Qualche
domanda e qualche considerazione guardando in casa nostra,
consapevoli di essere osmotici ad intenzioni che arrivano da fuori.
Non
saprei da dove avviare la questione. Provo con una domanda. Chiedo,
“È democrazia il popolo da un lato e il parlamento/governo
dall’altro?” Domanda elementare la cui risposta è chiara ed
univoca a chiunque. Fatto salvo a chi, invece dei principi
democraticamente ovvi, preferisce la dialettica politica fino
all’eventuale contratto col nemico. Se unire forze prive di
consenso sia cosa costituzionalmente prevista non sposta l’importanza
della questione.
Effettivamente
le due posizioni – tra chi inorridisce a immaginare un governo
estraneo al consenso popolare e chi no – sebbene inconciliabili nei
loro principi, sono entrambe disponibili agli uomini. A quale verità
vogliamo appartenere?
All’ambito popolare che non ha più nulla da spartire con quello
dei suoi rappresentanti? Sembra un’imbecillità chiederselo, ma non
lo è. Sono decenni che si osserva il crescendo della distanza tra le
due parti. Ma è soprattutto la conseguenza implicita – anzi
maledettamente esplicita – che dovrebbe iniziare ad essere presa
popolarmente in esame: la democrazia è certamente stata concepita,
ma è mai nata? La sua promessa quanto è stata mantenuta? Quanto ha
fallito? O è abortita?
In
ogni caso, la teniamo attaccata al polmone artificiale. Ci si prodiga
ad allungarne l’agonia. Questioni affettive? Paura di perderla?
Nella speranza si riprenda? Eppure da un punto di vista funzionale,
non c’è più niente da fare. Stato vegetativo si direbbe
personificandola. La nuce che conteneva non diventerà realtà.
Comprensibilmente ci si esalta nei momenti in cui sussulta. Ma a
questo punto sembrano più diversivi pilotati, assi che escono dalla
manica del grande joker piuttosto che salute effettivamente
riconquistata.
Allora
torniamo alla domanda tanto elementare quanto fondamentale. È
democrazia il popolo da un lato e il parlamento/governo dall’altro?
Anche se ha una risposta per molti univoca è obbligata. Va posta,
per riflettere, per svegliare, per creare il necessario che la
scongiuri, per prendere coscienza che il lavoro è lungo e smettere
di pretendere e accontentarsi di risultati immediati. Noi del popolo
dobbiamo porcela e avviare processi privato-politici utili alla
salute della moribonda democrazia. Dobbiamo porcela e darci da fare
per evitare di essere collusi con il suo funerale. Al quale si
accoderanno uomini scesa da ogni lato del parlamento.
“Per il bene dell’Italia”. È la
risposta di coloro che ritengono che la democrazia sussista anche
separata dal consenso popolare, assoggettabile a mediazione. Una
prospettiva elastica fino ai lontani confini dell’ossimoro. Mi
riferisco naturalmente al principio democratico, non a quanto esiste
nel dibattito parlamentare. E proprio in quest’ultimo sono
rintracciabili i virus del do ut des, malattia degenerativa della
mercificazione e compravendita dello spirito che ha costretto la
democrazia al reparto Terapia Intensiva.
Niente compromessi allora? Parlamento
inutile? No. Rinunciare alla propria modalità di esecuzione di un
progetto politico, accomodarla dopo aver ascoltato altre parti fa
parte della dialettica. Rinnegare le promesse e gli impegno, svendere
la propria idea politica, privilegiare l’interesse personale,
imbrogliare il prossimo è altra cosa. È mercificazione di sé. È
incompatibile con l’idea di democrazia che media e istituzioni
seguitano a venderci.
“Per
il bene dell’Italia”, passo-passo si è arrivati a stringere
accordi con élite che non ci riguardano; a dimenticare a chi si era
stretto la mano. Ai tempi, un gesto che valeva come la ceralacca,
oggi, il tempo che trova. Chi s’è visto, s’è visto. O, meglio,
business is business. Una formuletta magica onnipotente adatta a
tutti i tavoli di lavoro, a mitigare tutti i mali, salvo non siano
etici.
In
sostanza siamo immersi nel genere – sì, come per i tipi di
programma tv – democratico-mediatico. Del resto, nella società
dello spettacolo sempre più citata in questi ultimi anni, è più
opportuno riferirsi ai generi che non a progetti politici di lunga
prospettiva. Dalle sue trincee di raso, chi dispone della
comunicazione combatte una guerra che non perderà mai.
Ma
anche noi partecipiamo al degrado. Chi vuole più aspettare? Dopo
aver vissuto la Milano da bere, dopo aver visto il trionfo
dell’edonismo individualista. Una spaccatura profonda della
tradizione culturale italiana e molto milanese che aveva coperto di
gloria sonante e in tempi brevi, schiere di giocatori in borsa e
rampanti consulenti finanziari. Che questi avessero sostanzialmente
derubato il loro prossimo, era cosa da soprassedere, la legalità
glielo permetteva. Loro incassavano, gli altri piangevano. Meglio più
furbi che più buoni.
Era
la nuova era, il nuovo equilibrio. Dove, anche a cercarla, non c’era
più parsimonia, frugalità, senso della vita. Il piacere immediato
aveva sostituito quello della pagnotta guadagnata. I media, di quello
parlavano, mica dei poveracci. Con gli strilli dedicati ai nuovi
ricchi vendevano. Nessuno di loro aveva letto fino in fondo la
leggenda del re Mida. C’era solo da spettare. La realtà gliela
avrebbe servita.
Da
lì, da quel punto, passaggio chiave di una via verso la giustizia
sociale, la direzione della democrazia ha cambiato rotta. “Novanta
a dritta” è stato l’ordine silente e convincente arrivato dalle
eminenze ai capitani. Solo così avrebbero raggiunto il porto giusto.
Al diavolo le alte vette della purezza. Ad attendere l’equipaggio
festante c’erano gli oligarchi dell’ammiragliato. I capi della
grande flotta che solca tutti i mari del mondo erano in banchina ad
attenderli. In pochi semplici esami i nostri uomini hanno superato le
richieste della commissione. Manco a dirlo i commissari erano
tedeschi, francesi, americani, generali e qualche anonimo, che ha
preferito rimanere nell’ombra.
Democraticamente
la democrazia ha così camuffato – o cancellato? – se stessa. Sì,
perché se si tolgono gli elettori dalla scena resta un giochetto per
pochi oligarchi. Maestri del vincere facile.
Le
scelte dei nostri prodi vassalli li avevano portati a giurare fedeltà
a corone superiori con le quali il doppio gioco non è neppure
pensabili. Così, per mantenere la nuova, edulcorata ma posticcia
libertà, si attengono al giuramento che le hanno dovuto prestare.
Quell’altro, compiuto con i loro elettori, che vuoi farci,
complicava troppo le cose.
Girala
di qui e girala di là, chi vuole ancora credere nella democrazia
almeno faccia mente locale e si chieda se è in corso – per essere
gentili – una sua parabola discendente. Se non siamo arrivati fin
qui sospinti avanti, come l’asino, dalla carota democratica.
Quelli
che invece ne hanno già visto l’arco ormai spento oltre
l’orizzonte della giustizia sociale, del bene comune, della
lungimiranza, dell’identità culturale con cui allevare i nostri
figli, di un progetto condiviso per il quale rimboccarsi le maniche e
strapparsi di dosso i lamenti dei bottegai – come successe per il
boom economico – speriamo rimangano calmi e caccino via idee
violente e dinamitarde.
Lorenzo Merlo - 26 agosto 2019