La piccola comunità di Calcata
Crisi della polis e nuovo urbanesimo di Antonio Castronovi *
Che cos’è oggi la città? La sua aria rende ancora liberi i suoi cittadini? Quali le forze scatenanti
della nuova grande urbanizzazione globale? Il gigantismo urbano, la metropolizzazione del
territorio, le grandi città globali, gli slum e le baraccopoli, le mega-regioni, le mega-city, sono
compatibili con la nostra idea di democrazia ? Possiamo parlare di crisi della Polis, intesa nel senso
di politica e di città? Quali i valori fondanti di un nuovo urbanesimo?
La città moderna non sarebbe esistita senza la città comunale indipendente, caratteristica dell’Italia e della Germania. La rinascita delle città intorno all’anno Mille avvenne in Europa sotto il segno della libertà di commercio e dell’ autonomia dei suoi membri dal controllo dei feudatari. Qui si sperimentarono le prime forme di democrazia attraverso le libere elezioni dei propri
rappresentanti. In Italia questo processo fu anticipato con la nascita e lo sviluppo delle libere
repubbliche marinare che segnarono l’inizio di una egemonia italiana nel commercio e
nell’economia mondiale.
Le città hanno creato un ordine sociale basato sul diritto alla cittadinanza per tutti quelli che vi
risiedevano, non basato su vincoli di sangue o etnici, compreso il diritto alla protezione e alla
sicurezza per lo ‘straniero’.
Perché oggi le città, soprattutto le più grandi, invece che alla sicurezza, sono sempre più associate
alla paura e al pericolo?
Non ho risposte esaustive a tutte queste e ad altre domande simili. Proverò a darne qualcuna.
L’esplosione/decadenza urbana nel mondo
Più della metà degli abitanti della terra oggi risiedono nelle aree urbanizzate. Ad espandersi in
maniera tumultuosa sono soprattutto le cosiddette megalopoli, aree metropolitane con più di 10
milioni di abitanti. Le aree urbanizzate occupano solo il 2% della superficie terrestre, ma
consumano tre quarti delle risorse del pianeta, producendo una massa enorme di gas inquinanti, di
rifiuti e di sostanze tossiche. Le città che superano i 10 milioni di abitanti nel 2015 dovrebbero
essere 40, in gran parte nei paesi emergenti e nell’Africa. Quelle che superano il milione di abitanti sono più di 500. Cent’anni fa la città più popolosa al mondo era Londra con 6,5 milioni di abitanti.
Il gigantismo urbano è fonte di enormi problemi ambientali e sociali, produce conseguenze
catastrofiche dal punto di vista della sicurezza urbana, dell’aumento delle malattie, dello
smaltimento dell’entropia accumulata. Negli ultimi quindici anni sono enormemente cresciute il
numero delle baraccopoli o slum, oggi ci vivono più di un miliardo di persone: a Dhaka in
Bangladesh, a Joannesburg, a Karachi in Pakistan, a Nairobi, a Rio de Janeiro, a Calcutta, a
Mumbai, a Istanbul, ecc.. L’Africa sub-sahariana ha la più estesa popolazione di baraccopoli:
secondo le stime delle Nazioni Unite sono 199,5 milioni, ovvero il 61,7% della popolazione urbana
complessiva.
Le mega-città oggi formano mega-regioni che si diffondono nel mondo, città infinite raccordate da
relazioni amministrative, geografiche ed economiche. Le 25 maggiori città della terra producono
più della metà della ricchezza del pianeta. Le 5 più grandi città della Cina e India producono il 50%
della ricchezza dei rispettivi paesi. Sono 40 le mega-regioni, di cui parla il Rapporto UN Habitat
2010-2011 delle Nazioni Unite, nelle quali vivono un quinto degli abitanti della Terra e si svolge il
66% delle attività economiche e l’85% di quelle tecnologiche e scientifiche. Esse hanno
un’economia intorno ai 100 miliardi di dollari minimo, che le pone al di sopra della 40ª più
grande nazione in termine di PIL. La mega-regione in pratica svolge la funzione che una volta era
svolta dalla città ma semplicemente su scala molto maggiore. Secondo il Rapporto, Hong Kong-
Senhzn-Guangzhou in Cina è la mega-regione più estesa e popolata del mondo, un’area abitata da
120 milioni di persone.
Questo modello urbano è ecologicamente e democraticamente sostenibile?
L’impronta ecologica sostenibile del pianeta, necessaria a produrre le risorse utilizzate per
assorbire i nostri rifiuti, equivale a un indice di 1,78 ha pro-capite. Ma un americano ne necessita di 9,5 ha, un italiano di 4,8 ha, il Lazio di 3,98 ha. Ad una città come Londra serve per sostenere il suo modello di consumi e di smaltimento un’area 125 volte più grande, a Milano ne serve per 300
volte. L’intero continente africano ha invece un’impronta ecologica inferiore ad un ha pro capite.
Oggi consumiamo il 23% in più delle risorse che la Terra riesce a produrre in un anno. Per essere
ancora più chiari le risorse che la biosfera produce in 365 giorni noi le bruciamo in 282. Più la città
è estesa, più questa impronta è forte. L’impronta ecologica è direttamente connessa al consumo di
suolo sottratto alla natura e al suo uso produttivo primario.
L’eccessivo consumo di suolo è al centro delle attenzioni anche nell’ Unione Europea che, con il
documento ”Orientamenti in materia di buone pratiche per limitare, mitigare e compensare
l’impermeabilizzazione del suolo” ha fissato il traguardo di “consumo zero” da raggiungere entro il
2050.
Dalla metà degli anni ’50 la superficie totale delle aree urbane nell’UE è aumentata del 78% a
fronte di una crescita demografica del 33%. Circa il 2,3% del territorio europeo è ricoperto di
cemento. Fra il ’90 e il 2000 la quota di suolo occupato era di circa 1000 kmq l’anno, con un
incremento del 6%. Dal 2000 al 2006 la quota di terreno occupato è sceso a 920 kmq annui, mentre le aree di insediamento sono aumentate di un ulteriore 3%, con un aumento complessivo tra il ’90 e il 20006 del 9% , a fronte di un incremento della popolazione del 5,5% nello stesso periodo. Circa il 75% della popolazione europea vive in arre urbane con un aumento previsto all’80% entro il 2020.
In uno studio dell’ISPRA sull’andamento del consumo di suolo in Italia dal 1956 al 2010, emerge
che il nostro paese è passato da un consumo di suolo pari a 8.000 kmq nel 1956, ai 20.500 kmq nel
2010, equivalente a 343 mq pro capite rispetto 170 mq nel 1956, pari ad un consumo medio di
territorio del 6,9% a fronte di una media del 2,8% nel 1956. Sono stati consumati più di 7 metri
quadrati al secondo per oltre 50 anni. Le media europea di consumo di suolo equivale al 2,3% . Le
regioni che si segnalano per essere le capofila di questo non invidiabile primato sono la Lombardia
(12%), il Veneto(10,5%) e il Lazio(9%). La distruzione di territorio colpisce in particolare la
pianura padana e le zone costiere, sottraendo terreno fertile all’agricoltura e alla biodiversità.
Nuove gerarchie urbane nella globalizzazione
La globalizzazione ha sicuramente favorito il rapporto tra il capitale e la trasformazione spaziale ed
urbana del mondo. Alle grandi città dell’epoca fordista, che attraevano popolazione e forza-lavoro
per alimentare i processi di industrializzazione, subentrano oggi città che diventano sempre più
luoghi dove estrarre plusvalore attraverso la loro valorizzazione immobiliare e la loro
rifunzionalizzazione alle esigenze di mobilità delle persone e delle merci, luoghi di estrazione di
forza-lavoro a basso costo, di consumi di massa, dove si concentra il potere finanziario e
direzionale dell’economia globale.
Si parla tanto di reti delle città globali. In realtà dobbiamo parlare di una nuova gerarchia urbana
globale che risponde alle diverse esigenze di una divisione internazionale del ruolo delle megacity
in base alle diverse funzioni loro assegnate nella riproduzione dei meccanismi di dominio e di
controllo economico, sociale, culturale del mondo: con al vertice le grandi città sedi della finanza
e del potere globale descritte da Saskia Sassen; a seguire le grandi metropoli terziarie occidentali
orientate ai consumi di massa e le grandi città industriali dell’Asia in crescita spaventosa; alla base
infine le grandi megalopoli del terzo e quarto mondo con le periferie più povere del mondo che
raccolgono gli scarti umani (Bauman) e le sacche di miseria e di degrado umano degli slum
raccontate da Mike Davis, vere discariche umane, provocate dalla privatizzazione della terra e
dell’acqua ( Vandana Shiva).
Queste città sono abitate da una umanità frastagliata e segmentata dove, accanto alle élite globali,
non interessate agli affari pubblici della loro città, vive l’umanità in eccesso, superflua, esclusa dal
progresso, chiusa in enclave identitarie anche a base etnica, che lottano per la vita ai margini o
fuori della legalità nelle anonime periferie periurbane, dove regnano lo sradicamento, la solitudine,
l’esclusione sociale e dove sembrano smarrite le speranze di emancipazione e integrazione sociale.
Gli squilibri sociali ed economici tra queste grandi aree urbane alimentano i flussi migratori che,
simili al principio dei vasi comunicanti, si dirigono dove maggiori sono le possibilità di
sopravvivenza e di riproduzione vitale. I capitali obbediscono agli stessi principi e si dirigono dove
maggiori sono le aspettative della loro valorizzazione, alimentando una gara competitiva tra città e
territori, in un logica spesso di tipo neocoloniale.
Le conseguenze di questo processo modificano la tradizionale peculiarità dell’economia urbana
delle metropoli del Nord del mondo, che tendono a perdere la loro caratteristica di specializzazione
produttiva tipica dell’epoca fordista.
Alle vecchie città “fortificate” e compatte, si sostituiscono, infatti, città sempre più “liquide” e al
vecchio policentrismo delle piccole e medie città, si sovrappone oggi un nuovo megacentrismo
territoriale caratterizzato da forti relazioni produttive, direzionali, commerciali, di consumi, con
forti pressioni sul territorio di domande sociali, abitative, di mobilità sempre più difficili da
soddisfare anche per effetto di un duplice movimento in atto: da una parte di concentrazione delle
attività attrattive e produttive e, dall’altra, di diffusione di nuovi insediamenti abitativi in luoghi
economicamente accessibili e lontani dai luoghi di lavoro.
Questo disastro urbano è la conseguenza della crisi della politica ma anche del fallimento di
architetti e urbanisti che non hanno saputo o potuto impedire la decomposizione del tessuto urbano, la cementificazione del territorio, la distruzione dell’ambiente. Anzi, una parte consistente della cultura urbanistica e della politica progressista ha nobilitato queste scelte sciagurate attraverso l’assunzione di nuove teorie e modelli di governance urbana improntate alla cultura neoliberista del pianificar facendo e dell’urbanistica contrattata.
Il risultato è l’esplosione dell’urbano che sta travolgendo e snaturando le nostre città, e con esse la nostra democrazia trasformandola progressivamente in oligarchia e forse in tirannia.
“La città non riesce più a produrre società. Le periferie in Europa e in gran parte del resto del
mondo simbolizzano questo brusco arresto della funzione civilizzatrice della città”(Ferrarotti,
Macioti 2009). È questa la nuova ‘questione urbana’ a cui è legato il futuro della democrazia.
Roma e la nuova periferia metropolitana e regionale
Cos’è un’area metropolitana? Cittalia (2010) ha proposto una definizione di cosa siano le aree
metropolitane e le aree urbane proponendo una classificazione basata su tre criteri in base ai quali è possibile distinguere: ‘aree urbane’ “caratterizzate da continuità edilizia e minima presenza al loro interno di suoli destinati ad uso agricolo”, ‘aree metropolitane’ “caratterizzate da integrazione di funzioni e intensità dei rapporti che si realizzano al loro interno” e ‘regioni metropolitane’
“identificate con le aree di influenza delle prime e delle seconde” . Su questa base sono individuate le città della metropolizzazione e le città della regionalizzazione. Nelle prime: “Si verificano processi di diffusione delle residenze fuori dalla città. Tale fenomeno non è tuttavia accompagnato in modo evidente dalla ri-localizzazione delle attività sul territorio. I residenti fuori comune continuano ad ‘usare’ la città per accedere ai posti di lavoro. La mobilità in ingresso nelle città è in aumento”. È, questo, il caso di Roma e del suo entroterra metropolitano.
Nell’ultimo decennio si sono accentuati i processi di diffusione urbana nei comuni della provincia
rispetto al comune capoluogo. Secondo il recente Rapporto CNA-CRESME tra il censimento 2001
e le risultanze anagrafiche del 2010, la popolazione della provincia di Roma è cresciuta del 13,3%,
attestandosi a 4.194.068 abitanti, mentre nel solo capoluogo la crescita demografica è risultata
dell'8,4%, giungendo a 2.761.477 abitanti. In poco più di nove anni, con riferimento all'intera
provincia, si è realizzato un aumento netto di quasi 500 mila residenti, mentre nel comune di Roma
la crescita è stata di quasi 215 mila unità. Il tasso di incremento demografico della provincia e del
capoluogo, quindi, è stato nettamente superiore alla media italiana (6,4%).La popolazione residente nei comuni di prima cintura è passata dai 578mila abitanti del 2001 ai 730mila del 2010, un incremento del 26% in nove anni e nei comuni di seconda cintura invece, la popolazione residente è passata da 243mila a 315mila abitanti, pari ad un incremento che giunge a sfiorare il 30%. Ma l'espansione urbana ha investito anche i comuni di terza cintura, dove la popolazione residente è passata da 232mila a 278mila abitanti, segnando un incremento di poco inferiore al 20%.
La dinamica urbana che interessa l’area metropolitana romana corrisponde a una fase espansiva di urbanizzazione e soprattutto di suburbanizzazione della cintura metropolitana, mentre nel centro
storico della capitale prevalgono da una parte processi di riduzione di residenza con la perdita di
abitanti in termini assoluti e dall’altro processi di riurbanizzazione attraverso la sostituzione di
popolazione autoctona con ceti medio-alti, anche stranieri, caratteristici della gentrification.
Secondo il CENSIS e il Rapporto della RuR 2009, sui 120 comuni che formano la cintura
metropolitana, 46 sono comuni a più alto tasso di sviluppo integrati nel sistema metropolitano,
collocati entro una fascia di 30 km dalla capitale, equivalente al 88% dell’intera popolazione della
provincia. L’area metropolitana romana si caratterizza, infatti, da una parte con il decrescere
dell’integrazione col crescere della distanza dalla Capitale, dall’altra con comuni che presentano
un’elevata quota di superficie territoriale investita da processi di consumo di suolo, con diffusione
insediativa a bassa densità di popolazione che caratterizza l’ urban sprawl. Tra il 1993 e il 2008 il
12% del territorio comunale è stato urbanizzato, pari a 4.880 ha di suolo agricolo e di aree naturali.
La popolazione è cresciuta di soli 30.000 abitanti. Le case vuote sono invece 250.000 e quelle
invendute, costruite negli ultimi sette anni ad un ritmo di 10.000 all’anno, ammontano a circa
50.000. Nello stesso periodo oltre 160.000 romani si sono trasferite nei comuni limitrofi in cerca di
case a costi più bassi.
La città metropolitana presenta così tutte le caratteristiche negative di una urbanizzazione non
governata oltre ad essere fattore di grande attrazione e centralizzazione della maggiore ricchezza
prodotta nel paese. “Nel periodo 1998-2008, il rapporto tra il PIL complessivo delle 11 città
metropolitane e il PIL nazionale ha mostrato una crescita del 6,8%. Nel caso di Roma e Genova
oltre l’80% del PIL provinciale è realizzato dal comune capoluogo, mentre il restante 20% circa
nell’area provinciale. Nelle città di Milano, Torino, Palermo e Bologna tale percentuale varia tra il
47% e il 50%. (Cittalia 2008).
Ma nelle grandi aree urbane sono anche più evidenti i fenomeni di polarizzazione sociale nella
distribuzione della ricchezza e i rischi di povertà con un conseguente aumento delle differenti forme di marginalità. Il Rapporto UPI Lazio 2011 fotografa queste diseguaglianze nella distribuzione del reddito: il 7,5% dei contribuenti percepisce tra i 33,5 mila e i 40 mila euro, il 6,1% tra i 40 e i 50 mila euro, il 5,3% 50-70 mila euro, il 3,3% 70-100 mila euro e il 2,8% oltre 100 mila euro. Tali dati evidenziano la presenza di una distribuzione poco omogenea, in cui il 25,6% della popolazione meno abbiente detiene appena il 7,7% dei redditi distribuiti, mentre il 25% della popolazione più ricca assorbe il 54,3% dei redditi complessivi.
Il Lazio si colloca, nella graduatoria nazionale, in quarta posizione con un reddito medio familiare
pari a 35.030 euro, dopo il Trentino Alto Adige (38.306 euro), la Lombardia (37.235 euro) e
l’Emilia Romagna (35.579 euro). All’interno della regione si rilevano significative differenze, con
un valore decisamente alto a Roma (38,5 mila euro) dove il reddito medio familiare risulta superiore a quello delle altre province di circa il 40%. Il Lazio risulta essere, infatti, una delle regioni italiane, dopo la Sicilia la Campania e la Calabria , dove si registra la più alta diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza tra i diversi ceti sociali, con l’indice GINI 2009 pari a 0,312, davanti a Lombardia e Piemonte che seguono con indice 0,301.
Un nuovo urbanesimo: Ecopolis versus Metropolis
La città laboratorio di una nuova democrazia
È indubbio che un nuovo urbanesimo non può che partire da una radicale critica del modello
urbano generato dallo sprawl e dal rifiuto del connubio sviluppo-crescita urbana dominato dagli
interessi e dalla logica del mercato e del profitto. Si tratta di un modello insostenibile sul piano
ecologico, ambientale, umano, democratico. È un cancro da combattere con potenti cure chirurgiche che riducano le escrescenze che hanno infestato, come una metastasi, il corpo martoriato dei territori del nostro pianeta. A partire dalle nostre città che abitiamo e che amiamo.
Nel nostro paese è sotto gli occhi di tutti ed è oggetto della cronaca quotidiana il disastro provocato alle bellezze delle nostre antiche città e dei nostri territori da un industrialismo selvaggio e da una urbanizzazione anti-ecologica che ne hanno compromesso l’identità e gli equilibri ecologici. Penso in particolare al drammatico destino di una città che mi è cara, Taranto, distrutta nelle sue millenarie bellezze culturali, naturali, paesaggistiche, marinare, da una sciagurata scelta di cattiva industrializzazione che ne ha deturpato il volto e intossicata l’aria - oltre all’anima e ai corpi dei suoi cittadini - in nome del mito dello sviluppo a cui purtroppo non è stata estranea una cultura ‘sviluppista’ della sinistra politica e sindacale. I paesaggi delle città avvelenate da insediamenti inquinanti e nocivi costellano il nostro territorio da nord a sud. Se questo nostro paese avrà un futuro, questo sarà legato alla nostra capacità e volontà di saper uscire da quella storia passata riconsegnando i suoi territori martoriati e le sue città alla loro antica bellezza, oggi sfigurate dalla crisi e dalla decadenza della città fordista e da una urbanizzazione selvaggia.
Va innanzitutto recuperata la dimensione simbolica delle città, che le renda riconoscibili nei suoi
spazi ed edifici pubblici, favorendo la riappropriazione da parte dei suoi abitanti di un senso di
appartenenza smarrita. Va ridata alla bellezza delle città, dei suoi quartieri, dei suoi edifici pubblici, la funzione centrale che storicamente hanno sempre avuto. Le moderne periferie, non solo delle grandi città, sono invece un inno alla bruttezza architettonica che spesso coincide con la bruttura alienante e inumana della sua vita sociale.
Per sfuggire a questo destino dobbiamo riprendere nelle nostre mani il destino delle nostre città.
All’origine della crisi della polis c’è la crisi e il fallimento della politica. E il rimedio, dice
Latouche, deve essere “politico”prima ancora che “ urbanistico e architettonico”, per cui ”il
progetto della decrescita passa necessariamente attraverso una rifondazione del politico e quindi
anche della polis, della città e del suo rapporto con la natura”. Concordo con questa affermazione.
Dobbiamo abbandonare il modello della città metropolizzata (Metropolis) e passare alla
progettazione e ri-costruzione della città ecologica ( Ecopolis), e immaginare le città non più come
indifferenziati agglomerati urbani, ma come una comunità di liberi cittadini che si autogovernano,
riconciliando la politica con le virtù e le responsabilità civiche.
La globalizzazione e la de-territorializzazione dell’economia hanno determinato una riduzione del
potere delle comunità locali nell’orientare le scelte dello sviluppo locale e il governo e la politica
locale non governano più le città in nome dei cittadini e per il bene comune.
Il gigantismo urbano da cui siamo afflitti è effetto e conseguenza della riduzione delle città a
merce e della loro privatizzazione a favore dei poteri forti della speculazione finanziaria e
immobiliare, della rendita urbana: i comuni si finanziano con l’espansione urbana e il consumo di
territorio, svendendo e privatizzando i propri beni comuni. La politica che oggi detiene il
monopolio della rappresentanza, è ormai prevalentemente ridotta ad ancella al servizio di questi
poteri.
Le conseguenze del gigantismo urbano sono da un parte la sua insostenibilità ecologica che
produce effetti devastanti nella qualità della vita urbana e sul territorio circostante, penso alla
mobilità, alle discariche e agli inceneritori dei rifiuti, all’inquinamento dell’aria, della terra,
dell’acqua, alla desertificazione della campagna; dall’altra la centralizzazione del sistema
decisionale in nome della necessità di governare le emergenze ambientali, le grandi opere
infrastrutturali e i ‘grandi eventi ‘ ( sportivi, religiosi, culturali), attraverso il conferimento di
poteri eccezionali che aggirano le regole e le norme di legge, con effetti quasi sempre disastrosi,
come l’esperienza di Roma insegna.
Le forme di governo basate sulle istituzioni regionali e provinciali hanno fallito nella loro funzione
di assicurare il governo del territorio e nell’impedirne la sua devastazione.
La legge 42/2009 sul federalismo fiscale, istitutiva delle 11 città metropolitane, ci consegna un
modello ibrido di complicata gestione, legata alla adesione volontaria dei singoli comuni e non
ancora definita sulle funzioni e i poteri fondamentali, gli organi e il sistema elettorale. Si presenta come un modello di governance senza un’anima e senza uno spirito fondativo e costituente, non in grado di promuovere una vera democrazia locale e un governo sostenibile del territorio.
Le grandi città non possono essere più governate democraticamente in maniera centralistica, e la
soluzione della città metropolitana così come prefigurata non sarebbe il rimedio adeguato.
Che fare? Un’alternativa possibile alla crisi urbana può trovare le sue radici nel rilancio di un
nuovo municipalismo e in un nuovo policentrismo territoriale e metropolitano ecologicamente
auto-sostenibile, basato sulle bioregioni e sulla cooperazione municipale. In sostanza, mettere in
campo il progetto di una “società ecologica” (Murray Bookchin).
Il primo passo è stabilire un nuovo rapporto tra urbano e rurale, tra città e campagna, mettendo fine all’espansione urbana e al consumo dissennato di suolo. I temi di un tale approccio possono essere così sintetizzabili:
a) incoraggiare forme innovative di cooperazione orizzontale tra comuni virtuosi per
riconnettere e riunificare ambiti territoriali di area vasta partendo dalle specifiche peculiarità
storiche, culturali, ambientali, morfologiche e geologiche del territorio, per promuovere
sviluppo locale autosostenibile;
b) individuare in questo modo le nuove bioregioni, anche oltre gli attuali confini
amministrativi, da governarsi attraverso la cooperazione e/o patti federativi tra comunità
locali;
c) battersi affinché le bioregioni così individuate acquisiscano nel tempo sempre maggiori
autonomie, fino alla possibilità di arrivare alla sovranità vera e propria, rimettendo in
discussione l’attuale assetto delle regioni e delle province;
d) instaurare una nuova democrazia urbana a partire dalle grandi città metropolitane, che
assumerebbero la configurazione di città-regioni policentriche, con una forte
decentralizzazione degli ambiti decisionali e di governo a scala di comune e di quartiere.
Territorio, ambiente e paesaggio devono tornare ad essere considerati come beni comuni non
alienabili, da assoggettare ad un governo collettivo da parte delle comunità locali.
Nel campo della pianificazione territoriale, gli ‘spazi aperti’ devono diventare ‘centrali’ al fine di
contenere e riqualificare i modelli insediativi diffusi che sotto la forma della metropolizzazione
hanno invaso il territorio periurbano, riconnettendo lo spazio urbano con quello rurale,
riqualificando le periferie degradate, trasformando le aree e regioni metropolitane in “bioregioni
urbane” ( Magnaghi, Fanfani 2010) e ridurre la loro impronta ecologica.
Dobbiamo uscire dalla logica del modello metropolitano centroperiferico, per abbracciare in pieno
la logica e il modello policentrico e multipolare della bio-regione come eco-sistema urbano e rurale
dotato di una forte capacità di auto sostenibilità. Il bioregionalismo si basa su un nuovo patto tra
città e campagna e su un policentrismo municipale fatto di città autogovernate, di federazioni di
comuni e di municipi urbani e rurali.
“Decentrare le grandi città in comunità a misura d’uomo è condizione indispensabile per una società ecologica” (Murray Bookchin). “Una nuova politica dovrebbe implicare la creazione di una sfera pubblica ’di base’ estremamente partecipativa, a livello di città, di paese, di villaggio, di quartiere” (Murray Bookchin ).
Questa nuova democrazia deve basarsi sulla rivitalizzazione e riscoperta del valore della comunità
e sulla capacità di autogoverno dei cittadini e dei lavoratori a partire dal proprio quartiere e dalla
gestione dei beni in comune: dalla vivibilità urbana agli spazi pubblici e agli spazi culturali, dalla mobilità al recupero dei rifiuti urbani, fino alla partecipazione al governo dei beni e servizi pubblici
primari. Penso ad una vera e propria riforma della rappresentanza politica e del sistema decisionalea favore di un co-governo tra istituti della democrazia rappresentativa e nuove forme di democrazia diretta e partecipata.
Dobbiamo inoltre immaginare un modello urbano diverso da quello che abbiamo ereditato dalla
società industriale, insediato in prevalenza nelle pianure e nelle zone costiere fortemente
antropizzate, e ridare invece centralità alle zone interne e appenniniche (Castronovi 2012), ora
marginali, e ai piccoli comuni oggi semi-spopolati. Qui permangano risorse preziose di
biodiversità, di terre incontaminate, di salubrità ambientale, di sedimenti culturali, che possono
essere valorizzati in funzione di un modello alternativo di sviluppo, convivenza, di tutela e di
valorizzazione delle risorse naturali, agricole e culturali del territorio.
Un nuovo urbanesimo passa attraverso le parole d’ordine della decentralizzazione urbana e della
sua democrazia e di uno sviluppo locale auto-sostenibile che leghi i destini delle popolazioni a
quello delle loro città e dei propri territori, sottraendo il loro controllo e il loro futuro alle logiche e
al dominio della rendita e alle filiere lunghe della globalizzazione. Ma passa anche attraverso la
costruzione e formazione di un carattere e di una integrità etica dei suoi cittadini (la paideia
nell’antica democrazia ateniese), di una educazione a coltivare l’ethos pubblico come bene
comune, con istituzioni e leggi che le promuovano e sorreggano. L’antidoto al rischio incombente
di consegnare il nostro futuro ad oligarchie ed élite locali e globali predatorie, estranee ad ogni
considerazione e legame di tipo comunitario, può essere rappresentato solo dall’emergere di un
nuovo protagonismo e impegno civico, da cui può rinascere la polis come nuova democrazia
saldamente ancorata in città a misura d’uomo, non più in conflitto con la natura.
*Responsabile progetto politiche urbane Cgil di Roma e del Lazio
Saggio pubblicato sulla rivista “La critica sociologica” - Estate 2013
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