cartesiane proprie della conoscenza
materialistica.
Il primo teorema d’incompletezza di Gödel allude all’osservazione
che ogni affermazione coerente al sistema che l’ha generata non può
essere dimostrata in quanto si autosostiene: vale a dire che
l’autoreferenzialità come via alla verità è fallace.
Per gli insoddisfatti, a conforto di quanto sopra, si può aggiungere
il secondo principio d’incompletezza: nessun sistema logico e
quindi coerente può essere impiegato per dimostrare la definitiva
attendibilità di se stesso.
La realtà non avviene finché la nostra esigenza non la catalizza,
essa è dunque un’interpretazione del tutto autoreferenziale,
quindi assiomatica e perciò impermanente, cambia col cambiare
dell’esigenza o del tempo. Considerarla vera impone di sopraffare
le verità dell’altro, a sua volta di pari matrice, e quindi
arrivare allo scontro, sempre secondo esigenza.
Evidenze madornali per tutti ma non per lo scientista che crede di
riconoscere in ciò un insuperabile antropocentrismo. Un concetto
che, se dovesse mai riuscire ad aprire lo scrigno che lo contiene,
gli rivelerebbe una banalità: è proprio a mezzo della
consapevolezza della caducità e parzialità dei saperi cognitivi,
che ci si può emancipare dall’egoico e culturale antropocentrismo.
Ogni idea, anche la più raffinata e convincente, ha in sé l’angolo
oscuro in cui si nasconde la sua vacuità e negazione. Prendersi
troppo sul serio è una specie di errore di fondo che genera il caos
mentre ognuno tenta di mettere ordine anche per gli altri. Insomma,
tacere forse non si può, ma parlare come se proferissimo verità è
criminale. E questa stessa osservazione non gode d’esenzione.
Tuttavia, averne consapevolezza tende a ridurre il rischio di
prepotenza e sopraffazione, due epiloghi esaltati dallo scientismo.
“Il fisico – come il poeta – non deve descrivere i fatti del
mondo, ma creare metafore e connessioni mentali. Da quell’estate in
poi, Heisenberg capì che applicare i concetti della fisica classica
– come posizione, velocità e movimento – a una particella
subatomica era uno sproposito madornale. Quell’aspetto della natura
richiedeva una lingua nuova” (8).
La questione in fondo è semplice una volta saltato il muretto del
proprio campetto di gioco. E qual è il campetto? Quello che ci sta
sempre sotto i piedi affinché ci si senta autorevoli, almeno nei
confronti di se stessi.
Dunque, saltato il muretto, quello delle nostre più recondite
convinzioni, sconosciute a noi stessi, diviene lapalissiano che tanto
più affermiamo, tanto più nascondiamo. La realtà da piatta ––
dove, con saccente eloquenza, possiamo descrivere com’è il mondo
e, soprattutto, credere che nella descrizione risieda la semplice
osservazione della realtà e non la sua creazione – diviene
ologrammatica o quantistica, disponibile a realizzarsi solo ed
esclusivamente al nostro cospetto. Appare univoca solo ed
esclusivamente al cospetto dello stesso pensiero, così come appare
equivoca, quando non blasfema, di fronte al pensiero non
consuetudinario.
“Gli oggetti quantistici non avevano un’identità definita, bensì
abitavano uno spazio di possibilità (9)
Quando si dice che è inutile chiedere al pesce com’è l’acqua
oggi? Ecco due campioni che abitano il mare della logica. Si
tratta di commenti relativi a questo articolo.
In entrambi si può vedere splendere lo scientismo che ne fa da
sfondo e il potere logico-razionalista che obnubila il pensiero di
molti.
“E certo, dopo la scoperta della struttura microscopica della
materia e la codificazione delle sue proprietà nella meccanica
quantistica, «non possiamo qui
ricorrere ad alcun tipo di leggi».
Chissà cosa hanno combinato in questi ultimi cento anni i fisici,
privi della possibilità di ricorrere alla formulazione di regole
atte a descrivere e prevedere il mondo. Forse si sono raccontati
barzellette. Intanto, si affermava il pensiero unico magico quantico.
Che tristezza, vedere la ricchezza e la creatività della fisica
moderna ridotta a questi stereotipi”.
“Caro Battimelli una prova per verificare se uno è un cialtrone è
se usa a sproposito, cioè fuori contesto strettamente fisico, il
termine ‘Quantistico’ o meglio ancora ‘quantico’.
Tocca
farci l’abitudine e passare oltre”.
Lo scientista, al pari del ligio probiviro delle consuetudini, come
ogni idolatra, non mette in discussione il criterio scientifico che –
ancora una volta – a sua convinzione corrisponde alla sola modalità
da rispettare per raggiungere la vera conoscenza. Si trova così
genuflesso a difendere norme di un sistema di ricerca come fosse
calato dal cielo del Dio Logico, tanto da dimenticare d’essere un
essere cosmico e non un laureato o un prevaricatore culturale del
prossimo che ne vede invece il limite e l’autoreferenzialità.
“La realtà, [Heisenberg e Bohr, nda] dissero ai presenti, non
esiste come qualcosa che prescinde dall’atto dell’osservazione”.
(10)
Ma che lo dico a fare, come disse una volta un esimio professore di
fisica per condannare il pensiero che, siccome non riusciva a capire,
poteva solo ciarlatanizzare.
Non dire solve et coagula né per orientarti nell'infinito
distinguer devi e poscia unire. Il principio alchemico e quello
goethiano si abbracciano e rivelano, ma che lo dici a fare allo
scientista?
Lorenzo Merlo
Note
Benjamìn
Labatut, Quando abbiamo smesso di capire il mondo, Milano,
Adelphi, 2021, p. 81
Espressione
plagiata da Za-gor-te-nay, Spirito con la scure, detto
Zagor, protagonista dell’omonimo fumetto pubblicato da Sergio
Bonelli editore.
Ivi, p. 78
Ivi, p 57
Benjamìn Labatut, La pietra
della follia, Milano, Adelphi, 2021, p. 17
Benjamìn Labatut, Quando...,
p. 49
Ivi,
p. 56
Ivi, p. 92
Ivi, p. 153
Ivi, p. 158