mercoledì 28 febbraio 2018

La triade della nuova coscienza universale: bioregionalismo, ecologia profonda, spiritualità laica


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Chiunque, vivendo in un  dato territorio,  può essere bioregionalista indipendentemente dalla provenienza di origine se segue la pratica dell’ecologia profonda, in un modo in cui, pur sentendosi liberi di manifestare se stessi nelle proprie caratteristiche peculiari, non si ha bisogno di provocare danni all’habitat od alla società in funzione di un personale esclusivo vantaggio, senza considerare il vantaggio collettivo.  Nel bioregionalismo si cerca quindi di mantenere un equilibrio fra l’uomo, l’ambiente e gli altri esseri viventi. 

E’ molto importante che si tenga sempre presente questo “spirito” in cui  l’ecologia “profonda” diventa una pratica costante della vita, come un sottofondo profumato.  L’approccio bioregionale comprende infatti la visione dell’ecologia profonda e della spiritualità della natura (o laica). Questi tre aspetti sono inseparabili.  

 L’ecologia profonda è il riconoscimento dell’inscindibilità della vita ed il bioregionalismo non è altro che la descrizione dei vari ambiti territoriali e dei  processi vitali e delle forme visibili della vita e della materia nella consapevolezza di tale inscindibilità. Nell’individuazione di un ambito “bioregionale” non si tiene conto esclusivamente del vivente bensì dell’insieme inorganico, morfologico, geografico, geologico del territorio prescelto, ivi compresi -ovviamente- gli elementi botanici e zoologici che vi prosperano. Senza trascurare gli aspetti sociologici e culturali  della società che ivi risiede.  

Insomma si esamina l’omogeneità dell’area esaminata definita “bioregione” e lì si traccia una leggera linea di demarcazione (non divisione) per individuarne i “confini”. Va da sé che questi confini sono semplicemente teorici, poiché l’organismo bioregionale della Terra è in verità un tutt’uno indivisibile.  Potremmo per analogia definire le bioregioni gli organi dell’organismo Terra.  

Nel significato originale della parola “ecologia”, rispetto alla sua consimile “ambientalismo” è già delineata una differenza d’intendimento, pur che l’esatta traduzione di “ecologia” è “studio dell’ambiente”. Mentre in “ambientalismo” si presume il criterio della semplice conservazione.  Allorché si aggiunge al termine “ecologia” l’aggettivo “profonda” ecco che si tende ad ampliarne il significato originario integrandovi il concetto di ulteriore ricerca all’interno della struttura ambientale. Insomma si va a scoprire il substrato e non si osserva solo la superficie, la pelle dell’ambiente.  Lo stesso dicasi per la parola spiritualità e la sua qualificazione “laica”. In questo caso si cerca di dare una connotazione “libera” alla spiritualità comunemente intesa come espressione della religione. La spiritualità è l’intelligenza/coscienza che pervade la vita, è il suo profumo e non è assolutamente un risultato della religione.  Questa spiritualità -o senso di presenza-  è un fatto, una realtà, e non può essere descritta in termini filosofici se non astraendoci dal contesto dell’ecologia stessa. La spiritualità laica quindi non è una base per esprimere le norme di una “nuova religione” con tanto di sacerdoti titolati all’interpretazione e con tanto di bibbia decisa a tavolino dai sapienti. Questa spiritualità  è  la consapevole pratica sincera ed onesta del condurre la nostra esistenza considerando che noi tutti siamo presenti in ogni aspetto del processo vitale e della coscienza che lo anima.  

L’ecologia profonda, il bioregionalismo, la spiritualità naturale (o laica) sono espressioni del vivere armonico, amorevole gentile e solidale sulla Terra. 


Paolo D'Arpini

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Rete Bioregionale Italiana - bioregionalismo@treia@gmail.com

martedì 27 febbraio 2018

Lorenzo Merlo: "Costume e populismo. Il movimento silente degli astensionisti"


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Dipinto di Franco Farina

Populismo ha un sinonimo. È superficialità.  
Ma ha anche una biografia, e questa è tutt’altro che superficiale, tutt’altro che priva di dignità, almeno pari a quella che chiediamo per noi stessi. Ed è qui che vale la pena di soffermarsi, affinché coloro che tacciano di populismo chi la pensa diversamente, possa trovare le sue responsabilità dell’attuale stato delle cose.

Tutto il mondo in quattro punti

L’operoso provincialismo urbano e l’ingenuità rurale, nel dopoguerra italiano si mescolarono in una umana ricetta di solidarietà che solo a pensarci ci si commuove. Quasi fossero consapevoli che l’individualismo riduce l’amore.

Con la pietanza del boom economico tutti si riempirono la pancia (senza troppi secondi sensi). I pastori sardi lavoravano in Fiat, le bambine siciliane andavano finalmente a scuola. Le donne lottavano. Gli studenti, con una chimica impossibile, fecero molecola con gli operai. Questi risalirono la corrente per arrivare all’origine di come stanno le cose e riuscirono a farsi riconoscere almeno una parte di dignità.

Il fervore comune era tale che c’era una colonna sonora sociale unica per tutti. Sentire oggi Il mio canto libero, La locomotiva o Crosby Stills Nash and Young è letteralmente essere là, in quel sentimento legante. Essere corpo unico verso qualcosa di imminente e di migliore.

La strategia della tensione, occulta e leviatana figlia di padre Stato e madre Nera, lasciò sul campo la gente comune e mancò di poco il suo obiettivo totalitaristico.
La protesta armata, che apparentemente non portò che a morti emanazioni dello Stato, non ebbe il seguito necessario per ricostruirsi una legittimità. Mise però in evidenza, per la prima volta, il vassallaggio italiano nei confronti della longa manus di servizi segreti italiani e stranieri. 

Chetate le acque si avviarono ragionamenti meno estremistici sebbene altrettanto illegali. Mi riferisco al finanziamento ai partiti, alla corruzione, all’evasione fiscale, alle mafie. 
L’importazione dell’edonismo reaganiano, esaltazione dell’individualismo, si propagò veloce come una miccia accesa verso le ideologie ancora apparentemente in salute della destra popolare e della sinistra, ma di fatto già minate. Per i politici, il ritrovo per l’happy hour era più sentito di quello in parlamento. Per molti i soldi erano facili e spenderli ostentatamente, uno status symbol da sbattere in faccia a chi stava indietro.

Tangentopoli rase al suolo la classe politica, ma come Attila fece terra bruciata. Sotto l’egida dello slogan, lo stato come un’azienda, nacquero governi, piani finanziari e politiche estere all’ombra del bungabunga e di promesse spettacolari, nei confronti delle quali la sinistra da tempo sterile, non aveva altro che freccette colpevolizzanti, di poco conto.

Si iniziava a percepire che ciò che stavamo diventando, le modalità storiche con le quali avevamo in passato trattato il prossimo e osservato il mondo stavano venendo meno.

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I piani mondialistici delle cricche capitalistico-finanziarie ebreo-americane stavano pilotando bene la loro motonave anche in acque italiane. Internazionalmente parlando per mantenere la rotta egemonica suggerivano ai governi le opzioni da preferire, creavano guerre, pilotavano la comunicazione. ()

I paladini del liberismo sotto la bandiera della globalizzazione, avanzavano convincendo molti che le alternative erano tutte peggiori. Lo tsunami che provocarono, annegò gli ultimi scogli delle nazioni, delle ideologie, delle economie locali, della solidarietà, del comunitarismo, delle province e di tutte le dinamiche relazionali tra queste dimensioni, nientemeno del tessuto con il quale ci vestivamo.

Avendo da anni delegato la politica – come tanto altro – a fare e pensare in nostra vece, abbiamo creduto alle promesse senza verifica alcuna. E con quelle ci siamo rivestiti. Abbiamo soprasseduto su un’Europa che, a pensarci bene, come per la democrazia, non è mai esistita, almeno per noi dell’ultima fila, così come ce l’avevano venduta.

A qualunque partito si fosse guardato con simpatia, nelle tasche dei bei vestiti nuovi, non trovammo più le nostre cose. Né la morale del Vangelo, né la mappa delle conquiste dei lavoratori, né la nostalgia. C’erano i video dei radical chic. Parlavano di tutto ma non più di quello che ci interessava. Dedicati ai più popolari diritti individuali, difendevano tutto e tutti, mentre le banche, il debito pubblico, la disoccupazione, gli articoli 18, le mazzette, le privatizzazioni, l’immigrazione fuori controllo, la malasanità, i cappi della burocrazia, le carceri piene, i delinquenti fuori, le pene in prescrizione potevano battere bandiera panamense e attraccare a banchine un tempo off-limits.

Non si occupavano del signoraggio bancario, del degrado sociale, della sudditanza militare, monetaria, nazionale, il progressismo lo esigeva, punto.

Lo iato tra chi comandava e chi lavorava era divenuto via via più radicale. La fiducia era bruciata e non servono metafore, né aggiunte per misurare quel tipo di disastro, tranne che chiamarlo delitto, lutto. Neppure le istituzioni godevano più della I maiuscola, se non per le partite dei partiti.

Così è stato fecondato il populismo. Movimento silente di astensionisti. In crescita costante dall’epoca della questione morale di Berlinguer. Erano gli anni ‘70. Saltato il tappo del barattolo delle ideologie, pompato da amminoacidi di consumismo, quel popolo si è moltiplicato senza avere un valore da seguire, facile preda di emozioni. Ora spesso si raduna ancora, ma non in piazza e contro qualcosa, preferisce i centri commerciali, pensa per sé.

Razzismi e pensieri di governi forti occupano sempre più le menti di quegli orfani in cerca di famiglia. Qualcuno l’ha trovata. Osservando che le discendenze di destra e sinistra sono incredibilmente salite sulla medesima scialuppa e dialogano su come riprendere terra, ha deciso di essere del gruppo.

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Tracce del nuovo paradigma

Ma nella contrazione generale che tutto ha coinvolto, c’è uno spazio che si espande e respira sotto le macerie della post-modernità. È una vena sottotraccia che non ha ancora il linguaggio idoneo per uscire e pubblicarsi, ma lo troverà. Si tratta delle voci di coloro che in tutto questo decorso, che alcuni non esitano a chiamare catastrofico, riconoscono la presenza satanica di un comune genitore, il materialismo tout court. Con i suoi figli, il positivismo, il capitalismo, lo scientismo, l’imperialismo; con i suoi nipoti, l’opulenza, il culto della personalità e quello del denaro; con i suoi dogmi, per il progresso ad infinitum, per la tecnologia, per il tempo lineare, per l’apparire, forma una famiglia piuttosto invadente e pesante, che oscura e mortifica l’intelligenza del cuore, la bellezza di ognuno, il senso del bene comune, l’equilibrio individuale e sociale. 

Nel tempo lineare il presente si allontana da noi e va verso il passato. Intanto ci sentiamo procedere verso il futuro, candidi e indenni nei confronti di ciò che abbiamo fatto. Al contrario, al bene comune corrisponde il tempo circolare. In esso ogni azione o sentimento è lì a ripresentarsi nel suo valore maligno o benigno, tanto a noi stessi, quanto ad altri noi. La sua frequenza o il suo raggio è relativo alla nostra condizione, al nostro sentimento. Esattamente  come varia l’intensità del dolore in funzione della sua accettazione — leggi assunzione di responsabilità di quanto l’ha causato — o rifiuto — leggi, assegnazione di responsabilità —. Un argomento che, in termini toltechi, riguarda il dominio del tempo. Più a oriente di chiama accettazione, perdono tra i cristiani.

Quelle voci appartengono a uomini e donne mute, antesignane dell’astensionismo. Da molto non hanno rappresentanza.  Ognuno a loro modo opera per estendere quello spazio occulto affinché divenga forza comune. Parlano con circospezione di spiritualità, sanno che può essere facilmente fraintesa. Evitano di citare che stanno solo cavalcando le vie già tracciate dai Maya, dai Toltechi, dagli Egizi, dal Buddhismo, dalla Kabbalah e da altre tradizioni tra cui il Cristianesimo, quello vero non quello posticcio, populista, superficiale appunto che la religione ci ha fatto conoscere. Sanno che per qualcuno, siccome non si può toccare, siccome la scienza dice che non c’è, non esiste, non è misurabile, è un tabù, meglio non toccarlo. Siccome non lo dice il metodo, né la regola, non va bene. Sanno che sono quelli che risolvono la questione accusando di ciarlatanismo a destra e a manca. Lo fanno serenamente, hanno tutta la loro famiglia culturale a proteggerli. Eppure, come con le diete seguite per colpa di pressioni culturali, dove, indipendentemente dai risultati, non impari nulla su te stesso, anche il metodo, che ci addestra a risposte predefinite, non permette di maneggiare la materia dei nostri limiti . Non contiene alcuna maieutica per scoprire come spostarli più in là, come evolvere. 

Sanno anche di essere al cospetto di un lento, inesorabile switch storico prodotto del cambio di frequenze energetiche dell’universo, che implica cambi di paradigma al quale l’uomo non potrà sottrarsi. Sanno che siamo ad una concezione provincialista del cosmo e si adoperano per ampliarne il campo. Sanno e sentono che è in atto un passo evolutivo verso una convivialità nuova. L’avvento della fisica quantistica ne è un segno, sebbene il peso sociale avrà bisogno di tempo per compiersi.

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Eppure, spiritualità ha un senso elementare. Significa essere nel qui ed ora. Una specie di formula alchemica spesso impropriamente declamata. Essere su pezzo, per dirla con modalità giornalistiche o psicologiche; essere identificati con quanto stiamo facendo, annullare il tempo, divenire eternità. Essere quindi creativi e forti al meglio delle nostre potenzialità. Ma il contenuto della dimensione spirituale lo si riconosce anche con un sinonimo adatto a questi tempi: benessere fisico e interiore. 

È un senso che, come qualunque altra dote, va coltivato ed è allenabile. Come ogni percorso ha la sua durata, le sue difficoltà, le sue ricadute. Arrivati in vetta, se ne vedono altre, altrettanto lontane e impegnative. Tuttavia si capisce che il mondo è sempre quello, eppure è diverso. Come nella fisica quantistica, ma l’avevano detto le Tradizioni da migliaia di anni, a secondo dell’interlocutore le particelle possono avere carattere ondulatorio o materico. Una magia, per chi non c’arriva, dalla quale è doveroso guardarsi. Una banalità per chi l’ha ricreata, dalla quale non può più prescindere. Perché quelle scoperte non riguardano solo i laboratori dell’infinitamente piccolo. Riguardano quello che pensiamo, che facciamo, che sentiamo.

Se prima credevamo che le cose fossero separate, se prima potevamo usare la forza, forse anche la semplice intelligenza dialettica per sopraffare il prossimo, ora, dalla cima, le cose appaiono nella loro contiguità, gli altri sono dei noi a tutti gli effetti, prendiamo coscienza che pensare e fare del male al prossimo sia esattamente farlo a noi. Prendiamo coscienza che siamo totalmente i responsabili della realtà individuale e sociale che viviamo. Siamo consapevoli che senza il nostro lavoro, non potremo lasciare alle future generazioni qualcosa di meglio di quanto abbiamo finora realizzato. Siamo ora capaci di affermare che la politica dello scontro, quella delle opposte fazioni, della negazione del rispetto, perpetuerà la storia così come la conosciamo. Di conseguenza lavoriamo per andare oltre il dualismo dello scontro, per realizzare la realtà attraverso il modo della relazione. Non più oggettiva, ma relativa a me. È tempo per riconoscere che quanto ci appare ovvio e vero non è che l’appiattimento del nostro genio nei confronti delle descrizione della realtà che abbiamo appreso dai genitori, dall’ambito di nascita e infanzia. Tanta altra ce n’è, se vogliamo.

Ci sono due livelli di consapevolezza. Uno, nel quale è come se ci si avvedesse di qualcosa che era sempre stato lì e che mai avevamo notato. Questo livello è il più diffuso, lo si potrebbe chiamare intellettuale. Siccome permette all’ego una certa soddisfazione, facilmente ci si ferma lì, come se quanto c’era da fare fosse stato fatto.

L’altro potrebbe essere chiamato livello d’incarnazione. Oltre a quanto già dicano le parole utilizzate per nominarli, la differenza tra i due è ulteriormente semplice. La consapevolezza intellettuale corrisponde a un sapere che prima non avevamo. Come tutti i saperi riguarda la sfera dell’io. In sostanza è un avere. La consapevolezza intellettuale è però già un passo. Ci strappa dall’ottusità dell’ego e ci permette di vedere noi stessi al pari degli altri. Permette di riconoscere quale morale strumentalmente utilizziamo a nostro vantaggio per erigerci sopra gli altri. 

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La consapevolezza incarnata riguarda invece la sfera dell’essere. Con l’avere noi maneggiamo quel nuovo dispositivo nelle relazioni, affinché l’io se ne giovi. In sostanza è una questione di autostima. Con l’essere non abbiamo più bisogno di mostrare quella consapevolezza come fosse qualcosa di prioritario, da esprimere e trasferire ad altri. Essa uscirà dal nostro fare non dal nostro dire. Non godrà di nessuna nostra difesa. Non è un’allusione a divenire concorrenti di Madre Teresa di Calcutta che probabilmente non avrebbe saputo scrivere un saggio sulla consapevolezza in quanto era e non aveva. È invece una considerazione sostenuta dall’idea che tutti noi abbiamo  il nostro gradiente specifico a disposizione per essere incrementato. 

Una vorrà convincere, scuotere gli altri. L’altra lancerà reti senza pretese di pesca. Tuttavia ogni tanto qualcuno resterà tra le maglie. Se vorranno li lascerà andare. Non eserciterà su loro alcun potere, se non maieutico al loro percorso evolutivo. Non vuole imporre il proprio ordine al prossimo. Ma non si tratta di una scelta razionale, né un’imposizione etica o razionale. È piuttosto un comportamento d’ordine estetico, sentimentale. Ovvero non si risente quando al cospetto di affermazioni a lui opposte. Non c’è più quel lui. È stato sostituito dall’accettazione, è stato svuotato d’orgoglio, una specie d’invulnerabilità.

Ovvero, restando soddisfatti del livello intellettuale non si cambia nulla, al massimo di fa moda. Con la seconda consapevolezza non c’è niente da cambiare perché si è già cambiato tutto. Per-mutare dalla prima alla seconda serve un pieno di umiltà, un cambio di abitudini. È qui il percorso nel quale immettersi. Così l’egoica pretesa di affermazione del verbo e l’emozione del vanto dialettico possono cessare, lasciando il campo all’amore. 

Tutti gli scientisti, ovvero, per cultura, tutti noi che ci affidiamo alla formula scientificamente provato o non provato per ritenerci dalla parte della verità abbiamo ora il necessario per comprendere che si erano felicemente appiattiti, su una cultura infarcita di superstizioni alle quali avevamo dato valore assoluto, con le quali avevamo abdicato a noi stessi. Il razionalismo, il materialismo, l’oggettività, la fisica meccanicista ne sono state le orbite formali di forte magnetismo, sulle quali abbiamo esplorato il poco cosmo che possono permettersi. 

Ma ora, che anche la fisica, nel suo step quantistico ha raggiunto le prospettive che necessariamente relegano la scienza classica a dato minore e niente più che autoreferenziale, ora che è stato dimostrato che averla creduta assoluta risulta quantomeno inopportuno, anche i signori scientisti, per restare fedeli al culto della scienza, dovrebbero avvedersi e rivedersi.

Fu impugnando la torcia dei lumi che si credette di poter ridurre la vita a sola materia. Socialmente parlando fu facile trasferire quelle convinzioni e reificare via via ogni cosa. 
Tutto ruotò e ancora ruota intorno al perno dell’economia. Niente ha finora potuto godere di più attenzioni di quanto non ne siano state date al Pil, alla produttività, al denaro. E se quello era il perno, sotto al giogo a tirare la pietra della macina eravamo, tutti noi. Ridurre tutto a economia è una specie di blasfemia nei confronti della vita. In quel miserabile piano di lettura noi, famiglia, società sono soltanto soggetti economici, definiti con le stesse parole utilizzate per le merci. Nel deserto di vetro e acciaio della mente economica non v’è traccia di relazioni umane, del loro valore sostanziale.

Il presuntuoso predominio sulla natura e su tutti gli esseri senzienti è una superstizione che sta culturalmente barcollando, come dopo Copernico, che aveva fatto notare che la Terra non era al centro dell’universo, l’uomo non è al centro di niente se non del proprio ego. 
Fu così che la natura, gli animali, la terra, l’ambiente, i loro cicli, furono messi da parte insieme alla conoscenza sottile proveniente da tutte le geografie del mondo e delle epoche passate. In grama alternativa, considerati alla stregua di una proprietà privata o di cose di poco conto. Quel modo si è impadronito della nostra sensibilità. È rimasto legittimo per tanto e per troppo ma ora che ci si sta risvegliando, si chiama sfruttamento o arroganza. Ora è chiaro che stiamo tagliando il ramo sul quale siamo seduti.

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C’è ancora chi continua a tagliare, a tirare dritto verso il baratro. Non vede che le sue verità, che voler raggiungere la verità alimenta esattamente ciò che andrebbe smorzato: l’implicita lotta, per difenderle, al momento giusto diviene fondamentalismo. Un concentrato sulla propria affermazione che non guarda allo strazio che provocherà. A quel tipo di uomo interessa solo il successo di ciò in cui si identifica. 
È costituito anche da queste cose il paradigma capillare di cui è piena la nostra fisiologia. È anche in queste cose che possiamo riconoscere l’esigenza e le modalità su come andare oltre, su come liberarcene, su come non perpetrarlo e perpetuarlo. È nelle nostre potenzialità realizzare altro, esattamente così come abbiamo realizzato queste.

Ai tempi nostri, tanto la destra popolare che la sinistra popolare non hanno mai preso le distanze da quel materialismo, dal capitalismo. Non ne hanno mai vista la disumanità. Non hanno mai fatto caso che su quella via uccidevano tutta l’intelligenza del sentire, tutta la capacità di creare. A testa alta, le loro scelte tenute su dal valore economico, hanno distrutto coste, valli e paesaggi. 

Diversamente ha sempre detto e fatto la cultura spirituale della destra tradizionale, da sempre anticapitalista. Le sue altre espressioni, quali il razzismo e il nativismo, il paganesimo modulate con maturità, non sono altro che l’attuale localismo, bioregionalismo, decrescita e recupero della sacralità della natura. Aspetti e dimensioni della realtà, dell’individuo, della socialità che ora stanno emergendo nelle coscienze di tutti.
Significa che molte idee prima espressioni di un colore ora sono espressioni d’intelligenza e quello considerate. Significa cioè una liberazione da preconcetti e tanto altro. C’è di mezzo un’ecologia della mente, senza la quale  convinzioni e dogmi continueranno a intossicarci, a ucciderci vicendevolmente e da soli.

Oggi siamo avveduti delle carte che abbiamo in mano. Non vogliamo più giocarle dietro consiglio di qualcuno o di qualcosa d’altro che non sia il nostro sentire. Non vogliamo più creare società, uomini dominati dalla paura che li obbliga ad anelare sicurezza, che gli impedisce di volare, che gli castra l’atteggiamento creativo, la sua potenza più infinita. Né individui e società alienate, psicopatiche, per le quali è ordinario e comprensibile lo sfogo della violenza sugli altri e su sé. Il progresso ci ha messo all’angolo di noi stessi. Ci ha comprato come con gli specchietti comprava i nativi e i colonizzati. È bastato un benefit o un mutuo per la tv al plasma. Ci ha devastato lo spirito creativo. 
È tempo di riprenderlo.

Lorenzo Merlo - xex@victoryproject.net

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Riferimenti Bibliografici 

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– Rudolf Steiner - L’iniziazione - Editrice Antroposofica, Milano 1977
– George Robert Stow Mead - La dottrina del corpo sottile nella tradizione occidentale - Ghibli, Milano 2015
– Heinz von Foerster - La verità è l’invenzione di un bugiardo - Meltemi, Roma 2001
– Heinz von Foerster - Sistemi che osservano - Astrolabio, Roma 1987
– Heinz von Foerster - Come ci si inventa - Odradek, Roma 2001
– Heinz von Foerster - Attraverso gli occhi dell’altro - Guerini e Associati, Milano 1996
– Muhammad Yunus - Il banchiere dei poveri - Feltrinelli, Milano 2010
– Max Weber - L’etica protestante e lo spirito del capitalismo - Sansoni, Firenze 1984
– John Zerzan - Pensare primitivo - Bepress, Lecce 2010
– John Zerzan - Primitivo attuale - Stampa Alternativa, Viterbo 2003
– Gary Zukav - La danza dei maestri Wu Li - Corbaccio, Milano 1995

lunedì 26 febbraio 2018

Mario Ori: "Bioregionalismo e agricoltura contadina"


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Le campagne elettorali permettono anche di incontrare o reincontrare persone e temi che nel tempo si finisce, per le vicende della vita, col trascurare. A me è capitato di partecipare, ad inizio campagna, ad un incontro (molto informale e molto “umano”) tra persone a vario modo interessate alla salvaguardia bioregionale ed al rilancio della “agricoltura contadina”.


Nella nostra società ipertecnologica, industrializzata e mercificata ormai in ogni suo aspetto, parlare di “agricoltura contadina” può sorprendere. Ci sarà chi pensa sia un residuo del passato, o una situazione tipica dei paesi “sottosviluppati”; ci sarà chi pensa sia un vezzo da radical-chic. Sicuramente per molti è un qualcosa di folkloristico, di residuale, di testimoniale…

Anche le anime tradizionali della sinistra non hanno mai avuto un buon rapporto con questa idea della vita e della agricoltura: la tradizione socialista e comunista la ha sempre considerata un residuo precapitalista da eliminare per poter poi procedere anche nelle campagne al superamento del capitalismo; la tradizione ecologista la ha a volte mitizzata (rendendola di fatto una icona tanto graziosa quanto inutile), a volte sfruttata a fini di conservazione (nel senso più gretto del termine) della “natura”, trasformandola in un ghetto assai poco appetibile per i giovani, e ancora altre volte purtroppo la ha solo cavalcata a fini propagandistici.

Ciò ha impedito di valutarne sino in fondo le potenzialità. Particolarmente interessanti per chi vive in un’area densamente industrializzata ed inquinata, in una società sempre più disgregata e debole sotto il profilo della socialità. 

L’agricoltura contadina infatti non è un relitto del passato, un misto di paganesimo e miseria. L’agricoltura contadina è un approccio con la vita e con la società profondamente diverso da quello legato al paradigma capitalista: è una forma di attività umana che dà primato al soddisfacimento diretto dei bisogni umani - nel pieno rispetto delle esigenze della biosfera; è una forma di produzione che cerca il miglior equilibrio ecologico dell’ambiente antropizzato, massimizzando non il profitto ma il prodotto netto. È, per dirla con un concetto semplice, una concezione dell’attività umana basata sulla sostenibilità e sulla durevolezza e non sulla rapina del presente.
Certo, se viene relegata ad un ruolo testimoniale, museale, non può che presentarsi o come strategia di sopravvivenza per soggetti marginalizzati, più o meno profondamente esclusi dalla “società civile”, o per altri versi come vezzo, passatempo e fornitore di prodotti di nicchia per ricchi (la versione “ecological chic” dello sfruttamento di classe). Occorre invece valorizzarne a fondo le potenzialità di salvaguardia, conservazione e sviluppo della biodiversità degli esseri e degli ambienti, nonché dell’ambiente culturale, facendone a tutti gli effetti parte piena della società. 

L’agricoltura contadina è un approccio sapiente e rispettoso alla attività agricola, al territorio non urbanizzato (ma si potrebbe e dovrebbe applicare anche al territorio urbanizzato!), basato non sul mero mantenimento quanto sullo sviluppo dei saperi tradizionali, del corretto rapporto con i cicli biologici, geologici, ecologici in genere. È inoltre recupero e sviluppo di una socialità immediata che il mondo attuale sta perdendo. Per ottenere ciò, perché essa sia anche attrattiva per i giovani, occorre che il ruolo economico, sociale, culturale della agricoltura contadina sia fino in fondo riconosciuto, e che chi vi si dedica abbia fattualmente gli stessi diritti e l’accesso agli stessi servizi di qualunque altro cittadino.

Devo ammettere che pure se di formazione agraria avevo da qualche anno un po’ abbandonato lo studio di queste tematiche. Mi ha dunque fatto molto piacere, grazie all’invito degli amici di cui sopra, riprendere il filo di una analisi, che dovremo recuperare collettivamente. Perché l’approccio della agricoltura contadina possa uscire dalla dicotomia sopra delineata, e grazie a forme di sostegno, di valorizzazione, e soprattutto di interrelazione sociale, possa fornire il proprio contributo. 

Da non sottovalutare anche sotto il profilo del “prodotto sociale” costituito da un mantenimento attivo del territorio (con prevenzione di molte calamità e conseguente riduzione dei costi di ripristino) e dalla disponibilità di prodotti più sani di quelli della agricoltura industriale, a costi sostenibili per la grande maggioranza.

Ecco perché personalmente, e credo con me tutto Potere al Popolo, assumo l’impegno di continuare ed approfondire il confronto con la Campagna per l’Agricoltura Contadina, a partire dal lavoro per giungere ad una legge quadro che ne definisca i contorni ed il ruolo, e le consenta di dare al Paese ed al mondo il contributo che è in grado di dare. Tutt’altro che marginale, oltretutto.


Mario Ori


Candidato al Senato  di "Potere al Popolo" nel collegio uninominale n. 5 (Modena)



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domenica 25 febbraio 2018

La Regione Liguria inciampa sulle norme di tutela dell'ambiente e degli animali selvatici


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Il Consiglio dei Ministri nella seduta del 22 febbraio 2018 ha deliberato di impugnare presso la Corte Costituzionale alcuni articoli, in materia di ambiente e fauna selvatica, contenuti nella legge regionale della Liguria n. 29/2017 (cosiddetto “Collegato alla legge di stabilità 2018”); si tratta una sorta di provvedimento legislativo “calderone”, ormai consuetudine di fine anno del Consiglio regionale ligure, che raggruppa molte disposizioni su diversissime materie.

Il Consiglio Regionale della Liguria inciampa clamorosamente, in particolare, su tre articoli; infatti i ministeri interessati hanno ritenuto le seguenti norme, tra quelle approvate dal Consiglio, in netto contrasto con la normativa statale del settore:

1) È reato commercializzare in sagre e manifestazioni gastronomiche la selvaggina abbattuta a caccia (ossia quella non proveniente da allevamenti), e pertanto la Regione non può aggirare (come ha fatto a fine 2017) tale divieto consentendo comportamenti che in tutta Italia sono penalmente sanzionati; le norme nazionali mirano infatti ad evitare che fenomeni di lucro contribuiscano ad impoverire il patrimonio faunistico, anche per esemplari morti appartenenti a specie cacciabiili.

2) Per il controllo faunistico nei periodi e nelle zone di divieto di caccia la Regione non può avvalersi di cacciatori privati a qualunque titolo, dato che tale funzione è competenza esclusiva degli agenti pubblici di vigilanza venatoria; peraltro la Corte Costituzionale aveva già censurato la Regione Liguria (così come Veneto e Friuli) lo scorso giugno per una disposizione assai simile; del resto la Regione Liguria aveva colpevolmente scelto di assorbire (nel gennaio 207) solo 20 su complessivi 80 degli ex agenti di polizia provinciale, col disastroso risultato di picconare la vigilanza nel territorio rurale; inutili pertanto le finte lamentele dell’assessore regionale Mai, che da tempo rifiuta ogni critica e suggerimento sulla necessità di rispettare i principi quadro statali sull’argomento.

3) La Regione Liguria ha tentato di sostituire le prescritte autorizzazioni idrauliche, concernenti una serie di interventi in alveo (inclusa la movimentazione di materiale litoide o la manutenzione di manufatti) da parte di soggetti privati e pubblici, con una mera comunicazione alla Regione stessa entro 30 giorni prima dalla data di inizio dell’attività; ciò appare in contrasto con le disposizioni nazionali (testo unico sulle opere idrauliche) in materia autorizzativa per tali attività.

Carlo Consiglio 

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Carlo Consiglio e Paolo D'Arpini

Bioregionalisti in difesa dei boschi italiani - Documento di European Consumers

Il Decreto Legislativo relativo al Testo Unico Forestale approvato dal Consiglio dei Ministri il 1 dicembre 2017 è un assalto ai boschi italiani.   Il documento che segue, inviato a tutti i politici,  redatto dall'Associazione European Consumers, compartecipe della Rete Bioregionale Italiana, si prefigge l'obiettivo di supportare i destinatari nell'adeguata conoscenza delle criticità e delle gravi conseguenze del provvedimento emanato dal governo...

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All'Onorevole Presidente della Repubblica

All'Onorevole Presidente del Consiglio

Agli Onorevoli Ministri Agli Onorevoli Parlamentari Deputati e Senatori

Agli Onorevoli Presidenti delle Commissioni e Sottocommissioni Parlamentari

Agli Illustrissimi Presidenti delle Regioni italiane

All'Illustrissima Associazione Nazionale dei Comuni Italiani – ANCI

Agli Illustrissimi Sindaci dei Comuni Italiani



OSSERVAZIONI NUOVA LEGGE FORESTALE


Questo documento si prefigge l'obiettivo di supportare i destinatari nell'adeguata conoscenza delle criticità e delle gravi conseguenze del provvedimento emanando.



Si sottolinea l'opportunità di affrontare l'argomento sulla base di dati scientifici, senza contrapposizioni ideologiche ispirate dalla campagna politica in atto, in quanto proprio sulla base di informazioni e dati disponibili, non risulta che in Italia vi sia una situazione di emergenza tale da richiedere l'adozione di tale provvedimento, le cui misure adottate risultano irragionevoli ad effetto permanente e dalle gravissime ripercussioni ambientali e climatiche, oltre che non economicamente sinergiche e produttive per il Paese.

E' necessario affrontare con consapevolezza il tema, alquanto importante e di GRAVE impatto, così come lo si legge nel Decreto legislativo che riguarda le “Disposizioni concernenti la revisione e l’armonizzazione della normativa nazionale in materia di foreste e filiere forestali”, in attuazione del “Collegato agricolo”, secondo la delega ricevuta dal Parlamento nel settembre 2016.

La delega appare del tutto disgiunta, nonostante i preamboli, da un contesto di protezione della biodiversità, di percezione degli ecosistemi forestali come fornitori di servizi ecosistemici e non soltanto di economia diretta.

Si tratta di un provvedimento che rasenta l'incostituzionalità e che potrebbe arrecare gravi danni ai boschi italiani sul piano ecologico, paesaggistico ed economico, grazie alla visione miope di come dovrebbe essere impostato il rilancio dell’occupazione nelle aree interne del Paese.

Non vi è sufficiente richiamo alle convenzioni di protezione della biodiversità, delle specie protette e in via di estinzione a livello regionale e nazionale, dei suoli, della complessità strutturale.

La stessa direttiva 92/43/CEE “Habitat” è appena citata rimandando a “piani di coordinamento territoriali” e non alla protezione integrale del patrimonio rappresentato in “toto” dalle specie e dagli habitat protetti dalla Rete Natura 2000. Nemmeno vi sono riferimenti diretti alla Direttiva 2009/147/CE Uccelli, alla Convenzione di Rio de Janeiro sulla Diversità Biologica (CBD), alla Strategia Nazionale per la Biodiversità. Le norme di protezione dovrebbero essere prioritarie in particolare nella gestione della vegetazione forestale indigena naturale e spontanea che dovrebbe essere favorita sempre, ovunque e comunque. Il bosco non è riconosciuto nel suo valore naturale, ma solo come potenziale patrimonio economico.

Il Decreto è sbilanciato verso la promozione e sostegno delle attività produttive ed imprenditoriali in campo forestale non disciplinate in relazione ai loro potenziali impatti ecologici. Non vi è un indirizzo efficace per orientare la gestione e le tecniche silvocolturali con l’obiettivo di ridurre al minimo gli impatti ecologici e evitare il danneggiamento dei servizi ecosistemici. Si ricorda che tagli rasi e ceduazioni sono, insieme agli incendi, causa principale del degrado degli ecosistemi forestali, favoriscono l’erosione, riducono la diversità strutturale e la disponibilità di nicchie ecologiche per le specie animali. Questa evidenza non è minimamente presa in considerazione.

L’art. 2 (Finalità), al c. 1, lett. c) spiega in modo esplicito che le finalità del decreto sono finalizzate a: “promuovere e tutelare l'economia forestale, l'economia montana e le rispettive filiere produttive nonché lo sviluppo delle attività agro-silvo-pastorali attraverso la protezione e il razionale utilizzo del suolo e il recupero produttivo delle proprietà fondiarie frammentate e dei terreni incolti o abbandonati, sostenendo lo sviluppo di forme di gestione associata delle proprietà forestali pubbliche e private”.

Nel decreto manca un riferimento alla zonizzazione del patrimonio forestale e a una distinzione tra boschi da destinare alla produzione, boschi degradati, che devono essere oggetto di restauro, e boschi che devono restare tal quali per ragioni ecologiche, paesaggistiche, culturali per i quali non devono essere previste operazioni di taglio se non in circostanze eccezionali.

Il successivo art. 3 Sotto appare totalmente in contrasto con sani principi scientifico-ecologici, equiparando in una stessa definizione i terreni destinati (da riflettere sul termine) a foresta che abbiano “superato il turno” con i terreni agricoli in cui non è più stata esercitata attività.

Il c. 2, lett. g) definisce, infatti, i terreni abbandonati o incolti: “fatto salvo quanto previsto dalle normative regionali vigenti, i terreni destinati a foresta, nei quali i boschi cedui hanno superato, senza interventi selvicolturali, almeno della metà il turno minimo fissato dalle norme forestali regionali, ed i boschi d’alto fusto in cui siano stati attuati interventi di sfollo o diradamento negli ultimi 20 anni, nonché i terreni agricoli sui quali non sia stata esercitata l’attività agricola da almeno 3 anni, in base ai principi e alle definizioni di cui al regolamento (UE) n. 1307/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 dicembre 2013 e relative disposizioni nazionali di attuazione, ad esclusione dei terreni sottoposti ai vincoli di destinazione d'uso”.

I boschi naturali sono ecosistemi spontanei che, in assenza di attività selvicolturali, evolvono in modo autonomo aumentando i servizi ecosistemici associati (qualità delle acque, conservazione del suolo e difesa dal dissesto, habitat per la fauna selvatica). I terreni agricoli sono ambienti artificiali che richiedono un apporto di energia per rimanere tali. Tale assurda confusione sulla gestione del territorio e sulla biodiversità e le funzioni degli ecosistemi può avere gravissime conseguenze oltre ad essere indizio di scarsa conoscenza del concetto di “sostenibilità” ed “ecocompatibilità” da parte degli estensori.

Il c. 2, alla lett. a) dell’art. 5 esclude dalla definizione di bosco anche “le formazioni di specie arboree, associate o meno a quelle arbustive, originate da processi naturali o artificiali e insediate su superfici di qualsiasi natura e destinazione anche a seguito di abbandono colturale o di preesistenti attività agrosilvopastorali riconosciute meritevoli di tutela e ripristino dal piano paesaggistico regionale …”. Ignorando le leggi a protezione di questi importantissimi ambiti ecotonali che spesso innalzano, più che diminuire, il valore estetico di questi per niente definiti “paesaggi storici”.

Neanche si rendono obbligatori seri studi pedologici e geomorfologici per poter orientare l’eventuale scelta tra “conservazione” e “gestione”, con particolare riferimento allo stato del suolo e all’erosione. Con l’approvazione di questa legge 147.568 ha di bosco (castagneto da frutto, dati INFC) vengono addirittura declassati a “non bosco” (art. 3 e 5) con la massima riduzione delle garanzie di eventuale protezione.

In tutto il nuovo Codice Forestale, nessun articolo fa riferimento ai boschi da proteggere come tali, mentre ricorre costantemente il richiamo alla “gestione attiva” oggetto principale dell’art. 6 (Programmazione e pianificazione forestale).

La “gestione attiva” cui si fa riferimento nel testo coincide con i tagli forestali senza considerare azioni mirate alla naturale e libera evoluzione del bosco verso forme complesse capaci di garantire la conservazione della biodiversità e la massima efficienza dei servizi ecosistemici. Si lascia, altresì, alle Regioni la possibilità di applicare la “gestione attiva” anche nelle aree protette (art. 7).

La “gestione attiva” viene percepita quale antidoto all’abbandono senza distinguere tra aree di conservazione, esercizio delle attività selvicolturali, aree degradate. Questa visione semplicistica può solo causare nuovi guasti ambientali e aprire l’illogica supremazia dell’economia sull’ecologia su temi così strettamente biosferici. Si mina la conservazione del Capitale Naturale italiano, si ignorano le funzioni delle foreste nella mitigazione dei cambiamenti climatici, lotta all'effetto serra, stoccaggio del carbonio; difesa del suolo e delle acque.

Il Decreto nella sua attuale stesura contravviene agli obiettivi della Convenzione sulla Biodiversità delle Nazioni Unite (1992)1. Va a tal proposito segnalato che l’attuazione di programmi di rewilding è auspicata dalla UE che, per altro, supporta tali azioni con specifici finanziamenti della Banca Europea degli Investimenti nell’ambito delle strategie comunitarie a sostegno del Capitale Naturale2. La mancata considerazione per gli aspetti positivi dell’abbandono dal punto di vista della qualità ecologica e dei servizi ecosistemici non è minimamente presa in considerazione dal decreto.

Altri punti rappresentano addirittura una diretta aggressione al patrimonio paesaggistico in spregio oltre che della Costituzione anche di convenzioni internazionali.

Il comma 2 dell’art. 3 inserisce i castagneti da frutto nell’arboricoltura da legno (impianti di legnose reversibili a turno breve). I castagneti si caratterizzano per un lunghissimo ciclo di vita degli alberi e rappresentano un paesaggio tradizionale unico e andrebbero trattati a parte. Sempre secondo il comma 2, tutti boschi di neoformazione, insediatisi su terreni ex-agricoli, siccome non rientrano nella categoria dei boschi, potrebbero essere disboscati, nonostante il loro grande valore nella creazione di reti ecologiche efficienti.

Nell’art. 4 i castagneti sono assimilati al bosco e nel comma II dell’art. 3 rientrano quindi gli impianti di castagno su terreni agrari in una logica di arboricoltura da legno e non da frutto. Entrano a far parte di arboricoltura da legno tartufaie e noccioleti (che non producono legna) che possono anche essere “oggetto di ripristino colturale”.


Anche per il comma 1 l’Art. 5 “Aree escluse dalla definizione di bosco” i castagneti da frutto sono esclusi dal bosco per altro in contrasto con la classificazione adottata dalla FAO per il “Forest Resources Assessment”3. Questo faciliterà il cambio di destinazione d’uso, che adesso è di difficile autorizzazione proprio perché il castagneto è considerato bosco.
Il comma 8 dell’art. 7 stabilisce che le regioni e le province autonome, coerentemente con quanto previsto dalla Strategia forestale dell'Unione europea, possono promuovere sistemi di pagamento dei servizi ecosistemici (PSE) generati dalle attività di gestione forestale sostenibile e dall'assunzione di specifici impegni silvoambientali informando e sostenendo i proprietari, i gestori e i beneficiari dei servizi nella definizione, nel monitoraggio e nel controllo degli accordi contrattuali.

Il comma 9 fissa i principi e criteri generali nel cui rispetto deve avvenire. Ma nella presente versione di Decreto legislativo l’interpretazione che emerge propone l’avvio di sostegno economico a filiere produttive, piuttosto che l’utilizzo di risorse pubbliche per azioni di tutela e ripristino dell’ambiente nell’interesse della collettività come previsto dalla Costituzione (articolo 117 lettera s). Un corretto utilizzo dei PES dovrebbe comprendere anche il restauro degli ecosistemi forestali e dei relativi servizi ecosistemici e avviare forme di sostegno a presidio del territorio e delle produzioni sostenibili locali.

Il comma 10 favorisce qualunque tipo di utilizzazione forestale purché si abbia rinnovazione ignorando gli stessi concetti scientifici alla base del principio di sostenibilità delle attività antropiche del comparto forestale.

Secondo l’articolo 8 risulta che un bosco naturale può essere eliminato purché sia “compensato” con un’altra opera che non deve essere necessariamente vicina fisicamente e potrebbe anche non essere un rimboschimento. La compensazione potrebbe addirittura risolversi nel semplice versamento di “una quota corrispondente all’importo presunto dell’intervento compensativo previsto” in un fondo forestale regionale. Questo articolo è studiato per ridurre, anziché aumentare, il patrimonio forestale nazionale.

L'articolo 12 favorisce addirittura gli interventi nei “terreni silenti”, ovvero non gestiti, che dovrebbero essere invece lasciati ove possibile alla libera evoluzione. Si offre opportunità a regioni e provincie di affidare queste aree abbandonate a privati invece di abbandonarle alla natura.

Manca nella legge una prospettiva di indirizzo tecnico-scientifico per indirizzare la gestione forestale verso forme ecosostenibili. Potrebbero essere addirittura finanziate pratiche selvicolturali, come cedui e tagli rasi, che causano il degrado degli ecosistemi forestali, dei suoli e della biodiversità. Non vi è alcuna visione sinergica, olistica e multidisciplinare, ma un orientamento verso interventi basati su una logica antropocentrica del tutto disgiunta da una seria analisi scientifica su basi ecologiche del tutto trascurata o comunque demandata a interessi locali di Comuni e Regioni e spesso transnazionali delle grandi multinazionali del legname e dei pellets.

La legge forestale del Piemonte: una perfetta applicazione delle nuove regole


All’avanguardia rispetto alla nuova normativa nazionale la regione Piemonte ha già aggredito violentemente la gestione sostenibile delle foreste riducendo del 50% la superficie a bosco della regione. Con la legge regionale 12 agosto 2013 una serie di superfici boschive perdono lo status di bosco, perdendo anche la tutela riservata ai boschi dai piani comunitari e dai trattati sulla gestione sostenibile delle foreste e sul controllo delle emissioni di anidride carbonica. Questa legge è perfettamente in linea con le nuove direttive nazionali.

Secondo la legge regionale sono stati esclusi dalla definizione di bosco "i terrazzamenti e i nuclei abitativi abbandonati e rimboschiti da decenni, i rimboschimenti eseguiti con i fondi della PAC (Politica Agricola Comunitaria), le aree comprese nel paesaggio agrario e pastorale di interesse storico".

La regione Piemonte ritiene quindi disboscabili tutti i terrazzamenti naturalmente imboschiti, anche se efficienti per stabilizzare versanti e proteggere il territorio dall'azione erosiva dell'acqua. Si ritiene possibile abbattere i boschi cresciuti nel corso di secoli, nelle aree edificate e poi abbandonate, non definendo cosa diventeranno.

Manca una definizione per le "aree comprese nel paesaggio agrario e pastorale di interesse storico" e non esiste alcun censimento che stabilisca quali siano queste aree. Addirittura sono esclusi dallo status di boschi le aree rimboschite con i contributi europei della Politica Agricola Comunitaria.

Anche se sono stati spesi i soldi dei contribuenti per il rimboschimento di ampie aree, la regione Piemonte ha deciso che sarà possibile tagliare liberamente i boschi nati dalle azioni di rimboschimento.

L'azione della Regione Piemonte mira a facilitare lo sfruttamento del territorio e delle risorse naturali, a spese della salvaguardia di foreste e boschi facilitando l'arricchimento di pochi a spese della collettività, che si deve sobbarcare rischi idrogeologici e ambientali.

Conclusioni

Lo schema del decreto rivela il vero intento che è quello di promuovere l'attività imprenditoriale e valorizzare l'economia, invece di tutelare il patrimonio ambientale.

Il Decreto esprime un’Italia contraddittoria e trasversale rispetto alle diverse tematiche politiche del paese, specie in tema di economia, bioeconomia, ambiente, energia, clima e non delinea in alcun modo i veri criteri innovativi di programmazione e pianificazione forestale, finendo per garantire agli enti locali la massima libertà di scelta rispetto alle strategie di gestione forestale, per necrofili interessi locali.

La normativa stigmatizza negativamente l'Italia in uno scenario di contrasto e di lotta al cambiamento climatico che passa anche attraverso la sfida di Rewilding, intesa a promuovere la rinaturalizzazione e la fornitura di strumenti in questo senso, come ad esempio gli interventi svolti per ricreare l’alveo naturale dei fiumi in modo da contare su aree che supportano alluvioni naturali, zone umide e selvagge che favoriscono la ricreazione di un ambiente sparito, favorendo allo stesso tempo particolari forme di turismo a contatto con la natura, come il birdwatching.

Il Paese ha assunto degli impegni negli accordi internazionali, come il protocollo di Kyoto, la Convenzione sulla Biodiversità, le stesse Strategie Nazionali, per cessare il degrado ambientale e contrastare normative contro Natura, secondo le indicazioni internazionali.

Di talché, si ritiene necessario e non procrastinabile informare IMMEDIATAMENTE del contenuto del Decreto tutti i cittadini, i comitati e le associazioni, con ogni mezzo, affinché essi prendano coscienza delle criticità e dei palesi vizi di incostituzionalità che il provvedimento rivela, stante l'indifferibilità dell'approvazione nemmeno urgente che non lascia il tempo al nuovo Governo di insediarsi dopo le elezioni previste per il 4 marzo.
In attesa di riscontro scritto ex L. 241/90.

Distinti saluti.

Roma il 22 febbraio 2018



Marco Tiberti
Responsabile Nazionale Agromafie in Gruppi Ricerca Ecologica



Avv. Vittorio A. Marinelli
Presidente di European Consumers 



Dr. Pietro Massimiliano Bianco
Consulente di European Consumers e Gruppi Ricerca Ecologica

1 Convenzione sulla Biodiversità (Convention on Biological Diversity). http://www.isprambiente.gov.it/it/temi/biodiversita/convenzioni-e-accordi-multilaterali/convenzione-sulla-biodiversita-convention-on-biological-diversity; http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=LEGISSUM%3Al28102
2 Bank On Nature: First loan agreement backed by Natural Capital Financing Facility signed in Brussels. http://europa.eu/rapid/press-release_MEMO-17-915_en.htm
3 Global Forest Resources Assessments http://www.fao.org/forest-resources-assessment/en/