Le condizioni storiche che si stanno affermando sono una diretta
per qualcuno della generazione, all’ultimo terzo della vita, che si
sta avviando a lasciare la mondanità. Per gli altri, più giovani e
recenti, che occupano i primi due terzi, saranno semplicemente la
normalità. Nessuno dei vecchi dispone dei mezzi e del potere di
comunicazione per annunciare ai giovani che, sopra le loro teste, il
cielo che guardano ogni giorno, é di cartone, come quello di Truman
Burbank. L’incantesimo è compiuto. E i burocrati dei media, più
che servi consapevoli, con in pugno lo scettro abbacinante del tengo
famiglia, ne sono ugualmente rapiti. Al punto che senza difficoltà
alcuna hanno preso fin da subito a sventolare i vessilli dell’abisso,
quel regno dove la cancellazione delle culture, l’ecologia di
superficie, i figli a piacere, le madri in affitto, l’impatto zero,
il politicamente corretto scorrazzano come orde mongole nello spirito
delle persone, radendo al suolo la storia, l’identità,
l’analogicità della realtà, il pensiero unico, il totalitarismo
democratico, il progressismo, la cultura che è in loro. Come il
potere che ha a suo tempo perpetrato la colonizzazione secondo un
autoreferenziale diritto di vita, di morte, di sopruso, abuso e
predazione, così, con aggiornate modalità, fa ancora. La cultura
woke, che vorrebbe dire risvegliato, è il loro scopo e la loro
bandiera.
È come se le cose stessero così. Come tartarughe marine nuotiamo
imperterrite verso l’arenile sul quale eravamo nate. I genitori –
latori di vita – ci avevano dato il necessario per guidare noi
stessi negli oceani, e per fare ritorno dove generare altra prole e
lasciare che il ciclo potesse chiudersi e contemporaneamente
riaprirsi nuovamente.
Analogamente alle tartarughe anche noi abbiamo avuto valori guida,
logiche di comportamento, costumi, usanze e tradizioni, ovvero
territori nei quali non sentirsi mai dispersi nel vasto mare del
mondo, popolato da sirene ammaliatrici. Anche noi come le tartarughe,
qualunque fosse il nostro censo, avevamo la conoscenza utile per
perpetuare quanto nell’insieme costituiva la comunità. La
dimensione analogica, acqua del nostro oceano, era una rete di
continuità, a mezzo della quale, di qualunque fatto si trattasse, il
nostro interlocutore aveva una fisionomia, un’identità, con la
quale ci relazionavamo, restando e perpetrando in quel momento, la
dimensione umana della concezione del mondo, dell’altro, di noi
stessi. Ma anche del futuro e dei progetti di cui riempirlo.
Al pari delle tartarughe, dei delfini, delle balene e delle orche che
incomprensibilmente perdono la via corretta e si spiaggiano
uccidendo se stesse e interrompendo il ciclo della vita, anche noi ci
troviamo ora senza riferimenti. Un ovattato ma opulente terremoto,
edulcorato da specchietti e lustrini – gli stessi del colonialismo
– in forma di Festival, di Champions, di votazioni per la libertà
e di destra contro sinistra, di intelligenza fittizia detta
artificiale – propagandata come sostanziale – di digitalizzazione
del quotidiano, ci ha sfasciato il plinto di stabilità su cui
poggiavamo l’esistenza. Così imbambolati, non c’è stata
difficoltà – c’erano le code e ce ne saranno ancora – ad
iniettare nel braccio e nello spirito il virus del virtuale,
assassino dell’empirico.
È una lunga storia d’umana miseria, ma ora immersi nella
virtualità del digitale, le vie che noi e nostri padri sempre
avevamo seguito non portano più ad approdi in cui riconoscerci.
Siamo stati sbarcati su terre in cui non riconosciamo nulla, e ciò
di cui veniamo a conoscenza fa paura e sgomento, come è giusto
quando togli carne ed eros e metti ologrammi e pixel.
Come i delfini, le api e gli uccelli migratori perturbati dalla
matassa atmosferica di campi magnetici e altre opere e conseguenze
della cultura antropocentrica – quelle del cosiddetto progresso –
ci domandiamo dove stiamo andando. Ci siamo fidati del capitano e del
nostromo e abbiamo sbagliato. Ci hanno chiesto e ci chiedono di
remare ancora, e noi l’abbiamo fatto. Ma loro, smentendo le loro
stesse parole e promesse, mentivano. Non era vero che stessimo
facendo rotta verso il nostro bene, puntavano al denaro e al
controllo. E noi, se serviva con qualche altro lustrino in regalo,
remavamo.
A parte uno spicchio di generazione dell’ultimo terzo,
percentualmente parlando, quasi nessuno si preoccupa di come stia
andando la diretta della storia che si sta svolgendo. Quasi
nessuno sa di essere protagonista, ci si crede sempre spettatori. E,
in fondo come biasimarli? Che potere avrebbero di modificare o
invertire la tendenza? Tutti sanno che nessuno di noi vuole
armare Kiev, ma politici e governo – Mattarella non voglio neppure
nominarlo – non se ne curano. Guardano ad altro. Il loro interesse
non siamo noi.
Gli ammiragli della flotta su cui siamo imbarcati sanno che la nostra
vecchia forza può andare perduta. Se smettiamo di remare,
sanno che qualche negro (non c’è offesa in una parola, ma nella
sua interpretazione), qualche poveraccio e qualche disgraziato ci
sostituirà di corsa, ben felice del tozzo di pane – chiamato
reddito di cittadinanza, precariato o inclusione – che riceveranno
in cambio.
Gli alti ufficiali sanno che dedicarsi ai piccoli e ai giovani,
risparmierà loro energie, al fine di convogliare la transumanza
postumanistica entro la mandria digitalizzata. Come una carta doppia,
noi all’ultimo terzo, siamo stati gettati dal mazzo. Anche
l’evocazione della democrazia e la sua invocazione che alcuni di
noi sentono e a cui si richiamano ancora è, ora più che mai una
pavloviana reazione, colpo di coda dell’incredulità della diretta
cui stiamo assistendo, dell’incubo che ne deriva, del terrore che
non sia solo un’allucinazione. Democrazia, già. Null’altro che
un vuoto involucro riempito dalle voci dei benpensanti, notoriamente
guizzi di basso livello con i quali credono di fornire risolutiva
considerazione: “Allora vai da Putin, a scrivere quello che qui
puoi scrivere”. Truppe felici di fare la coda per andare a sciare.
Il resto non lo vedono e finché ci sarà neve, anche finta,
continueranno a citare Putin e la sua marcia verso Lisbona. La
bandiera della democrazia, pende dai balconi delle istituzioni. Ogni
giorno viene issata, perché ogni giorno, sul ponte di comando sanno
che c’è sempre qualcuno da imbambolare.
Ai tempi della democrazia, quella con ancora po’ di polpa, sapevamo
che il nostro potere era il segno sulla scheda. Lo si può affermare,
facendo la tara a quel contesto culturale in cui la percentuale di
politici dediti alle promesse fatte, non era meno che risibile come
ora. Ma adesso è chiaro. Il pilastro democratico, alla faccia degli
imbonitori progressisti – dai quali la destra fa parte alla pari
nei confronti dei falsi dirimpettai – è venuto meno. Purtroppo c’è
ancora chi, non avendo neppure fatto la prima elementare della scuola
sociale, non sa fare due più due, e quindi non vede che un voto dato
in mano ai potentati economici e alle regole dei mercati e della
finanza, non solo non vale nulla, ma è anche – per chi crede che
nascondersi nell’urna sia un diritto assolutamente da esercitare –
una cartina di tornasole: più gente consegna il documento e afferra
la scheda, più loro avranno la misura dell’efficacia della loro
propaganda.
Come le megattere non sappiamo più dov’è il nord. O meglio, il
nord è divenuto opinabile, virtuale o è stato sostituito. La
chirurgia e il silicone possono ciò che noi neppure immaginiamo.
Il senso della terra e così quello dell’uomo è stato eroso fino
allo scheletro. La carcassa del nostro mondo analogico è però stata
virtualmente rivitalizzata da quello digitale. Noi moriremo in pochi
anni e chi resterà non avrà più di che prendere coscienza che il
mondo virtuale in cui starà vivendo non c’è sempre stato. E che
la vita a punti non è la normalità. Ma chi glielo dirà che gli
archetipi sono stati buttati a mare perché zavorra inutile al
progresso? Che l’albero delle uova non l’ha fatto la
natura?
Lorenzo Merlo