Cosa non è il karma. Cosa dice il
colonnello Kurtz.
La visione persistente di se stessi, titolari,
indiscussi per inconsapevolezza di sé, di un certo ruolo, è una
forza che tende, effettivamente, alla realizzazione di se stessi
sempre immaginata e – motivazione permettendo – a mantenerla una
volta raggiunta. Così, per qualunque campione umano, si potrà
trovare una continuità di allenamento di tutti gli elementi
necessari allo scopo.
Tutto ciò, tanto nel meglio quanto nel peggio.
Un’idea sottomessa di sé sarà una forza che ci tiene giù, che
non spinge in alto. Solo un eventuale aggiornamento solare delle
proprie visioni di sé, potrà generare le forze per ritrovarsi in
contesti non più arrendevoli.
Nel bene e nel male, motivazione permettendo,
l’allenamento mantiene e migliora lo standard del fare. È una
verità spirituale, che possiamo riscontrare anche attraverso
l’osservazione del comportamento del corpo di un essere vivente, in
particolare dei mammiferi, con facilità nell’uomo. Solo a mezzo di
orientamento spirituale permanente, quanto si pensa – anche
inconsapevolmente – di sé, ciò che si vorrebbe o si crede di
essere, corre il massimo rischio di realizzarsi.
Il contatto con un agente esterno, che diviene
nocivo in funzione del terreno su cui si posa, è per il corpo
un’informazione tanto sottile quanto materiale, che mette in essere
una reazione delle sue strutture biologiche e metafisiche. Queste,
concepite come due separate entità solo secondo la modalità
analitica della scienza, potranno o meno rendere innocuo l’ospite,
in funzione del grado di consapevolezza e di intossicazione in noi
disponibile. Tanto più potremo risalire alle cause che ne hanno
permesso l’attacco, tanto più potremo disporre della migliore
difesa. Non solo. Tanto più potremo riconoscere la nostra
responsabilità, tanto più, ulteriormente, alzeremo il potere
difensivo che è in noi.
In questo contesto, tra questi argomenti e
queste prospettive che coinvolgono il soggetto in merito alle
responsabilità della malattia, malessere e inconveniente, che non
considerano una vittima casuale inerte e pure sfortunata, fanno testo
le emozioni violente che possono averci travolti soffocando l’io di
cui disponevamo, lasciandoci al centro di una terra bruciata dove
nessun soccorso organizzato può venire in aiuto e dove le difese si
riducono fino ad azzerarsi.
Dicevamo, un’informazione tanto sottile
quanto materiale... Sottile, in quanto energetico, vibrazionale,
emozionale. Materiale, in quanto il corpo somatizza il significato di
quelle vibrazioni. Quindi anche simbolico, per chi lo sa intellegere,
in quanto dall’aspetto materiale e dalla sua localizzazione nella
persona, si possono cogliere la natura della persona stessa, i suoi
punti oscuri, le consapevolezze di cui non dispone e quindi il
relativo gradiente di difesa, che, a questo punto, è opportuno
chiamare relazione con sé e il mondo, intesi come un’unità.
È il potere della cosiddetta epigenetica, a
mio parere meglio configurabile con la persistenza cronica di
un’emozione che lentamente genera la sua dimensione materiale, che
va a raccogliersi e depositarsi nell’archivio generale detto Dna.
Così gli uccelli e le prede si alzano in volo e fuggono allo
scoppio, gli uomini usano la forza, senza la quale si sentono
impotenti, le donne l’astuzia e hanno una resilienza superiore.
Il contatto con l’agente avvenuto con
l’assunzione di un vaccino non è assimilabile alla processione di
esperienze utili al mantenimento della specie, anzi. Il valore
epigenetico relativo all’assunzione di vaccinazioni rema contro la
crescita e il mantenimento del sistema immunitario.
Il potere delle vaccinazioni è, invece, della
medesima natura dell’informare, dell’insegnare, del formare o
condizionare qualcuno in funzione delle proprie esperienze e
convinzioni. Una dinamica nella quale il soggetto destinatario –
anche se stimolato al pensiero critico, necessariamente entro
l’ordinamento che gli si sta impartendo – è passivo. La sua
opera – fisica e metafisica – creativa è assente. Il suo potere
naturale – nella natura c’è tutto il necessario a se stessa,
quindi all’uomo – viene castrato. La natura viene indebolita. La
vanità umana, travestita da opera di bene, viene alimentata. Il
sistema di sopravvivenza della specie viene disorientato, al pari di
quello di orientamento dei pesci, dei cetacei e delle tartarughe in
stretta relazione con la rete di energia tellurica, che viene
imbrattata dagli inquinamenti elettronici di origine antropica.
Le reazioni del sistema immunitario, relative
alla modalità provocata e a quella spontanea, potrebbero avere una
corrispondenza spirituale con il potere intellettuale-razionale
per la prima e estetico-emozionale
per la seconda. L’esperienza non è trasmissibile, indurla a suon
di inoculazioni, di qualunque genere si voglia, in contesto
socio-politico fa il pari con l’esportazione della democrazia, con
l’imposizione-coercitiva in quello pedagogico.
Nella nostra cultura la modalità intellettuale
è ordinaria e considerata superiore a quella del sentire, estetica,
del corpo. In essa il capire ci appare come il maggior acuto umano
possibile. Ne consegue un procedere che pone al centro la dialettica
dei concetti. È un criterio uniformatore e meccanico che lascia
l’uomo e i suoi universi ai margini. La maggioranza lo rispetta
pedestremente e giudica il prossimo in funzione della dimostrazione
di replica che questo è in grado di fornire.
Tuttavia, se il concetto in questione è
ricreato, ovvero esperito come culmine di un percorso individuale,
implica la disponibilità a poterlo impiegare nelle innumerevoli e
improvvise occasioni secondo la condizione creativa del momento, che
sarà tanto più libera tanto meno i condizionamenti delle
consuetudini l’avranno costretta.
Ne deriva che, senza esperienza diretta della
ricreazione, resteremo prede della rete offertaci dall’ambiente
culturale e circostanziale in cui viviamo.
Quando il corpo fa conoscenza di un surrogato
del virus, sul lungo periodo pregiudica la resistenza della vita
stessa. A questo argomento, individualisti, materialisti e scientisti
reagiscono celebrando il valore egoico della vita individuale.
Azzannati dai concetti che hanno imparato e replicano senza sosta in
un teatro dell’esistenza sempre tutto esaurito – come se la
rappresentazione fosse altro da noi – non hanno modo di cogliere
come la loro scienza stia indebolendo la specie a favore di un suo
campione. Del suo vergognoso criterio
separatorio-analitico-scompositivo, ma guai a criticarlo, supportato
da un moralismo ad essa colluso, ne sono riflesso la chirurgia dei
trapianti e quella estetica.
Moralismo che non elegge la vita ma la vanità
umana, che annacqua la rete di relazioni che fanno della natura un
organismo. Quest’ultima, così indebolita, non potrà che ridurre
la sua forza e la sua conoscenza, necessarie alla sua stessa
sussistenza.
Si può raggirare impunemente la natura? Lo pensi davvero? Come fa a
mantenere costanti le percentuali di maschi e femmine senza neanche
un sussidiario della scienza che le dica come?
Se, ordinariamente, come fanno tutti gli
organismi, da una sua espressione/esperienza endogena eccezionale,
che sia animale, minerale o vegetale, essa trae informazioni utili,
quando queste divengono anomalie esogene la sua bussola viene
disturbata, alzando così il rischio di collassi e cortocircuiti
imprevedibili, altrimenti tendenzialmente improbabili.
È quanto avviene a una persona coinvolta in
circostanze fuori dal suo ordine abituale, per la quale il rischio di
instabilità e malattia tende a elevarsi.
Così, nella convinzione che il principio di
causa ed effetto corrisponda a una legge universale e non
semplicemente a un mondo e a una realtà esaurita e schiacciata nella
dimensione logica-meccanica-materiale – buona per replicare e
amministrare il finito, ma invalida per creare e liberare l’infinito
– il karma viene egoicamente concepito come un filo rosso che
collega le nostre misere vicende. Tutte regolarmente travisate,
storpiate, violentate dalla nostra interessata – sebbene
inconsapevole – interpretazione. Tutte erano state giuste o
ingiuste, tutte sono passate al pedante e ottuso vaglio del senno di
poi al fine di restituirci il senso coerente a noi stessi, di
mantenere e rinforzare la struttura dell’io, ciò che crediamo di
essere. Una dinamica karmica siffatta è molto simile al Pater
noster imposto dal confessore per la
remissione dei peccati. Tuttavia, non è meccanica la questione del
karma.

Ed è proprio meccanicisticamente pensando che
la semantica sottile, e il relativo suo potere evolutivo, viene
obnubilata, come qualunque altra azione umana impigliata e imbrattata
da interesse personale, e perciò slegata dalla natura, dal cosmo.
Un karma in forma di causa effetto
corrisponde alla vulgata del concetto. Restare legati a questa
prospettiva è seguitare a correre nel vicolo cieco della conoscenza.
Concepirla invece come flusso energetico, che, come un rio, sfocia
nel mare del tutto, ci offre il movente per riconoscere la nostra
responsabilità su come va il mondo, e quello per agire secondo
amore, non più per bieco suprematismo individualista.
Consumando un’esistenza vincolati al giogo
dell’importanza personale, tronfi o succubi della propria – ma
quale propria? – personalità, il corrispondente spirito egoico che
incarniamo, dopo la morte fisica del corpo, tornerà ad animare altre
esistenze finché una di queste realizzerà – incarnerà – le
consapevolezze utili alla liberazione dal samsara o ciclo delle
rinascite, ovvero della sofferenza. Allora quello spirito non avrà
più bisogno di un corpo in cui stare.
È una bufala? Può darsi. La questione è
un’altra: non cambia nulla se tale descrizione dell’emancipazione
dalle strutture dell’ego è solo una descrizione fantastica. Il suo
valore sta nell’essere simbolicamente un espediente motivatore per
il bene. Fa ridere? Sì, molti, moltissimi ridono, forse perché,
obnubilati da quel giogo, non hanno visto nelle loro personali
relazioni come il male si perpetua o, viceversa, come si risolve nel
bene proprio nel momento in cui l’esaltazione egoica viene messa a
tacere e il perdono, o il semplice lasciare perdere, entra in campo,
e la sofferenza, di qualunque gradiente sia, non ha più terreno in
cui riprodursi.
Dunque, la cosiddetta legge del karma mostra il
modo in cui la sua dinamica aleggia su noi solo quando sentiamo il
potere dell’amore incondizionato – quello che, per chi ancora
ride, è sperimentato da tutti, in particolare dai genitori verso i
figli – dell’appartenenza al cosmo, della condivisione del
prossimo, del giogo delle consuetudini, delle abitudini e della
realtà certa, quella da noi descritta.
Essere vincolati all’ego è di pari
vischiosità all’essere legati a un’ideologia, a un’ossessione,
a una passione. Finché si guarda il mondo beandosi delle differenze
tra sé e ciò che osserva, non c’è scampo. Le forme sono
infinite, se ne troveranno sempre, come le strade di un labirinto
geniale. È, invece, riconoscendo le identiche dinamiche imposte
dall’io, che si può trovare la via di uscita dalla sofferenza, o
riconoscere come questa si genera.
Un karma energetico, come sostiene il buddhismo, comporta la
liberazione dal ciclo del samsara, quello che i cristiani chiamano
inferno.
Ce lo hanno fatto presente in tanti, dai Veda,
al Buddha, al Cristo e anche successivamente, e pure i nostri
contemporanei, tra cui l’orrore
del colonnello Kurtz. (1)
Per chi non ha orecchie per intendere,
quell’orrore appare solo quando il sipario della vanità e
dell’arroganza si alza, mostrando le ombre platoniche che avevamo
creduto realtà, per le quali, senza interrompere la nostra superbia,
avevamo interrotto lo scorrere della nostra bella morale e ci eravamo
permessi di tutto.
Lorenzo Merlo
Note
https://www.facebook.com/lafinestrasulcinema/videos/i-monologhi-del-cinema/1401308153397967/