Il grande dibattito iniziato nel ‘600 sulla natura della luce, prolungatosi fino all’inizio del ‘900, è un argomento talmente importante per la storia del pensiero scientifico da meritare un capitolo a parte.
Già nell’antichità, e poi nel medioevo e all’inizio dell’era moderna – in particolare ad opera dell’arabo Alhazen e del polacco Vitellione - era stata studiata l’ottica geometrica, cioè l’andamento delle traiettorie dei raggi luminosi relativamente ai fenomeni della riflessione della luce negli specchi e della rifrazione, cioè la caratteristica deviazione subita dai raggi quando passano da un mezzo (ad es. aria) ad un altro mezzo (ad es. acqua o vetro). Non erano state però avanzate ipotesi sulla natura fisica di questi raggi. Solo il grande filosofo atomista Democrito, illustrando la sua teoria della visione, aveva avanzato l’ipotesi che la luce fosse formata da una miriade di atomi più leggeri che si staccherebbero dai corpi luminosi, o illuminati, per poi colpire gli occhi dell’osservatore. Democrito può quindi essere considerato come l’iniziatore della “teoria corpuscolare della luce”, che avrà come suo massimo esponente Newton.
All’inizio del ‘600 anche Keplero compì importanti studi di ottica geometrica, interessandosi in particolare della teoria del cannocchiale, uno strumento basato sulla rifrazione dei raggi causata nel caso più semplice da due lenti (dette “obiettivo” ed “oculare”). Anche Keplero non si interessò però della natura dei raggi. Successivamente una serie di ricercatori cercò di determinare la legge che regola le deviazioni che si verificano nella rifrazione. Vi riuscì il fisico ed astronomo olandeseSnell (1580-1626) che stabilì circa nel 1621 che il rapporto tra i cosiddetti “seni”(1) degli angoli formati dal raggio luminoso, prima e dopo del passaggio da un mezzo all’altro, con la perpendicolare alla superficie di separazione tra i due mezzi (ad es. aria e vetro) era un rapporto fisso per ogni coppia di mezzi, pari al rapporto tra due valori caratteristici per ogni mezzo detti “indici di rifrazione” . In effetti già gli antichi fisici ellenistici, come abbiamo visto in precedenti numeri, erano riusciti a calcolare molti di questi indici per molte sostanze trasparenti.
Cartesio giunse, indipendentemente da Snell, alla stessa legge, che ha assunto il nome di legge di Snell-Cartesio, ma si interessò anche della natura della luce. Secondo lui i raggi luminosi erano dovuti ad una trasmissione meccanica rettilinea di impulsi tra una grande quantità di minuscoli corpi elastici invisibili che avrebbero formato un fluido leggerissimo - chiamato “etere”- che avrebbe occupato tutto lo spazio, e sarebbe stato presente anche negli ambienti apparentemente vuoti. Come già abbiamo detto in un altro numero, la teoria dell’etere resisterà fino alla fine dell’800 quando sarà smentita dall’esperimento diMichelson e Morley. Cartesio ritenne erroneamente che questa trasmissione di impulsi meccanici fosse istantanea (cioè che la velocità della luce fosse infinita).
Questa asserzione fu contestata da Fermat, che ritenne giustamente che la deviazione subita dai raggi da un mezzo all’altro fosse invece dovuta alla differenza della velocità della luce nei due mezzi (si può infatti dimostrare che il rapporto tra gli indici di rifrazione dei due mezzi è pari al rapporto tra le velocità della luce nei due mezzi). Ne nacque una lunga polemica (tra il 1636 ed il 1658 circa) tra Fermat, Cartesio e i cartesiani, di cui già abbiamo riferito parlando dell’opera di Fermat. Anche Galilei, convinto che la luce avesse una velocità finita, aveva realizzato degli esperimenti per calcolarne il valore. Gli esperimenti fallirono per la mancanza di strumenti adatti alla misura di una velocità enormemente grande (circa 300.000 Km/sec).
Finalmente una rigorosa teoria fisico-matematica sulla propagazione della luce fu impostata (a partire dal 1676) da Huyghens, ribadita nel famoso “Trattato della Luce” del 1690. Il modello di Huyghens prevedeva una serie di urti elastici tra particelle di etere come in Cartesio, ma il grande scienziato olandese riteneva che la perturbazione luminosa si propagasse con velocità finita secondo onde sferiche in analogia a quanto avviene su una superficie d’acqua quando vi scagliamo una pietra, o a come avviene la trasmissione delle vibrazioni sonore nell’aria. Ogni punto della superficie avanzante dell’onda diveniva a sua volta una fonte di una nuova onda sferica. L’inviluppo di tutte le singole onde sferiche diveniva a sua volta un’onda sferica complessiva.
Il vantaggio della teoria di Huyghens – che viene considerata come la prima coerente “Teoria ondulatoria della luce”- era che, non solo riusciva a dimostrare con rigorosi ragionamenti matematici le leggi della riflessione e della rifrazione, ma riusciva a spiegare anche lo “strano” fenomeno della “diffrazione” scoperto da un intelligente astronomo e fisico bolognese, il gesuita Francesco Maria Grimaldi (1618-1663),autore dell’opera “De Lumine” (“Della Luce”), nota anche a Newton.
La diffrazione si verifica quando, ad es. , si fa passare la luce attraverso una fessura sottile (ma lo stesso succede se si frappone un ostacolo sul cammino dei raggi). L’immagine della fessura (o dell’ostacolo) proiettata su uno schermo successivo non è netta (come ci si aspetterebbe se la luce si diffondesse solo in linea retta) ma si moltiplica in una serie di linee (o macchie) alternativamente illuminate e in ombra. Ciò è dovuto al fatto, come sottolineato da Huyghens, che la fessura (o il bordo dell’ostacolo) funziona a sua volta come fonte secondaria di luce e le nuove onde riescono ad “aggirare l’ostacolo” diffondendosi anche in linea non retta rispetto alla fonte di luce primaria. Inoltre le onde secondarie interferiscono con quelle primarie creando zone dove le onde tra loro sfasate si annullano e altre zone dove si sommano, come succede se buttiamo contemporaneamente due pietre in uno stagno creando due serie indipendenti di onde (fenomeno detto di “interferenza”). Questo crea l’effetto di righe e zone illuminate e righe e zone in ombra.
Huyghens riuscì anche a calcolare la velocità della luce, sfruttando la scoperta dell’abile astronomo danese Romer (1644-1710), che aveva osservato che il satellite Io di Giove si ripresentava in ritardo, dopo aver girato dietro il pianeta, quando Giove era più distante dalla Terra. Romer capì che il ritardo era dovuto alla velocità finita della luce. Sulla base dei dati di Romer, Huyghens calcolò un valore della velocità della luce di 214.000 Km/sec, che non era esatto, ma dava un’idea precisa dell’enorme valore della velocità.
Intorno al 1672 era comparsa però una teoria completamente diversa sulla natura della luce ad opera di un giovane fisico inglese, Isaac Newton. Egli riteneva, come Democrito, che la luce fosse formata da una miriade di corpuscoli luminosi che procedevano in linea retta. La “teoria corpuscolare” spiegava bene i fenomeni della riflessione e della rifrazione (anche se Newton riteneva – erroneamente - che la velocità della luce fosse maggiore nei corpi più densi a causa della maggiore forza di gravità che attirava le particelle). Tuttavia la teoria non riusciva a spiegare la “diffrazione” e fu criticata da Hooke, che aderiva alla visione ondulatoria di Huyghens. Ciò causò una forte inimicizia tra Newton e Hooke che doveva durare decenni essendosi estesa anche alla rivendicazione di chi avesse scoperto per primo l’attrazione gravitazionale (si dice che alla morte di Hooke, Newton – quale nuovo segretario della Royal Society – fece sparire tutti i ritratti ufficiali di Hooke!).
A difesa di Newton bisogna sottolineare che in nessuno dei suoi scritti egli negò che la luce potesse avere anche una natura ondulatoria. Egli inoltre (a differenza di Hooke che riteneva che la luce bianca fosse l’unica luce “naturale”) affermò giustamente che i diversi colori della luce (separabili con un prisma di vetro: fenomeno detto “dispersione della luce”) corrispondevano a diversi tipi di corpuscoli e che i vari tipi di luce, sovrapposti, producevano la luce bianca. Newton provò questo facendo ruotare velocemente un disco su cui erano presenti spicchi di tutti i colori dell’arcobaleno, con l’effetto di ottenere la luce bianca (esperimento già eseguito dagli antichi fisici ellenistici, come ricordato in precedenti numeri).
Nei secoli successivi la teoria ondulatoria sembrò prevalere, in particolare all’inizio dell’800 con l’inglese Young ed il francese Fresnel. Nella seconda metà dell’800 il geniale fisico scozzese Maxwelldimostrò che le onde luminose erano di origine elettromagnetica e che esistevano molti altri tipi di onde della stessa natura: onde radio che possono trasmettere i segnali radio e TV; onde infrarosse che trasmettono il calore; raggi ultravioletti che ci abbronzano sulle spiagge; raggi X, ed infine i micidiali raggi “gamma”, capaci di infliggere gravissimi danni biologici, prodotti nelle disintegrazioni radioattive degli atomi e nelle esplosioni atomiche.
La teoria corpuscolare sembrava definitivamente tramontata, ma nel 1905 uno sconosciuto giovane fisico, Albert Einstein, dimostrò in un suo studio sul cosiddetto “effetto fotoelettrico” che esistevano veri e propri atomi di pura energia luminosa (poi battezzati come “fotoni” dall’antico greco “fos”, cioè “luce”), privi di massa, ma capaci di colpire come proiettili gli elettroni (piccolissime particelle, cariche di elettricità negativa, presenti nelle strutture atomiche) mettendoli in movimento e causando una corrente elettrica.
La scoperta di Einstein (che gli valse il Nobel) significava che le teorie ondulatorie erano errate? La questione fu risolta dall’ipotesi rivoluzionaria (rivelatasi esatta) di un altro giovane brillante fisico francese, De Broglie: non solo la luce, ma tutta la materia aveva una doppia natura, corpuscolare ed ondulatoria. Questa assunzione, come vedremo, sarà una delle colonne portanti della “fisica quantistica” contemporanea.
Vincenzo Brandi - brandienzo@libero.it
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