Considerazione sul potere assoluto del pensiero
logico.
Erwin Schrödinger (Vienna 1887-1961), critico nei
confronti della realtà prospettata dalla fisica quantistica, formula
il noto esempio detto del gatto nella
scatola. Secondo il ricercatore
austriaco, la configurazione che propone della fisica quantistica
porterebbe alla conclusione che il gatto dovrebbe essere
contemporaneamente vivo e morto, salvo nel momento in cui si apre la
scatola, in cui, necessariamente, è uno o l’altro.
Con tale osservazione logica il fisico viennese
porta a termine il proprio pensiero critico, la cui morale, a suo
parere – e a quello di chi lo condivide, tra cui Einstein – è
che tutto l’impianto della fisica quantistica nella versione di
Copenaghen – il cui punto di insorgenza si trova proprio nella
contemporaneità in nuce di due stati, materia e energia, e
nell’avvento della realtà in funzione dell’osservatore, ancora
oggi chiamata probabilistica – non può essere sostenuto.
La contemporaneità – temine inadeguato –
della duplice natura dello stato corpuscolare e ondulatorio si presta
anche a riempire di significato l’idea di un universo composto da
una sola energia che si declina nelle forme della storia in funzione
dell’osservatore, in funzione dell’ottica, delle fede, del
credito di chi ne descrive la realtà. In questi termini mente e
materia non solo non sono due enti-stati disgiunti e indipendenti, ma
una monade, cangiante al nostro servizio.
Mi sono permesso, con “ancora oggi chiamata
probabilistica”, un lieve sarcasmo, strumentale per avviare la
prospettiva in cui appare chiaro che il gatto non c’entra niente e
che il punto nodale riguarda la logica.
Più precisamente, chi segue il discorso di
Schrödinger, e ne condivide l’impossibile conclusione – cioè
che, affinché la fisica dei quanti possa sostenere se stessa, si
deve condividere l’idea che il gatto sia contemporaneamente vivo e
morto – trae il proprio pensiero dal grande ma limitato bacino che
raccoglie l’oceano della logica e le sue verità, dettate dai tre
principi aristotelici: Principio di
identità, Principio
di non contraddizione, Principio
del terzo escluso. Un invaso enorme, ma
che non può contenere altro che il pensiero strutturato, una
riduzione maldestra, una compressione improba, non certo la realtà
nella sua infinitezza. Un invaso ideale per amministrare, demoniaco
per conoscere.
Ne è un esempio l’accredito
che diamo alla probabilità, mero computo dei dati raccolti, che
l’uomo utilizza pazzamente per comporre il disegno della realtà.
Ma esso, invece – l’accredito alla probabilità – è una
cortina di ferro nei confronti dell’evento (Heidegger, 2007/1989)
dell’avvento della realtà. Impedisce di riconoscere che non è mai
– come crede il meccanicista – probabilistico. È invece sempre
serendipico, creativo, quantistico. Ovvero, come un magnete che
orienta la limatura di ferro, la realtà avviene secondo chi la
pensa.
Le probabilità riguardano
il mondo oggettivo – prodotto della creazione di una concezione
materialista della vita – meccanicistico, non quello energetico,
quantistico, sottile, metafisico o spirituale.
Per Schrödinger e congrega
scettica, dare credito a Werner Heisenberg, Niels Bohr, e compagnia
di Copenahagen, significava sottoscrivere la demolizione delle
certezze della fisica classica, quelle su cui era appoggiato il
mondo, e l’intero impianto cognitivo a mezzo del quale l’Occidente
procedeva a velocità di crociera sulla via della verità ultima.
Un’eventualità ributtante, che non potevano accogliere, perché
sarebbe stato togliersi la terra sotto i piedi, smarrire se stessi.
In termini ancora scientifici, nientemeno di un vero suicidio
cognitivo.
Come non essere con il fisico del gatto? La logica
conclama l’inverosimilità di quanto affermato dalla fisica
quantistica. Che altro pretendere oltre all’indimostrabilità
razionalistica? Cosa volere di più, per riconoscere il vero dal
falso, del verdetto supremo dettato dal dio della verità, ovvero dal
Metodo scientifico, che, con i suoi principi di dimostrazione e di
ripetibilità, è indiscutibilmente insuperabile nel suo criterio di
discernimento del vero?
Come non stare dalla parte
assennata, quella del banale buon senso? Come, quindi, non irritarsi
davanti a tanta stupida magia? Domande retoriche la cui risposta ci
sarebbe, ma non per l’inconsapevole scientista, il quale non è in
grado di avvedersi della filosofia che scaturisce dalla teoria
quantistica. Neppure leggendo Fisica
e filosofia
(Heisenberg, 1963/1958), tanto la loro supponenza soverchia la loro
stessa sensibilità.
Ma il grande bacino che contiene l’oceano della
logica, nonostante le apparenze e pretese di linearità impeccabile e
purezza, che l’acido scientista vuole cristallina, presenta
opportunistiche affabulazioni e tappeti sotto i quali nascondere la
sua stessa polluzione. I pesci che lo abitano, ovvero tutti noi, ne
sono assuefatti, e per questo non se ne avvedono. Andiamo così,
determinati come salmoni al tempo della riproduzione, a concentrarci
nei punti trigger da cui riteniamo sgorghi la scienza.
Poi, torniamo a casa a propagare le verità
apprese: i virus provocano le malattie, l’omeopatia non è stata
scientificamente dimostrata, quindi è fandonia, emozioni e
sentimenti non hanno a che vedere con le malattie e con la
guarigione. Il terreno
– Paracelso – non è studiato dagli scienziati, e come potrebbero
visto che non ne hanno consapevolezza, e Paracelso non lo trattano
neppure, ne possono tranquillamente fare a meno. Ci facciamo
vaccinare come devoti in coda alla confessione, convinti di eludere
il rischio di ammalarsi come di finire all’inferno. L’elenco
andrebbe avanti. Meglio tornare al gatto.
Tentando di prendere in esame la monade della
logica nella sua interezza, la sua natura e l’esigenza umana che la
richiede, abbracciando cioè l’intero bacino che la contiene, si
può venire a capo del problema posto da Schrödinger, che tanto
soddisfa le menti ancorata alla meccanica classica, quanto concorre a
far passare la fisica quantistica come qualcosa di incomprensibile,
quindi insostenibile.
Possiamo, cioè, riconoscere che la contraddizione
tutta duale, logico-cartesiana che culmina nell’impossibilità che
il gatto possa essere vivo e morto contemporaneamente, con la quale
vorrebbe stroncare la verità della fisica quantistica, non è che
una specie di ologramma, che appare solo ai pesci residenti
nell’oceano della logica.
Come detto, ne siamo talmente assuefatti da non
poter pensare diversamente da quanto la dipendenza ci impone. Come
rinchiusi entro un cerchio di polvere di gesso, vissuto come limite
del pensabile. Una scimmia sulla schiena che restringe il nostro
immaginario ad una sola sostanza inibitrice della possibilità di uno
sguardo critico, di una presa di coscienza del grande bacino della
logica che ci contiene e contiene la verità.
Non che non ci siano ragioni di tale stato delle
cose. Tra le molte, a mio parere, due di queste sono da tenere
presenti prima delle altre. La prima è che, in un mondo concepito
come separato da noi, composto da oggetti a loro volta separabili
dalla complessità della realtà, cioè in un mondo considerato un
ammasso di oggetti, peraltro ordinabili, la logica vince a mani basse
la partita di come fare, come muoversi, come procedere. Tutto ciò fa
capo al cosiddetto mondo duale, il cui referente filosofico sta nel
meccanicismo, nel principio di causa-effetto. Il suo potere
predittivo ha tenuto a bocca aperta di soddisfazione gran parte del
mondo, a partire da Newton e culminando in Descartes. Il primo ha
dimostrato il comportamento dei pianeti, il secondo ha separato la
materia dal pensiero.
La seconda prescinde dai massimi pensatori e
riguarda la dimensione amministrativa e replicativa della vita. Non
rispettare il criterio di avanzamento in questa specifica dimensione
esistenziale è una specie di suicidio, o di inammissibile mancanza.
Senza rispettare i principi della logica, non si può più entrare in
nessuna dinamica codificata, fosse anche un gioco come il calcio, gli
scacchi e la scala quaranta.
Oltre a ciò, va fatto un accenno al linguaggio.
Tanto più questo è prosaico, tanto più è idoneo a gestire la
dimensione amministrativa della vita. Dimensione che, purtroppo a sua
volta, non è vista e distinta da quella creativa. Una svista grave,
che induce la moltitudine dei non vedenti a riversare il criterio
amministrativo anche in contesto libero. Grave in quanto implica la
concezione di un uomo meccanicizzato e uniformato, senza un universo
suo, e punibile se portatore di una cosmogonia estranea alla
moltitudine.
Il linguaggio lirico è, invece, un trofeo
insignito alla dimensione alogica dell’uomo. Non a caso, tollerato
in quanto fonte di svago e, comunque, lasciato ai margini della
cultura positivista.
Ma la logica non è la vita, è solo un espediente
per muoversi al suo interno, anche molto utile, come detto, se
applicata in campi chiusi. Ma che diviene una specie di elefante in
cristalleria quando se ne estende – inconsapevolmente, ma
scientisticamente – l’applicazione ai campi aperti,
tendenzialmente quelli umanistici, relazionali, esistenziali. Quelli
che si rifiutano di tenere alla larga emozioni e sentimenti dal
processo della cosiddetta conoscenza.
L’egemonia della logica, pur con la standing
ovation della pletora filo illuminista, dunque a sua insaputa, è
assurda, in quanto tenta, anzi crede e pretende di contenere il
mondo, cioè l’infinito.
È qui che torna il gatto, la contemporaneità del
suo stato vivo e morto, e la presunta fallacia delle verità
quantistiche. È qui che il bacino mostra il suo confine, oltre il
quale, però, l’infinito della vita e della realtà, sebbene
mortificato, prosegue indisturbato.
Ed è sempre qui che la concezione del mondo e
delle sue verità può prendere una piega assai più soddisfacente di
quanto lo sia stata finora con la logica e il suo meccanicismo.
Il discorso
logico separa il mondo da noi, lo pone come oggetto e lo studia con
le probabilità, non si avvede che, in quel modo, non coglie che
l’atto creativo che genera la realtà che è in noi riferisce di
un’imprescindibile unità.
La realtà data, come un paesaggio che possiamo
ammirare o frequentare, non è la realtà. Essa è semplicemente la
realtà che appare al nostro cospetto. Essa diviene bella o brutta in
funzione della nostra proiezione, esattamente come il gatto, il cui
stato è totalmente in funzione di chi apre la scatola.
Come a tennis, solo nel
momento in cui il giocatore avversario colpisce la pallina si
realizza la direzione che prende, ed è in funzione dell’altro
giocatore che questa sarà più o meno facile da ribattere.
Logicamente parlando, sembra che la pallina, prima di essere colpita,
possa creare o non creare problemi al destinatario, mentre, invece, è
alogicamente o magicamente l’esatto
contrario,
nella misura in cui la natura del colpo è relativa ai sentimenti,
alle emozioni, allo stato di chi la sta ricevendo.
La realtà nella relazione, che riqualifica il
potere creativo di emozioni e sentimenti, che riduce l’assolutismo
positivista a mezzo del quale si pensava, un passo alla volta, di
arrivare alla verità definitiva, non solo in contesti chiusi, ma
mutuando il sistema a quelli aperti, non è il solo elemento che
dovrebbe costringere i padroni del pensiero logico ad abbassare le
orecchie.
L’entanglement, ovvero la sincronica risposta a
uno stimolo riscontrabile tra due particelle prima unite e poi
separate, anche a siderale distanza, comporta considerare che gli
elementi del mondo non siano separati ma contigui, che il tutto
si tiene degli alchimisti non era una
ciarlatanata come dice la bocca scientifica e scientista.
E se non c’è il vuoto meccanicista che li
separa, ma un elemento che li unisce, questo è il pensiero, che nel
sentimento esplicita più che mai la sua natura connettiva. È in
questi termini che la realtà, così come l’universo, è più
simile a un pensiero che a un computo di oggetti.
Su questa scia, si può considerare che
l’infinitamente piccolo,
una verità relativa alla monomania misurativa logico-meccanicista
che relega a quella dimensionizzazione la verità, il campo d’azione,
della fisica quantistica, riguarda anche il macroscopico. Infatti,
liberi da quella mania di discrezione, i suoi principi ben si
addicono a descrivere le sottili, immateriali, dinamiche relazionali
umane. Così, l’entanglement ha a che fare con l’emozione, in
quanto in entrambe il tempo e lo spazio intesi secondo l’accezione
della fisica classica vengono meno. Rivivere un’emozione è
ritornare al tempo a allo spazio in cui è accaduta la prima volta.
Oppure, alludendo alla reversibilità del tempo, prima logicamente
costretto a muovere in una sola direzione. Mentre viceversa si
possono trovare dei legami con le premonizioni o le preveggenze.
Anche nei sentimenti, nei legami, possiamo constatare la sparizione
dei concetti ordinari di spazio e di tempo. In essi la forza della
sottile catena del legame non varia con la distanza tra le parti né
con lo scorrere del tempo, quando il bisogno resta tale.
È anche per questo che si può concludere che
dall’infinito ognuno di noi, istante per istante, coglie gli
elementi che lo fanno sopravvivere, disponendoli in costellazioni che
non può pensare siano valide per tutti, come vorrebbe fare, invece,
il pensiero logico.
Lorenzo Merlo
Bibliografia
Heidegger, M. (2007). Contributi
alla filosofia (dall’evento).
Adelphi. (Prima edizione 1989)
Heinsenberg W. (1963). Fisica
e Filosofia). Il saggiatore. (Prima
edizione 1958)