lunedì 9 giugno 2025

Treia. Storia di vita bioregionale (che non piace al sistema)...

«Potrete ingannare tutti per un po’, qualcuno per sempre, ma non potrete ingannare tutti per sempre» (Abraham Lincoln)


Una sera passeggiando per Treia con Caterina ci siamo fermati per un po’ davanti alla fontana in Piazza della Repubblica. L’acqua zampillava giuliva, nessun altro sedeva sulla balaustra e così ci siamo soffermati a parlare tranquillamente del più e del meno. 

Attorno a noi svolazzavano dei piccioni ed abbiamo pensato che sarebbe stato bello se nella vasca ci fossero stati dei pesci per rallegrare un po’ l’ambiente, poi ci siamo ricordati che molto spesso il flusso dell’acqua viene interrotto e quindi sarebbe difficile conservarli in vita. 

Visto che si parlava di animali lo sguardo ci è andato sulla cagnetta Magò che era lì ai nostri piedi. Così ho chiesto a Caterina se era stata microchippata al che lei ha confermato che avendola presa dal canile era normale che le venisse inserito il microchip. A quel punto il suo telefonino fece il classico bip bip di qualche messaggio in arrivo, così per collegamento d’idee mi è venuto in mente come la nostra società sia sotto ispezione continua. 

Ogni tanto nel palazzo del re si ritorna a parlare della spinta verso l’istallazione di microchip anche sugli umani “per ragioni di salute”, dicono i governanti. Il dubbio permane che sia invece per meglio controllare la popolazione, anche se -in verità- la popolazione è già controllata per mezzo dei telefonini. Ogni possessore di cellulare è sempre reperibile attraverso i satelliti, anzi non si capisce con tutta questa sorveglianza come sia possibile che qualcuno possa sfuggire. 

Come fanno i terroristi a nascondersi? Forse al sistema conviene così….  

Paolo D’Arpini





domenica 8 giugno 2025

La "normalità" come condanna...

 


Dal sangue alla bellezza.

Così come siamo condannati a vedere il mondo dalla postura eretta, ad afferrare con le dita, lo siamo anche a essere con ed entro il pensiero, i sentimenti, le emozioni e concezioni.

Così come la postura eretta e le dita non ci lasciano alternative se non in un risibile esercizio virtuoso, ugualmente vale per il pensiero, senza esso e i suoi autobiografici contenuti non siamo noi.

È pur vero, anche, che un nano o un uomo basso, uno particolarmente alto, o un altro senza dita, vivrà e descriverà il mondo in modo differente dai più comuni individui di media statura e forniti di estremità compiute. Ciò non sottrae valore al principio della condanna, semmai lo esalta.

La condanna è una sorta di canale, di alveo, il cui contenuto, e ciò che vi galleggia o viene trascinato, è destinato a rispettare e/o a subire le circostanze che l’andamento del canale stesso gli impone.

È facile riconoscere in noi stessi il funambolo in equilibrio sul filo rosso che marca la nostra vita. Perderlo, cadere, è morire. Affinché ciò non accada, siamo disposti a infrangere le norme e a tradire noi stessi. La sola alternativa è accettare, assorbire gli urti che altrimenti ci butterebbero giù.

Quanto detto voleva tratteggiare la figura della condanna che, come una veste, sempre ci contiene e, come un copione, sempre ci impone un ruolo.

Si tratta di un’osservazione di grana grossa, disponibile a chiunque si trovi motivato a vedere cosa cela la nebbia delle apparenze.

Nell’oscurità della mondanità sono depositati e occultati tutti i segreti della vita. Quando il buio si infittisce, le prospettive rivelatrici, più sottili o effimere in quanto fuggevoli, ancora più facilmente restano lontane dalle vibrisse della consapevolezza.

Accade, allora, che la loro potenziale e implicita illuminazione esistenziale resti immobile come il chicco di acacia in attesa della pioggia sahariana.

Uno dei semi più insoliti a radicarsi in noi corrisponde a fiori per lo più mai visti, la cui fragranza non è purtroppo nota alla maggioranza, la cui bellezza ci ferma il respiro e i pensieri, la cui forza muta il corso degli alvei, spegne l’araldo egoico dell’interesse personale e degli sterili saperi di superficie, accende di conoscenza il filo rosso della biografia, e ci sospinge al grande mare della conoscenza.

È il seme che ci dischiude la condanna della dimensione logico-razionale del linguaggio, con cui crediamo di poter indagare, trovare e descrivere la verità della realtà, del prossimo, del mondo, di tutto. Di noi stessi e per di più credendoci, un po’ come riconoscere le facce nelle nuvole, senza la consapevolezza che si tratta di un momento soltanto.

Osservare come la scatola logico-razionale – in cui abbiamo dogmaticamente rinchiuso l’infinito che non sappiamo di essere – ci imponga e determini in noi una concezione esistenziale in essa esaurita, diviene necessario per riconoscere in che termini il criterio di conoscenza logico-razionale, più che essere supremo, come il pensiero scientista sostiene e vanta, sia risibile, solo uno dei più, e tra questi il più superficiale e banale. Esso è, infatti, assai efficiente entro il piatto mondo euclideo e cartesiano dove tutto è misurabile e dove solo il misurabile ha dignità di verità, realtà, esistenza e conoscenza. Tuttavia, perde il suo potere nel momento in cui cadiamo nella consapevolezza che la dimensione meccanicista non si presta a descrivere il mondo e l’uomo, ma solo alcune circostanze di essi, svelandoci così le forze che agiscono e di cui siamo costituiti, che non possono stare sui vetrini dei laboratori, che non si rivelano con il tornasole.

Emancipati dalle prepotenze dei saperi cognitivi, dall’indagine analitica della realtà, ci si trova, allora, sulla soglia della conoscenza evolutiva, la sola utile alla creazione di una storia che possa sostituire il sangue con la bellezza.

Lorenzo Merlo



sabato 7 giugno 2025

Dal Treja verso Treia. Rigurgito fantascientifico...

 

*
Nei mesi tra la  primavera e l'inizio dell'estate prima di lasciare definitivamente Calcata ed il fiume Treja, per trasferirmi a Treia, ci fu tutta una serie di incontri di commiato tenuti in varie parti della Tuscia. A Viterbo, ad esempio, si tenne l’inaugurazione della prima biennale d’arte creativa, con contemporaneo mio ultimo saluto. A Faleria ci fu la recita in piazza di Agenzia Fregoli.. ed ovviamente a Calcata stessa dove per il solstizio estivo ci furono tutta una serie di eventi con addii strappalacrime nel Centro Visite del Parco del Treja (a dire il vero erano tutti felici e contenti e nessuno mai mi chiese di restare anche perché pensavano che fosse tutta una sceneggiata). Allo stesso tempo, sul web, come ultimo ricordo di una mia presenza “aliena” fu pubblicata una edizione speciale di “Calcata on line News”, proprio dedicata alla dipartita degli alieni… Divertitevi a leggerla





Avevamo sperato in una vita breve, con fine incruenta, delle trasmissioni virtuali di Calcataonline News… ma come in “Hollywood Party” i folletti “Vitali” dei redattori si sollevano e declamano ad libitum… Colpiti a morte, tacitati in tutti i modi, tappate le bocche, incartate le dita, spenti i computers..  ma i “Vitali” continuano a produrre deliranti News… Stavolta è la volta degli alieni… e potevano mancare gli alieni a Calcata?

Macché… sono persino nominati nell’Home Page del sito del Circolo Vegetariano VV.TT. (vedi: http://www.circolovegetarianocalcata.it/)

Quindi ancora una volta a reti unificate ecco a voi l’edizione “fantascientifica” di Calcataonline News,  le notizie di cronaca  spiccia sono in calce al presente notiziario.

Ed ora proseguiamo senza pietà…

Schiere di astronomi, linguisti, matematici, filosofi, da decenni si interrogano su come comunicare correttamente con un alieno, per evitare equivoci. Intanto, però, vengono inviati nello spazio migliaia di messaggi in ordine sparso. Oltre alle trasmissioni TV che potrebbero essere il nostro involontario biglietto da visita cosmico. (Sylvie Coyaud).

NOTA, in attesa della trasmissione su Italia 1 del prossimo 1 luglio, dedicata agli “alieni”, occorre riflettere su quanto finora hanno fatto gli alieni sulla nostra Terra.

Cosa sono infatti le antiche divinità mediterranee se non alieni conosciuti da tutti i popoli? E questo andare su e giù delle divinità in questione, non sono forse piccoli viaggi spaziali? Io sono convinto che Noi potremmo avere ulteriori informazioni dal nostro amico e protettore PRIAPO! Proprio in questo momento s’ode l’aere circostante inebriarsi di un suono profondo, che sembra sgorgare dalla natura. E’ la voce maschia e baritonale di Priapo che, come una melodia di zampogna, si espande per i boschi, i campi gialli di messi mature, di calli, di collinette e di borghi arrampicati in cima ad improbabili e friabili rocce, come Calcata d’altronde. La stessa Voce che fu udita dal famoso Erasmus di Rotterdam, esperto in similitudini, quando giunse a Calcata, nel 1513 (Mense Dicembri, Anno MDXIII), alla ricerca del “preputius Christi”, onde scrivere un trattato sulla corretta conservazione dei prepuzi e prostate di santi e madonne).

Scriveva infatti Erasmus, nella lettera dedicatoria all’amico Pietre Gilles, pubblicata in anteprima sul ” Monitore di Faleria”, tessendo l’elogio della Metafora come strumento pedagogico per insegnare a scrivere bene, come sosteneva Cicerone. La metafora è l’artificio sommo che conferisce ad uno scritto non solo splendore, ma l’intera sua eleganza: e il “paragone” è una Metaphora esplicata, una metafora sciolta, distesa, adatta ed efficace in ogni tipo di scrittura. (Scrive pertanto l’illustre protagonista: Come le briciole di un cristallo non si possono assolutamente ricomporre, così è difficilissimo riconciliare coloro che da una strettissima confidenza passarono all’odio reciproco.

Orbene, è proprio qui, a Calcata, che il costruttore di metafore colse l’arcano che circonda questa straordinaria Civitas. Quando, per esemplificare, è invalso l’uso di nomare in istrano modo i Frati dermatologi (dell’Ospedale dell’Immacolata, giustamente da questi romiti, curanti cutanee macchie, invocata in quanto priva di macchie), e questo nomignolo essendo a loro dato dalla marmaglia romana quali “frati teppisti”, trattasi ciceronianamente di metafora in quanto giro di parole, perché da frati si giunge a frati trappisti e da questi alla già nomata teppisti.

Ordunque, essendo giunto con la propria carrozza, dalle brume di Rotterdam in quel di Calcata, avendo Egli ordinato al fiaccheraio di tirare le briglie ai corsieri, già provati dal viaggio, onde poter discendere per andare ad orinare nel prospiciente boschetto, da questo sentì provenire il canto melodioso che con intelligenza Erasmus non potè che attribuire ad una possente divinità: era proprio la vellutata voce di Priapus che così elevava i suoi gorgheggi al cielo:

“Un’ora sola ti vorreiiiiiiiiii…..

per darti quello che non saiiiiiiii….”

(Ma come poteva saperlo il pur esperto Erasmus non conoscendo egli la costumanza di Priapus a locarsi nei pressi del Tempio ove giaceva religiosamente conservato in una teca finemente arabescata dalle trepide mani di verginali romite, il prepuzio del Divin Fantolino??).

Udì egli invece un’altra voce elevarsi dal bosco incantato. Essa voce diceva:

“Ma l’amore noooooooo!!!

l’amore mio non puòòòòòòòòò

dissolversi nei gorghi del rio Trejaaaaaaa……”

Era dessa la voce di Lupo Mannaro, che in precedenza ebbi a significare quale amante di Lupa Capitolina- Ma Erasmus nol sapea e pertanto, credendo avere a che fare col diabolico Mephisto, amico di Fausto, l’intrigante alchimista, emulo di tale berluska o burlesca o matrioska, nella seduzione coattiva d’ingenuotte villane, si diede invettivamente ad apostrofarlo in latino: “FAUSTE! FAUSTE! IN AETERNUM DAMNATUS ES!!” Profilavasi pertanto, in mente a Priapus, di ricorrere ad un ossimoro o alla peggio ad uno jojaro. Egli infatti gorgheggiò:

“C’era un Grillo (Beppe) in un campo di lino,

la formicuzza glie ne chiese un pochettino…..”

Ed infine un po’ di programmatica spinta… Ricordiamo a tutti gli affezionati lettori di Calcataonline News che sicuramente l’edizione viene chiusa, anche perché il “direttore” emigra altrove. Nel prossimo futuro potrebbe nascere l’inserto Spilambertoonline News, oppure Treiaonline News, dipende dall’ubicazione dell’Arpinate. Nel frattempo invitiamo gli accorti lettori e collaboratori a visionare sulle carte geografiche le posizioni di Spilamberto (anticamente Spilimberto) che si trova in provincia di Modena e di Treia (anticamente Atreia) che é in provincia di Macerata, studiandone attentamente la storia e le origini.

Il 29 giugno 2010, alle h. 16.30, nel centro visite del Parco Valle del Treja a Calcata, si tiene una commovente cerimonia di commiato con la redazione e con il direttore Paolo D’Arpini. Nell’occasione verranno anche riferiti i veri avvistamenti di UFO, angeli, demoni ed altre entità più o meno paranormali che si sono verificati nei secoli e nei millenni, fra Calcata, Pizzo Piede e Monte Li Santi…

Ma non volendo entrare in tema di ermeneutica dell’affettività, al momento ci s’impone ad indurre il lettore a sospendere la lettura.

Georgius Vitalicus Veientis et Saulus Arpinate  Treiensis

L'addio a Paolo D'Arpini  (alias Sor Bonaventura)

venerdì 6 giugno 2025

Liguria. Tutti i rifiuti a mare!

 

Nell’inceneritore di chiusura del ciclo dei rifiuti (termovalorizzatore o waste to chemical) che vuole realizzare la Regione Liguria confluiranno anche 260 mila tonnellate annue di rifiuti pericolosi e rifiuti speciali “come avviene negli analoghi impianti in tutta Italia”: lo ha confermato polemicamente (riferendosi a Roma) l’assessore regionale all’Ambiente, Giacomo Giampedrone.
 
Che precisa: “A fronte di una produzione di 800mila tonnellate di rifiuti urbani, la Liguria produce 2,6 milioni di tonnellate annue di rifiuti speciali di cui 10-15% di rifiuto speciale inerte e circa 200mila tonnellate annue di rifiuti pericolosi, flussi che in quota parte (con particolare riferimento ai rifiuti sanitari, di cui 20mila tonnellate a rischio infettivo – come siringhe, garze o altri presidi ospedalieri che per legge devono essere smaltiti tramite termodistruzione, attualmente inviati ad impianti di altre regioni – e 40mila all’anno dei fanghi di depurazione, oggi destinati alle discariche) potranno trovare opportune sinergie nel trattamento e recupero in un impianto di ambito regionale di chiusura del ciclo, diminuendo quindi il ricorso a discariche regionali o l’invio in altre regioni, con benefici ambientali ed economici“. Così si arriva alle 320mila tonnellate annue stabilite dalla Regione di raccolta differenziata, che non si intende aumentare.
 
Perciò per incenerire si è scelta una struttura enorme, dove andranno, anche rifiuti speciali e pericolosi. Finora, l’unica alternativa ipotizzata è quella di mettere i rifiuti speciali e pericolosi nei cassoni della diga foranea del porto.

La neo sindaca di Genova, Silvia Salis, in campagna elettorale aveva precisato che per lei “non sarebbe stata una soluzione ideale fare un impianto sovradimensionato in una discarica che sta per chiudere, cioè Scarpino (una delle aree individuate come idonee dallo studio del Rina per l’agenzia regionale Arlir), però non ha mai escluso la possibilità di collocarlo altrove.

Rete Ambientalista



giovedì 5 giugno 2025

Stretto di Messina. Il ponte e la mobilità militare...


Nel silenzio pressoché generale e con la scarsa attenzione dei media, il 2 aprile scorso nell’aula del Parlamento europeo si è discusso di un preoccupante quanto fuor di ogni ragionevole approccio al pacifico ruolo dell’Unione europea, della “Mobilità militare” nell’UE. Obiettivo, garantire il trasferimento senza ostacoli di truppe e dei loro mezzi di trasporto (si intendono quelli di 25 Stati membri dell’Unione che agiscono nell’ambito di una cooperazione rafforzata PESCO in materia di difesa).

I deputati europei hanno discusso (solo discusso perché nessuna risoluzione era prevista) dell’adeguatezza delle infrastrutture di trasporto transfrontaliere dell’UE, alla luce della minaccia rappresentata dalla Russia impegnata nella guerra contro l’Ucraina. Bum!

Gli ostacoli amministrativi delle infrastrutture preoccupano l’Europa

Mica tanto, perché il Governo italiano a questa discussione sembra fare riferimento per accelerare le sue procedure in relazione allo stato del cammino verso la costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina. Obiettivo, in applicazione di questa operazione di ammodernamento delle reti infrastrutturali, evitare le verifiche di impatto ambientale europee.
Con la precedente adozione della riforma delle norme sulla rete transeuropea dei trasporti (TEN) nel 2024, i deputati europei avevano già chiesto ai governi dell’UE di tenere conto delle esigenze militari (quali il peso o le dimensioni dei trasporti militari) “nella costruzione o nell’ammodernamento delle infrastrutture di trasporto che si sovrappongono alle reti militari, per garantire il trasferimento senza ostacoli di truppe ed equipaggiamenti” come dice un comunicato dello stesso Parlamento europeo.
C’è infatti preoccupazione, lo dice questo comunicato dal contenuto sorprendente quanto inquietante, “per gli ostacoli amministrativi che complicano il movimento delle truppe attraverso le frontiere e per la mancanza di finanziamenti adeguati a migliorare strade, ponti, tunnel e ferrovie affinché possano garantire il doppio utilizzo” (dual use). A far le pulci, in questo caso amministrative (sic!), è addirittura intervenuta la Corte dei Conti dell’Unione europea che ha segnalato un deficit di finanziamenti in questo settore.

La mobilità militare nel Libro bianco sulla difesa

Già, perché questa previsione di progettualità e vecchia di alcuni anni e, sottolinea la Corte dei Conti europea, negli ultimi tre esercizi finanziari non sono stati stanziati finanziamenti adeguati.

Che dire? Siamo avanti con i lavori (è il caso di dirlo!) della più ampia proposta del Re-Arm Europe evidentemente. Non solo si pensa ad avere più armi ma si pensa (in realtà si pensava da almeno tre anni) a garantire la movimentazione sul territorio europeo di apparecchiature militari (tanks, camion, altri mezzi).
Queste proposte sono tornate a galla nel dibattito sul cosiddetto Libro Bianco sulla difesa europea. È in questo documento che la Commissione parla della mobilità militare come un elemento essenziale per la sicurezza e la difesa europea. Proposte concrete saranno presentate entro la fine del 2025.

È un paradosso, che sfiora il ridicolo, che il Governo italiano si appelli a queste proposte per “accelerare” le procedure per la costruzione del Ponte, cercando di evitare ulteriori controlli sull’impatto ambientale. Cosa faranno, allargheranno le corsie stradali e ferroviarie previste nel progetto, aumenteranno la segnaletica, specialmente quella sui “carichi pesanti”?

Allarmi eccessivi e sconvolgimento delle infrastrutture

Altrettanto paradossale il fatto che si cerchino briciole di finanziamenti (tali sarebbero comunque quelli destinati a questo tipo di modifiche infrastrutturali) a fronte di un finanziamento complessivo ultramiliardario (si partirebbe da 15 miliardi e non si riesce proprio ad immaginare a quanti ne servirebbero effettivamente).

Ma torniamo all’Europa. Scava, scava e dietro il volto della signora Ursula von der Leyen riappare quello, esperto, dell’ex-ministro della difesa tedesca. E che da quella posizione era già ben attenta ai molteplici aspetti della gestione militare.
Ora non si vuole lanciare allarmi che potrebbero apparire eccessivi, ma è evidente che la postura di questa Commissione, le sue scelte in una materia tanto delicata appaiono davvero preoccupanti.

Se si pretende di inserire in un Libro bianco destinato alla politica di difesa, che prepara il lituano Andrius Kubilius, anche specifiche modalità che se davvero fossero applicate comporterebbero uno sconvolgimento delle infrastrutture europee orientate alla “mobilità militare”, è chiaro che si contribuisce al cambiamento degli orientamenti pacifici dell’Unione europea.

Ma il Ponte non aveva scopi civili?

Utilizzare ad ogni occasione i pericoli che verrebbero dalla Russia suona solo conferma di una politica che ormai da alcuni anni ha rinunciato al negoziato e alla ricerca, certo faticosa, di cooperazione.

È troppo pensare che questo approccio “guerrafondaio” è destinato ad aumentare le tensioni con i nostri vicini?

È sensato che il Governo italiano per realizzare una infrastruttura con cui, si dice, si tenta di intensificare il turismo e il trasporto civile faccia ricorso anche alle briciole di una complessa iniziativa detta di “mobilità militare”, mischiando il sacro con il profano?

Bruno Marasà 


Testo e foto originali: https://www.strisciarossa.it/come-si-fa-a-fare-il-ponte-di-messina-bypassando-limpatto-ambientale-grazie-alla-mobilita-militare/

Fonte secondaria: https://www.labottegadelbarbieri.org/come-si-fa-a-fare-il-ponte-di-messina/

Allevamento industriale: principale causa dell’inquinamento globale…

 


Sapevate  che la maggiore fonte di inquinamento globale è causato  dall’allevamento industriale?
Per produrre l’enorme massa di “carne” che entra nei nostri intestini viziati, oltre un miliardo e mezzo di bovini  vengono allevati nei cinque continenti, a cui vanno aggiunti gli allevamenti intensivi di numerosi  miliardi di suini, ovini, caprini,  pennuti, etc.  Ed i costi  pesano sempre più sull’ambiente  e  per invertire la rotta verso l’autodistruzione occorre  impostare politiche capaci di abbattere da subito  gli agenti inquinanti immessi nell’atmosfera.

A questo punto è importante che si ragioni su quel che stiamo facendo e questo include anche una seria riflessione sulla nostra alimentazione.

Secondo i dati delle Nazioni Unite la produzione industriale  di carne è una delle fonti principali dei gas serra. Di conseguenza bisogna modificare la dieta quotidiana  e bisogna che i governi si accordino per interrompere la produzione di cibi «inquinanti»…

Secondo  stime recenti l’allevamento degli animali produce addirittura la metà di tutti i gas serra che l’umanità immette ogni anno nell’atmosfera… Questo considerando le emissioni legate alla filiera alimentare dell’allevamento (refrigerazione con perdite di CFC, trattamento, cottura), e tenendo in conto  non solo la deforestazione annua, per fare posto ai pascoli e alle colture da mangime, ma anche la deforestazione complessiva e le monoculture OGM, solitamente trattate con diserbanti e concimi chimici.

A  questi dati va aggiunto l’inquinamento massiccio dei mari e dei laghi  dovuto alle “coltivazioni” di pesce in riserve costiere e conseguente avvelenamento da farmaci e antibiotici immessi continuamente nelle acque.

Ne consegue che la lotta ai cambiamenti climatici  passa per le nostre cucine…

Paolo D’Arpini - Rete Bioregionale Italiana



martedì 3 giugno 2025

Treia. Antichi mestieri bioregionali connessi all'agricoltura ed all'alimentazione...

 


In estrema sintesi ricordo che gli statuti comunali sono le leggi che i Comuni, dopo la loro nascita, cominciarono a darsi per regolamentare la vita civile della comunità.  Il Comune godeva di una certa autonomia e poteva regolare la vita dei propri cittadini con norme che esso stesso si dava e adattava alle proprie esigenze particolari. Vi dico solo che oggi sono considerati tra le fonti giuridiche più importanti del Medioevo e sono studiati come la più viva testimonianza della società comunale. Cominciano ad essere redatti addirittura alla fine del Duecento, poi nel tempo saranno sempre riadattati ai mutamenti sociali, politici ed economici. Quelli originali giunti fino a noi sono soprattutto del Trecento e Quattrocento e molti di essi, con l’avvento della stampa, verranno anche stampati nei primi decenni del Cinquecento. 

E’ il caso degli statuti che io ho studiato, ad esempio quelli di Treia, stampati nel 1526 e quelli di Appignano stampati nel 1538, la cui edizione critica pubblicherò a giorni e presenterò il prossimo 10 novembre ad Appignano. 
Siccome negli statuti si parla di tutto io ho pensato di proporvene uno un po’ vicino allo spirito del Circolo Vegetariano VV.TT. di Treia, ed alla tavola rotonda denominata “Cultura e Coltura”, che qui si tenne il 5 maggio 2012, ed alla quale anch'io partecipai. Si tratta delle norme statutarie riguardanti i più importanti mestieri legati al cibo e al sistema alimentare, e ci accorgeremo che sarà un’immersione nella terra e un tuffo nella natura.

Va detto subito che Treia era un comune a marcata vocazione agricola e, come in tutte le altre località rurali della zona, quasi tutti i mestieri esercitati all’interno delle mura erano in stretta correlazione con le produzioni derivate dalle attività agricole. La terra era considerata il più valido strumento di approvvigionamento alimentare e di profitto e sarà così almeno fino all’affacciarsi dell’industrializzazione.

Ovviamente negli statuti non troviamo né ricette né menù, ma solo tante disposizioni, imposizioni e proibizioni, concernenti il lavoro, i singoli prodotti, la produzione, i prezzi, la tassazione, la conservazione e perfino le norme igieniche. In essi era data particolare attenzione alla regolamentazione di quei mestieri che erano atti a soddisfare i bisogni primari della popolazione, vale a dire i produttori e fornitori di generi alimentari di base, come pane, vino, verdure, frutta e legumi. Questi erano i principali prodotti, con le loro derivazioni, che sia i ricchi che i poveri mangiavano, naturalmente con differenze tra le classi sociali nella quantità e nella qualità. Mi sembra interessante sottolineare che gli statuti confermano quello che ormai è ben noto agli storici: nel Medioevo e anche nei primi secoli dell’Età moderna, non esisteva nei nostri paesi un commercio di viveri con terre lontane. Non compaiono cibi esotici. Ogni comunità si manteneva con quanto produceva il proprio territorio. In questo stando in sintonia con il sistema alimentare "bioregionale". Pochi erano gli scambi di generi alimentari e solo tra località vicine.

Prendiamo ad esempio il mestiere del fornaio. Tale lavoratore era al tempo stesso artigiano e commerciante. Poteva, come accade oggi, preparare il pane e venderlo al banco, ma soprattutto doveva cuocere il pane su richiesta di tutti coloro che gli richiedevano questo servizio al quale il fornaio non poteva sottrarsi. Chi voleva farsi cuocere il pane doveva portare la farina e gli altri ingredienti necessari. I fornai si facevano pagare trattenendo una quota parte del pane cotto. A Treia trattenevano quattro pagnotte ogni venti, per riscaldare il forno, suis lignis, cioè legna del fornaio, o lignis illius cuius essent panes, cioè legna del cliente. Nel primo caso la retribuzione consisteva in panes duos, cioè due pagnotte per ogni tavola infornata, mentre nel secondo caso era sufficiente una sola pagnotta. Sempre a  Treia era consentito ai fornai e ai loro familiari circolare nottetempo senza necessità di salvacondotto o lumi, perché quello era un lavoro da fare di notte in modo da far trovare il pane pronto al mattino presto. In entrambe le località i venditori di pane dovevano venderlo ben cotto e secondo i pesi stabiliti dalle autorità comunali, cioè pesandolo con una bilancia contrassegnata dal Comune.  V'era inoltre obbligo di porre sul banco una tovaglia bianca e un bastone per toccare le pagnotte che non potevano essere prese con le mani per nessun motivo. Chi veniva colto ad infrangere questa regola subiva una ammenda molto salata. Il pane rotto o toccato non poteva essere venduto a nessuno, nemmeno ai poveri a minor prezzo, pena multe salatissime. 

C’era anche l’obbligo di tenere un canestro per riporre le pagnotte quando con la pala venivano estratte dal forno in modo da evitare che cadessero a terra e si rompessero o si sporcassero. Assai vicina sul piano professionale alla figura del fornaio era quella del mugnaio. I mulini erano piccole macine ad acqua, cosiddetti terragni, di quel tipo ricordato da Dante nel XXIII canto dell’Inferno. Treia ne aveva nei vallati del Potenza. I mugnai dovevano restituire la farina, riposta in un sacco, per una quantità corrispondente al peso del grano, o altro prodotto, che era stato macinato. Anche i mugnai si facevano pagare con una quota parte della farina macinata, trattenendone il cinque per cento. Per tale operazione utilizzavano un apposito contenitore di ferro, chiamato “scatula”. Era una specie di grossa scodella omologata dal Comune e recante il sigillo comunale come segno di conformità. Attenzione! Negli statuti era prassi che la metà o altra porzione delle multe riscosse, andasse all’accusatore. Quindi, prima di trasgredire conveniva a chiunque guardarsi sempre intorno. Non va dimenticato che in quell’epoca tutti i mulini, ma soprattutto quelli da grano, godevano in tutti gli statuti comunali di una considerazione particolare perché ritenuti indispensabili per l’acquisizione dell’autosufficienza alimentare che ogni comune andava cercando con insistenza. 
Nell’epoca di cui stiamo parlando, e cioè gli inizi del Cinquecento, è ovvio che non si mangiava solo pane di frumento e carne, anzi questi due prodotti potevano permetterseli solo in pochi. E gli statuti parlano anche di altri prodotti alimentari, regolandone la produzione, la vendita e la tassazione. Questi altri prodotti li troviamo soprattutto al mercato dove non c’erano solo commercianti e mercanti di professione, ma anche contadini che provenivano dalla campagna e vendevano i prodotti dei campi e degli orti che coltivavano. 

Gli statuti di Treia chiamano questi venditori “triccoli”. Essi avevano nei loro banchi improvvisati pollame ruspante, uova, oche, anatre, piccioni e altri piccoli volatili. Potevano collocarsi nella piazza principale, però separati dai venditori di altre merci, sempre per questioni igieniche, e non potevano iniziare la propria attività prima dell’ora terza, le odierne nove del mattino, perché la loro mercanzia era starnazzante e rumorosa. Ovviamente non perché disturbassero chi ancora dormiva, ma perché avrebbero disturbato le funzioni religiose del mattino che si svolgevano nelle chiese adiacenti alla piazza. Dagli statuti conosciamo gli animali commestibili che i “triccoli” vendevano, oltre quelli già menzionati: fagiani, quaglie, tordi, merli, lepri, tortore, ma vendevano anche verdure e frutta come rape, cavoli, mele, pere, fichi, castagne, agli, cipolle, fave, fagioli secchi, noci, zucche, bietole, erbe di campo, porri e altro, a seconda delle stagioni. Alcuni di questi prodotti erano considerati talmente importanti per l’alimentazione quotidiana del tempo che non potevano essere esportati, come polli, uova, anatre, agnelli, capretti e formaggi. A Treia lo si poteva fare solo con espressa licenza del podestà. 

Naturalmente gli uomini e le donne di allora bevevano anche e, inutile ricordarlo, la bevanda per eccellenza era il vino. Gli statuti lo mostrano nelle cantine dei contadini, dei proprietari ma, ovviamente, soprattutto nelle taverne e nelle osterie. Le norme statutarie regolamentavano soprattutto il mestiere del taverniere, mestiere anch’esso soggetto ai dazi di consumo. A Treia i tavernieri, nelle loro tabernae, vendevano vino, olio e carne salata. Era un mestiere difficile perché nelle taverne avveniva di tutto ed era uno dei pochi luoghi dove erano meno evidenti le differenze tra i ceti sociali. Gli osti dovevano usare misure omologate dal Comune e tenere boccali tipo legati ad una catena e, ovviamente, non potevano contraffare vino e olio con altre sostanze, come miele, acqua o acquavite, pena multe salate e in alcuni casi anche la fustigazione. Non si poteva vendere vino di notte, ossia dopo il terzo rintocco della campana della sera e prima del primo rintocco della campana del mattino. E non si poteva somministrare vino ai minori di quindici anni. Noi oggi non ci riusciamo neanche con i superalcolici!  Naturalmente si beveva pure acqua la quale, come è sempre accaduto nella storia dell’umanità, serviva anche per cucinare. 

Gli statuti comunali, e naturalmente anche i due nostri, parlano molto dell’acqua, specialmente dettando norme soprattutto dal punto di vista dell’igiene, per evitare l’inquinamento da sporcizia di falde, pozzi, fonti e fontane. Multe pesanti erano a carico di coloro che danneggiavano le fontane e le cisterne pubbliche e deviavano i corsi d’acqua. Ma qui il discorso ci porterebbe troppo lontano. 

Invece, mi pare sia giunto ormai il tempo di fare una considerazione che a me sembra assai importante. Finora abbiamo parlato di alcuni mestieri legati ai cibi più consumati e più noti: fornai, mugnai, tavernieri, piccoli mercanti, ecc. Ma è ovvio che la filiera non cominciava lì. Il fornaio faceva il pane, ma aveva bisogno della farina che gli procurava il mugnaio il quale senza il grano che gli portava il contadino o, meglio, il proprietario terriero, non lavorava. E via dicendo. In poche parole, come ho detto all’inizio, la filiera cominciava per tutti dalla terra e da coloro che, a vario titolo, la lavoravano. Gli statuti comunali dedicano molte rubriche ai vari tipi di lavoratori della terra e dettano norme precise per ogni lavoro. 
E allora, sempre restando in ambito alimentare, vi propongo solo qualche esempio tra i più significativi. Abbiamo parlato di pane e allora andiamo a vedere rapidamente chi produceva il grano. Intanto ricordo che all’epoca il grano, ma anche l’orzo, veniva utilizzato spesso come moneta. Ciò sta a dimostrare l’importanza che all’epoca veniva data a questo cereale. La produzione del grano era indispensabile ad ogni comunità. Ma devo dire che grande importanza veniva data un po’ a tutti i prodotti della terra, specialmente ad altre granaglie minori come la spelta, l’avena, la segale, molto diffuse perché più resistenti alle intemperie. Fornivano un pane rozzo ma ben accettato per sopravvivere soprattutto durante le frequenti carestie. 

Tornando al grano, a Treia i mietitori e i trebbiatori trattenevano, come retribuzione, l’uno per cento del grano raccolto, ma dovevano lavorare dall’alba al tramonto. Durante la mietitura i lavoratori mietevano e componevano i covoni sotto il controllo di un rappresentante del proprietario e non dovevano lasciare il grano mietuto nel campo durante la notte. Gli statuti vietavano di raccogliere spighe nei campi prima che il grano venisse ammucchiato nell’aia. Molte disposizioni riguardavano i lavoratori delle vigne, in entrambi gli statuti. Ad Appignano i lavoratori delle vigne erano tenuti a svolgere tutti i lavori stagionali necessari, ovvero potare, zappare, vangare, legare le viti e fare quant’altro era previsto dal contratto stipulato col padrone delle vigne. Eventuali inadempienze venivano punite con la riduzione della quota parte di prodotto spettante ai lavoratori. Ovviamente negli statuti erano presenti multe per quei lavoratori che rubavano uva o altri prodotti. 

Nello statuto di Treia è più volte ripetuto che i lavoratori della terra, a vario titolo, erano tenuti a lavorarla quam suas proprias, cioè come se fosse di loro proprietà. E i terreni non potevano essere concessi in affitto o a giornata a lavoratori che non fossero di Treia. Questo naturalmente per favorire l’occupazione dei residenti. 

Discorso di Alberto Meriggi, tratto dal libro "Treia: storie di vita bioregionale" di Paolo D'Arpini  (Edizioni Tracce)