L’incapacità di ascoltare sé stessi e il mondo circostante è la fonte primaria dei conflitti. In genere gli uomini vivono chiusi entro rigidi schemi mentali e comportamentali e sono incapaci di confrontarsi con modalità espressive o prospettive diverse. Quasi tutti credono di avere puntualmente ragione e proiettano sull’“altro” il ruolo di nemico o di capro espiatorio. L’“altro” è sempre in errore e spesso, purtroppo, lo si fa persino assurgere al rango di rappresentante del “male assoluto”. Tutto ciò rivela uno stato di coscienza infimo, incapace di aprirsi all’universalità, in cui si coglie l’Unità nella molteplicità. E dire che è proprio sulla base di un simile stato coscienziale che oggi l’Occidente pretende di promuovere l’idea di un “governo mondiale”.
«È facile vedere l’errore degli altri, difficile, al contrario, vedere il proprio. Chi gli errori degli altri vaglia come la crusca, nasconde invece i propri, come il frodatore fa, per inganno, con la cattiva carta» (Dhammapada, 252).
Scandagliare oltre il velo di superficiale rispetto e buona educazione in cui si ammanta il mondo della politica nazionale e internazionale ci porta a scorgere nei “grandi” della terra un gruppo di bambini intenti a giocare con armi terribili. Sembra che nessuno comprenda come il raggiungere la maturità significhi saper discriminare tra assoluto e relativo, essenziale e superfluo, paravidya (la conoscenza metafisica, immutabile e universale) eaparavidya (la conoscenza soggetta alla transitorietà). Nelle faccende umane – appartenenti all’ambito relativo– non può esservi mai qualcuno che abbia assolutamente ragione o torto e pertanto nel dialogo con gli altri non si tratta di affermare ciecamente questo o quel vantaggio contingente, bensì di trovare un accordo, un equilibrio.
«Considerando l’essenziale nel non essenziale, e vedendo il non essenziale nell’essenziale, non otterranno l’essenziale, alimentando errati pensieri.
Riconoscendo l’essenziale nell’essenziale, e il non essenziale nel non essenziale, otterranno l’essenziale, alimentando retti pensieri» (Dhammapada, 11-12).
La ragione viene identificata nella forza: la forza di chi proclama con maggiore rabbia i propri bisogni, non importa se superflui o inventati di sana pianta, o di chi possiede le armi più devastanti. Sta di fatto che è un imperativo negare l’ascolto senza oggetto, interno ed esterno, quell’ascolto che non ha bisogno di giungere ad affrettate conclusioni e sa sussistere nell’indeterminato. Chiunque lo proponga – sia pur con misura e intelligenza – non ottiene alcun rispetto e, anzi, si espone al pericolo d’essere punito severamente o, quanto meno, relegato nella categoria dei “traditori”, dei “negazionisti”, dei “complottisti”, dei nemici del progresso, dei pazzi-mistici.
Quale spettacolo desolante! Sia in ambito politico che individuale manca quasi del tutto la capacità di ascoltarsi nell’intimo, di osservare i propri schemi mentali dal punto di vista di un Centro sovraindividuale e quindi di riconoscere eventuali torti o difetti. Non sapersi penetrare nell’intimo equivale a non saper ascoltare gli altri. E non solo: dato che la parola efficace e la comprensione scaturiscono dal silenzio, chi non si dedica all’autoindagine, non può che parlare in modo stupido e superficiale, muovendosi automaticamente lungo i percorsi delle abitudini e degli offuscati impulsi appropriativi (vasana e samskara: solchi, impressioni nella sostanza mentale e semi causali), ripetendo in modo pedissequo nozioni o idee inculcategli dall’esterno.
In termini taoisti si direbbe che l’uomo incapace di ascoltarsi e di ascoltare è “rigido”, e di conseguenza debole e violento. Forte, creativo, pacifico e nel contempo capace di armonizzarsi con la realtà è invece chi si sa aprire, estraendo la parola conciliativa dal profondo dell’ascolto privo di pregiudizi. In termini hinduisti, la società o l’individuo rigidi sono succubi del samsara, la trasmigrazione nesciente che in polvere riduce le vane “ragioni” umane, per le quali si combatte, si uccide, si tortura, si distrugge, ci si arrovella o arrichisce, nuocendo agli altri.
«Come cogliesse fiori, la morte va cogliendo gli uomini attaccati al desiderio: impetuoso torrente su di un addormentato villaggio» (Dhammapada, 47).
«La vittoria accumula odio; il vinto giace nel dolore. Il pacifico giace felice, abbandonando vittoria e sconfitta» (Dhammapada, 201).
Non ascoltarsi equivale pure a vivere nella menzogna. Scrive il grande e coraggioso pensatore russo Nikolaj Berdjaev ne “Il paradosso della menzogna” (saggio pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1939): «Il ruolo della menzogna nella vita umana è immenso. Il mondo si pasce di menzogna. […] Gli uomini vivono nella paura, e la menzogna è uno strumento di difesa. La struttura della coscienza viene deformata dalla funzione della menzogna prodotta dalla paura».
La menzogna in effetti nasce dalla paura di non controllare la realtà, di non poterla possedere, quantificare. Essa viene assorbita sin dall’infanzia attraverso l’educazione improntata all’ipocrisia sistematica; se subita passivamente e mai smascherata, ovvero fatta affiorare al conscio, deforma irrimediabilmente la coscienza, rendendo l’uomo incapace di aprirsi a quello che il Dhammapada chiama “Essenziale”.
Scrive ancora Berdjaev nello stesso saggio, sbalordendo per la sua attualità: «Nel mondo attuale la menzogna, riconosciuta come socialmente utile, ha raggiunto dimensioni così inaudite e ha deformato a tal punto la coscienza, che si pone il problema di un radicale cambiamento nel rapporto con la verità e la menzogna, il problema della scomparsa del criterio stesso di verità. […] La menzogna è il fondamento primo dei cosidetti Stati totalitari, che senza la menzogna organizzata non avrebbero mai potuto essere edificati. La menzogna viene inculcata come un sacro dovere, un dovere nei confronti della razza eletta, della potenza dello Stato, della classe eletta. E non la si riconosce neppure come menzogna» (da “Pensieri controcorrente”, Mi 2007).
Mi si consenta di proporre, prendendo lo spunto dalle riflessioni di Berdjaev, un elementare sillogismo: la menzogna è il fondamento degli Stati totalitari; le democrazie attuali utilizzano la menzogna come normale forma di governo; dunque tutte le democrazie sono totalitarie.
Un esempio eclatante circa l’incapacità corrente di ascoltare l’abbiamo avuto di recente all’Onu: quando il Presidente dell’Iran ha preso la parola, i rappresentanti di Israele e USA – che dovrebbero essere i Paesi maggiormente interessati a ponderare su le ragioni del loro supposto “nemico” – si sono alzati ed hanno abbandonato la sala. Bel segno di senno e di buona volontà! Si ha qualche difficoltà a sopprimere il sospetto che costoro non ricerchino la pace, ma perseguano la guerra continua sulla quale prosperano. Certo, non possono ammetterlo apertamente (la maschera della democrazia illuminata cadrebbe miseramente), perciò mentono e finiscono col credere alle loro menzogne. E dire che il discorso di Mahmoud Ahmadinejad meritava di essere ascoltato. A prescindere dalla sincerità o falsità di chi lo pronunciava, esso ha sfiorato il sacro e, abbattuti gli angusti confini della retorica politica, ha osato ribadire la nudità del “re”, decrivendone accuratamente le reali fattezze.
In un articolo intitolato “Monologhi all’ONU”, Thierry Meyssan ha scritto: «Il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad ha sconcertato l'Assemblea affrontando a sorpresa il tema del dibattito che tutti avevano dimenticato: “La composizione o la soluzione delle controversie internazionali con mezzi pacifici”. La delegazione statunitense ha abbandonato rumorosamente l'aula al momento in cui, costellando il suo discorso con versi del poeta classico Saadi, ha sottolineato che la pace non si ottiene né con il Diritto né con la Forza, bensì tramite la compassione per gli altri e il sacrificio di sé. Provocazione suprema, ha ribadito la sua fede in un avvenire perfetto, governato dai profeti e non da coloro che vi si richiamano» (fonte:www.ariannaeditrice.it). (vedi anche: http://www.circolovegetarianocalcata.it/2012/09/28/mahmoud-ahmadinejad-all%e2%80%99onu-per-un-nuovo-rinascimento-ricollocando-al-centro-l%e2%80%99uomo-e-la-sua-dignita/)
Nel discorso del Presidente dell’Iran si ribadisce anche l’importanza di ridare dignità alla persona umana e alla famiglia: «La famiglia, che è il più prezioso centro per l’educazione degli uomini ed è il nucleo della creazione e della diffusione dell’amore e dell’umanità è stata indebolita a dismisura ed il suo ruolo costruttivo sta per essere distrutto». Trovo che ciò sia assai importante, soprattutto in tempi di livellamento ed alienazione – talvolta perseguiti con pretesti persino ecologici o “spirituali” – come i nostri.
Alcuni lettori potrebbero chiedersi che cosa c’entri la famiglia con l’ascolto. Ebbene è proprio all’interno di una famiglia sana, fondata su valori trascendenti l’effimero, nella quale si educano i giovani a risolvere in intelligenza l’oscurità auto-annichilente ereditata per karma e a coltivare le proprie qualità innate, sottraendosi alle richieste del mercato globale, che l’uomo impara ad ascoltare gli altri attraverso l’ascolto di sé: dall’amore di sé ci si espande nell’amore empatico per i propri familiari e da questo nell’amore per il mondo intero e per la manifestazione tutta. Chi viene educato, sin dalla nascita, a realizzare le proprie buone qualità e ad immedesimarsi negli “altri” (animali, vegetali, montagne e fiumi compresi), non sarà mai uno psicopatico o un violento.
Trovo risibile l’obiezione di quelli che, ritenendo il globalismo tecnocratico un fenomeno irreversibile, proclamano la fine della famiglia-società tradizionale, legata alla terra, al mito dell’eterno ritorno, ovvero all’origine eternamente presente e alla simbologia del Centro, l’Axis mundi. La plastica passerà, ma il fuoco, l’acqua, le stelle e gli alberi resteranno e così pure la consapevolezza atemporale di essere l’Essere. Basti sottolineare come in piena era tecnologica c’è ancora qualcuno che, dando voce al pensiero di molti, può scrivere: «Ma tu, amico, / ogni giorno fa qualcosa che non possa essere misurato. / Ama la vita. Ama la terra. / Conta su quello che hai e resta povero. / Ama chi non se lo merita. / Non ti fidare del governo, di nessun governo. / E abbraccia gli esseri umani: / nel tuo rapporto con ciascuno di loro riponi / la tua speranza politica» (da “Manifesto del contadino impazzito” di Wendell Berry).
Altri lettori potrebbero notare come l’ottica personalista, di cui Berdjaev fu strenuo difensore, e quella impersonalista espressa dal Dhammapada appaiano in contraddizione tra loro. Ecco di nuovo presentarsi lo spettro della divisione irriducibile. E ciò soltanto perché non si sa andare oltre l’aspetto superficiale delle dottrine, delle filosofie, delle religioni. In realtà, così come le lingue si radicano tutte nel prana e nel suono OM, egualmente le varie chiavi di lettura della Realtà si radicano nel Sovrasensibile, nella Divinità inseparabile dallaShakti (l’energia che emana, sorregge e riassorbe “le diecimila cose”), nel Tao o che dir si voglia.
Per uscire dal labirinto della contrapposizione occorre dunque rimettere in discussione o sospendere i dati contingenti, soltanto apparentemente e limitatamente veri, ed imparare ad “ascoltare” la Realtà in Sé, l’Essenza che trascende la dicotomia soggetto-oggetto. Presumere che si possa uscire dalle strettoie della sofferenza esistenziale senza porsi in ascolto della sapienza-saggezza onnicomprensiva del Sanatana-Dharma (il Dharma-Realtà-Verità eterno da cui promanano le dottrine autenticamente escatologiche delle varie tradizioni) non fa altro che perpetuare quel mal d’être dal quale solo a parole gli uomini resi impotenti dalla menzogna dichiarano di volersi liberare.
Giuseppe Gorlani
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