È 1'8 febbraio 1600 quando il frate domenicano Giordano Bruno da Nola esce, per la prima volta in sette anni, dal palazzo romano del Sant'Uffizio (ultimato trent’anni prima per divenire la sede centrale dell'Inquisizione romana — tribunale e carcere insieme).
Vi è entrato il 27 febbraio 1593, in seguito all'accusa di eresia sollevata contro di lui da Giulio Mocenigo, l'abietto patrizio veneziano che prima l’aveva invitato nella Serenissima per farsi insegnare la nobile arte della mnemotecnica e poi l’aveva venduto all'Inquisizione — sembra per non dovergli pagare il compenso pattuito... Contro il domenicano pesa anche la testimonianza di un ambiguo frate cappuccino, tale Celestino da Verona, a sua volta imprigionato per eresia e collaboratore di giustiziaante litteram, per salvarsi la pelle (la delazione però gli servirà a poco: finirà anch’egli sul rogo, e per giunta cinque mesi prima della sua illustre vittima, il 16 settembre 1599).
Per ascoltare la sentenza di condanna a morte, ormai irrevocabile, Giordano Bruno viene condotto nell’abitazione del cardinal Madruzzi, che sorge in piazza Navona proprio accanto alla chiesa di sant'Agnese; duramente provato da sette anni di prigionia, di torture, di isolamento e di fermenti intellettuali inespressi, Giordano Bruno si erge tuttavia dignitoso e fiero di fronte ai suoi carnefici: terminata la lettura della sentenza, fatta nel grave silenzio di tutti gli astanti, la commenta con queste parole, le ultime di cui si abbia testimonianza: «Forse avete più timore voi nel pronunziare la mia sentenza, che io nel riceverla!». Non parlerà più con nessuno.
Il 17 febbraio 1600, in Campo dei Fiori, sotto gli occhi di una folla innumerevole e strepitante, Giordano Bruno viene condotto al rogo. Gli viene imposta anche l'onta della mordacchia, unostrumento che, introdotto in bocca, impedisce di gridare o parlare — la Chiesa di Roma esige l’ultima parola. Come da copione, un monaco si avvicina al condannato e gli accosta al volto un crocifisso: Giordano Bruno si gira sdegnoso dall'altra parte, deciso a morire solo — come solo, nella sua incompresa grandezza, è vissuto.
Impossibile tracciare qui, sia pure per sommi capi, un quadro appena esauriente della vita e delle opere di Giordano Bruno: del resto, qualsiasi buon manuale di storia del pensiero ne è prodigo, e la rete rigurgita di testi e analisi sul pensatore di Nola.
Allo stesso modo è impossibile riassumere l'essenza della costruzione ideale di Bruno, tutta incentrata sulla libertas philosophandi, cioè sulla libertà del pensiero che cerca la verità senza compromessi o accondiscendenze nei confronti degli "altri" — gli stessi di cui il filosofo dichiara orgogliosa mente, nell'epistola Adversus Mathematicos, di non voler essere «né scherano né servo». Proprio questa cerca assidua e radicale del Vero ad ogni costo è l’«heroico furore» che pervade il Bruno, assorbito nella sua missione al punto di giocarsi la vita per essa — più di due secoli dopo lo imiteranno (con esiti diversi) Hölderlin e Nietzsche, resi folli il primo dall'estasi poetica e il secondo da un filosofare "a colpi di martello".
Vale piuttosto la pena di soffermarsi sull'accanimento (certo degno di miglior causa) con cui la Chiesa perseguitò un pensatore non comune, un ingegno acutissimo e raffinato, una sensibilità sicuramente molto distante da quella del suo tempo. E, per farlo, partiamo proprio dalle accuse di quel fra Celestino da Verona che pagò con la vita la sua infamia.
La denuncia di questo “pentito” si articola in 13 capi, alcuni dei quali non sono altro che mere bestemmie fine a se stesse, e che difficilmente un personaggio della levatura di Giordano Bruno avrebbe potuto pronunciare se non in un contesto ben preciso che naturalmente il disgraziato Celestino da Verona non riferisce — né avrebbe potuto farlo, viste le difficoltà d'interpretazione che certi testi del filosofo continuano a presentare anche per i più attenti esegeti. Altri, invece, svariano dal campo teologico a quello etico, sollevando interrogativi ai quali ancora oggi la Chiesa non sa dare risposta (come hanno ben dimostrato le acrobazie dialettiche con cui nel Duemila, a quattro secoli di distanza dal rogo di Campo de’ Fiori, il Vaticano ha chiesto scusa per quell’assassinio cercando di dare un'impossibile "giustificazione" del suo operato). Vediamoli.
Celestino da Verona, dunque, «denunciò che Giordano aveva detto: 1) Che Christo peccò mortalmente quando fece l'orazione nell'orto recusando la volontà del Padre, mentre disse: “Pater si possibile est, transeat a me calix iste”. [...] 5) Che si trovano più mondi, che tutte le stelle sono mondi, ed il creder che sia solo questo mondo è grandissima ignoranza. 6) Che, morti i corpi, l'anime vanno trasmigrando d'un corpo nell'altro. 7) Che Mosè fu mago astutissimo [...] e ch'egli finse aver parlato con Dio nel monte Sinai, e che la legge da lui data al popolo ebreo era da esso imaginata e finta. [...] 9) Che il raccomandarsi ai santi è cosa redicolosa e da non farsi. 10) Che Cain fu uomo da bene, e che meritamente uccise Abel suo fratello, perché era un tristo e carnefice d'animali. [...] 13) Che quello che crede la Chiesa, niente si può provare».
Non c’è bisogno di essere raffinati teologi per capire che all’epoca (ma non soltanto allora….) simili affermazioni costituivano uno scandalo gravissimo e una seria minaccia alla solidità dell’edificio cattolico: al punto 1, da quell'abbozzo di rifiuto della volontà del Padre affiora tutta la dolente umanità del Cristo, capace di peccato e quindi non tanto figlio di Dio quanto piuttosto figlio dell'uomo; il punto 5 mette in discussione l’intera cosmologia creazionista con tanto di annessi e connessi; nel punto 6, sono la psicologia e la metafisica cattoliche a diventare oggetto di dubbio (per non parlare dell’implicita messa in discussione del Giudizio Universale); al punto 7 si attacca uno dei capisaldi della religione cristiano-cattolica, che vede nelle Sacre Scritture la Verità rivelata; col punto 9 si condanna senza appello la superstizione accettata in tempi remoti dalla Chiesa trionfante per aver ragione del politeismo spicciolo professato dal popolino e conquistarsi il consenso delle masse più o meno convertite (a forza o spontaneamente, poco importa); il punto 10, se è vero (il che, per quanto riguarda la scrivente, basterebbe da solo a fare di Giordano Bruno un gigante) riprende in modo forse un po' radicale la squisita sensibilità di Leonardo da Vinci (che già cent’anni prima vagheggiava un tempo in cui l'uccisione d'un animale sarebbe stata considerata e punita come quella di un uomo) e attacca pesantemente l'antropocentrismo cristiano-cattolico. Il punto 13, poi, dà il colpo di grazia all'edificio ideologico della Chiesa di Roma e ne mina dalle fondamenta il potere temporale — c’era bisogno d’altro?
Naturalmente non fu soltanto sulla base di queste accuse (vere o presunte) che Giordano Bruno, definito nell’atto d’accusa «... heretico impenitente, pertinace et ostinato» venne incarcerato, riconosciuto colpevole e consegnato al braccio secolare dall'ipocrisia della Chiesa.
Nel Duemila la Chiesa — s’è accennato — ha chiesto perdono per la sua uccisione, dichiarandosi «in debito con lui per averlo privato del bene più grande: la vita»: così monsignor Pietro Nonis, vescovo di Vicenza e già prorettore dell'Università di Padova, in un'intervista rilasciata all’ “Avvenire” il 16 luglio 1998, in previsione dell'anniversario ormai imminente.
Eppure proprio in quel XVI secolo che sarebbe trapassato nel XVII in un divampar di fiamme il teologo francese Sebastiano Castellione aveva compreso che «Uccidere un uomo non è difendere una dottrina. È semplicemente uccidere un uomo». La Chiesa non lo capì allora, e forse non lo capirà mai.
Alessandra Colla
(Fonte: http://www.ereticamente.net/)
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