mercoledì 2 gennaio 2013

L'insostenibile pesantezza dello sviluppo sostenibile



Gli anni sessanta del Novecento sono stati anni di grandi rivoluzioni:
i paesi liberatisi dal colonialismo si sono messi in testa di
rivendicare prezzi più equi per le loro risorse naturali --- rame,
gomma, cobalto, fibre tessili, uranio, petrolio --- che fino allora
erano stati sfruttati dai loro colonizzatori; in tanti nel mondo
avevano imparato a osservare la Terra, fotografata dai satelliti
artificiali, e quella sfera nello spazio era apparsa come l'unica casa
per gli esseri umani, grande ma limitata nei suoi continenti e nelle
sue ricchezze; alcuni economisti avevano ironizzato sul significato
del PIL mostrando che questo indicatore ufficiale della ricchezza e
del benessere non è capace di tenere conto dei costi e dei dolori
provocati da sempre più frequenti inquinamenti o alluvioni; alcuni
sociologi avevano mostrato tutti i limiti della società dei consumi;
alcuni biologi aveva denunciato che la popolazione terrestre stava
crescendo troppo rapidamente rispetto alla disponibilità di cibo, di
spazio, di acqua. La terribile parola, "limite", aveva fatto la sua
comparsa nel vocabolario, con grande spavento per gli economisti
ufficiali, per capitalisti, imprenditori e uomini politici.

Si poteva capire che gli esponenti di una gioventù ribelle nei campus
universitari cavalcassero questa insoddisfazione, che gli operai nelle
fabbriche fossero insoddisfatti delle condizioni e dei pericoli del
lavoro. Ma che un club proprio di intellettuali borghesi e di
imprenditori e governanti si fosse messo in testa di ordinare un libro
che, nel 1972, spiegava che sarebbe stato necessario porre dei "Limiti
alla crescita" della popolazione, delle merci e della produzione ---
questo passava tutti i segni.

Tanto più che la velenosa idea fece una qualche presa nel mondo; anche
nei paesi industriali, nel mondo politico, non solo nei giovani
ribelli. Qualche governante considerò con attenzione la analisi dei
"Limiti alla crescita", circolò il termine austerità, in Italia
rapidamente soffocato; perfino i dirigenti sovietici parlarono di "uso
parsimonioso delle risorse", per non parlare del mondo cattolico in
cui circolavano inviti a minori sprechi.

Bisognava provvedere, e i rappresentanti del potere economico crearono
una Commissione che elaborò un rapporto, tradotto in italiano col
titolo: "Il futuro di noi tutti", che ha lanciato su larga scala la
moda della sostenibilità, definendo "ufficialmente" sostenibile lo
sviluppo che consente alla nostra generazione di usare le risorse del
pianeta lasciando, alle generazioni future, un patrimonio di risorse
che assicuri anche a loro un uguale sviluppo. Per vostra tranquillità
ve lo trascrivo nell'originale inglese: "development that meets the
needs of the present without compromising the ability of future
generations to meet their own needs".
Ci sono senza dubbio problemi ambientali, di inquinamento, di
impoverimento delle riserve naturali, ma la società capitalistica è
capace di assicurare lo stesso lo sviluppo economico, pur con alcune
correzioni, uno sviluppo duraturo, sostenibile, appunto.

Purtroppo c'è una insanabile contraddizione in termini in tale
definizione: se usiamo oggi una parte delle risorse terrestri non
rinnovabili, questa parte non sarà più disponibile per le generazioni
future, per coloro che nasceranno fra venti o quarant'anni. Una
espressione popolare americana spiega che non si può mangiare la torta
e averla ancora. "Can't eat a pie and have it".

Inoltre c'è confusione fra sviluppo e crescita dei beni materiali,
quelli appunto che si possono ottenere soltanto usando e modificando
le risorse fisiche della natura. Lo "sviluppo" consiste nel diritto di
avere una vita dignitosa, per le donne e per gli uomini, di disporre
di abitazioni, di cibo e di acqua decenti, di avere accesso
all'informazione, alla conoscenza, al lavoro e di godere il diritto
della libertà.

Nella definizione "ufficiale" di sviluppo sostenibile si fa
riferimento alla crescita dell'uso delle risorse naturali che sono, lo
spiega bene l'ecologia, limitate fisicamente. Se si traggono petrolio
o gas naturale dai pozzi, carbone dalle miniere, inevitabilmente se ne
lascia di meno alle generazioni future; se si aumenta la produzione di
cereali o di soia si lascia, inevitabilmente, un terreno impoverito di
sostanze nutritive e esposto all'erosione; se si usano i fiumi come
ricettacolo dei rifiuti e delle scorie delle attività umane non si può
sperare e pretendere di avere acqua potabile a valle.

La nostra società di mercato stabilisce che è bene, anzi obbligatorio,
fare aumentare il prodotto interno lordo, cioè la quantità di denaro
che ogni anno circola attraverso una economia. Ma tale indicatore
aumenta soltanto se aumenta la produzione e l'uso e il consumo di
automobili, di cereali, di benzina, di cemento, di scarpe, di telefoni
e computer, di elettricità, carta, eccetera, tutte cose che possono
essere ottenute soltanto estraendo dalle miniere o dai campi o dalle
foreste risorse naturali che non saranno più disponibili alle
generazioni future; tutte cose che inevitabilmente generano scorie che
peggiorano la qualità delle risorse naturali (acqua, aria, suolo,
mare) che lasciamo alle generazioni future.

Per farla breve le attuali regole economiche fanno sì che l'attuale
società --- italiana, europea, mondiale --- sia intrinsecamente
insostenibile. Ci stiamo prendendo in giro, con le grandi attestazioni
di amore per lo sviluppo sostenibile, per la sostenibilità, in un
mondo in cui le regole di base dei rapporti umani e economici sono
insostenibili. E la situazione è tanto più grave in quanto le stesse
regole economiche sono state assimilate dai paesi ex-socialisti e
vengono puntigliosamente esportate nei paesi emergenti come Cina,
India, Brasile e anche in quelli poveri del mondo.

Eppure la speranza di poster continuare sulla gloriosa strada della
crescita merceologica, si è diffusa non solo nella borghesia
imprenditoriale, ma anche nel mondo ambientalista, quello da cui era
nata la grande contestazione degli anni sessanta. E così ci sono stati
volonterosi sforzi per attuare un ambientalismo scientifico, per
proporre soluzioni tecnico-scientifiche coerenti col disegno di
sviluppo sostenibile pur nella doverosa possibilità di produrre e
consumare e disporre di più beni materiali.

Se le abitazioni sono strutture che divorano energia e cemento e acqua
è possibile immaginare nuovi materiali da costruzione, tecniche di
isolamento termico, l'inserimento di pannelli solari sui tetti,
pensare e proporre città e case sostenibili.

E' vero che i consumi di energia sotto forma di prodotti petroliferi,
di carbone e gas naturale immettono nell'atmosfera crescenti quantità
di gas, come l'anidride carbonica, che modificano la composizione
chimica dell'atmosfera e provocano mutamenti climatici disastrosi; è
vero che sarebbe ragionevole diminuire le emissioni dei gas serra,
consumando di meno energia, ma di energia c'è bisogno ed ecco le
proposte sostenibili di filtrare i gas dai camini delle fabbriche e
delle centrali, di immettere tali gas nel sottosuolo, di sostituire le
fonti fossili con quelle rinnovabili, ed ecco un proliferare di pale
eoliche, di pannelli fotovoltaici, di centrali alimentate con la
biomassa, magari con oli importati dai paesi tropicali, tutto grazie a
provvidenziali finanziamenti pubblici, ed ecco nuove proficue fonti di
affari e di crescita finanziaria, pur di far correre automobili
sostenibili in congestionate città sostenibili, con grattacieli
sostenibili sempre più svettanti nel cielo.

E' vero che molte merci inquinano durante la produzione e durante il
"consumo", è vero che, a conti fatti, non si consuma niente, che le
attività umane non fanno altro che trasformare le merci in rifiuti
gassosi, liquidi e solidi --- quattro chili di rifiuti per ogni chilo
di merce prodotta e usata --- ma anche qui le soluzioni sostenibili
non mancano. E' possibile trarre elettricità e affari dal trattamento
e dal riciclo dei rifiuti, è possibile utilizzare materie alternative
biodegradabili tratte dalla biomassa vegetale in alternativa a quelle
derivate dal petrolio.

Anche se, col procedere verso improbabili soluzioni sostenibili si è
poi visto che si usciva da una trappola per cascare in un'altra; la
produzione su larga scala di carburanti sostenibili, alternativi alla
benzina, dal mais o dallo zucchero sconvolgeva l'agricoltura dei paesi
poveri; l'uso di grassi vegetali per la produzione di carburanti
diesel provocava la distruzione delle foreste tropicali per fare
spazio a piantagioni di palma. Al punto da riconoscere che si toglieva
il cibo di bocca ai paesi poveri per far correre i SUV dei parsi
industriali.

Pochi numeri aiutano a mostrare la insostenibilità della
sostenibilità. La produzione primaria netta --- cioè il peso (secco)
di materiali vegetali formati attraverso la fotosintesi (detratte le
perdite per la respirazione vegetale) --- è, sulle terre emerse, di
circa 100 miliardi di tonnellate all'anno.

Di questa ricchezza in gran parte rinnovabile, rigenerata ogni anno
dai cicli della natura, per l'alimentazione umana e degli animali da
allevamento e come legno e altre materie vengono prelevati circa 6
miliardi di tonnellate all'anno. Il peso del carbone, del petrolio e
del gas naturale portati via ogni anno dalle viscere della Terra
ammonta a circa 12 miliardi di tonnellate, a cui vanno aggiunti circa
30 miliardi di tonnellate all'anno di minerali, materiali da
costruzione, tutti non rinnovabili. La trasformazione di tutti i
materiali, tratti dalla natura, da parte dei sette miliardi di esseri
umani esistenti nel 2012, e che aumentano in ragione di circa 70
milioni di persone all'anno, genera ogni anno circa 35 miliardi di
tonnellate di gas anidride carbonica, oltre a miliardi di tonnellate
di altri gas che finiscono nell'atmosfera alterandone la composizione
chimica e accelerando i mutamenti climatici; e genera miliardi di
tonnellate di sostanze organiche e inorganiche che finiscono nelle
acque prelevate dai corpi naturali e restituite inquinate alla natura
in ragione, nel mondo, di circa 4000 miliardi di tonnellate all'anno;
e genera scorie e residui solidi che finiscono sul suolo. Una parte
infine, soprattutto di minerali e metalli e rocce, resta immobilizzata
nella tecnosfera --- nell'universo delle cose fabbricate, edifici,
macchinari, oggetti a vita media e lunga --- che si dilata
continuamente e irreversibilmente.

In un piccolo paese come l'Italia la sola massa dei rifiuti solidi
ammonta a 0,2 miliardi di tonnellate all'anno, quella dei gas di
rifiuto ammonta a oltre mezzo miliardo di tonnellate all'anno, la
massa di acqua che entra nelle fabbriche, nelle case e nei campi e ne
esce contaminata da rifiuti e agenti vari ammonta a circa 60 miliardi
di tonnellate all'anno.

Volenti o nolenti, comunque di cose materiali gli esseri umani hanno
bisogno, in quantità crescente anche per l'inarrestabile aumento della
popolazione mondiale. Tutto quello che si può fare per attenuare la
insostenibilità dovuta all'impoverimento e al peggioramento della
qualità ecologica delle risorse naturali, è cominciare a chiedersi:
chi ha bisogno di che cosa ?

Davanti a circa 2000 milioni di abitanti della Terra che sono sazi di
beni e di merci, talvolta obesi di sprechi, ci sono sulla Terra circa
3000 milioni di persone che, nei paesi di nuova industrializzazione,
stanno correndo a tutta velocità nell'aumento insostenibile della
produzione e del consumo di energia, di metalli, di cemento, di
automobili, di apparecchiature elettroniche, e poi ci sono altri 2000
milioni di persone povere e metà di queste non dispongono di una
quantità sufficiente di cibo, di acqua di buona qualità, sono povere
di libertà e dignità, beni che richiedono anch'essi beni materiali,
perché non si può essere liberi e non si può vivere una vita dignitosa
se mancano abitazioni decenti, letti di ospedale, banchi di scuola.
Una mancanza che è giusta fonte di rivendicazioni, di violenza, di
pressioni migratorie verso paesi opulenti che non vogliono spartire la
loro opulenza. Una mancanza che può essere sanata soltanto con la
terribile e improponibile proposta di imporre ai ricchi di consumare
di meno per lasciare ai poveri una maggiore frazione di beni materiali
che gli consenta di avere una vita minimamente decente. Qualche
considerazione sul produrre che cosa per chi in:
http://www.scribd.com/doc/93089744/unsustainibility.

Resta la domanda: quanto a lungo può durare una società insostenibile
? Da quando gli esseri umani hanno abbandonato la loro condizione di
animali cacciatori e raccoglitori, in relativo equilibrio con i cicli
rinnovabili e sostenibili delle risorse naturali, è cominciato un
inarrestabile cammino verso l'aumento della popolazione, l'aumento dei
desideri di questi nuovi animali speciali, gli umani, e, di
conseguenza, il crescente impoverimento delle riserve di "beni"
naturali e il peggioramento delle condizioni, della qualità, dei corpi
naturali. L'insostenibilità è la punizione di cui parla la Bibbia per
coloro che hanno osato mangiare il frutto della conoscenza.

E' del tutto vano chiacchierare su quanto a lungo potrà durare la
storia dell'uomo sulla Terra, su quanto potranno durare le riserve di
petrolio o di minerali, su quanti gradi aumenterà la temperatura del
pianeta o su quanti metri si solleveranno gli oceani, sul massimo
numero di esseri umani che la Terra può sopportare. Nove miliardi di
persone a metà del XXI secolo ? dieci o undici alla fine del XXI
secolo ? Come vivranno e dove saranno questi in futuro ? Finirà un
giorno l'avventura degli esseri umani su questo pianeta ? Domande
futili perché anche dopo la scomparsa degli esseri umani, dei nostri
arroganti grattacieli e delle nostre fabbriche e centrali, e anche
quando le scorie radioattive che lasciamo alle generazioni future si
saranno stancate di liberare radioattività, continuerà la vita, quella
si, sostenibile, a differenza delle cose umane, fino a quando il Sole
anche lui, non si sarà stancato di gettare calore nello spazio. Per
ora, nel brevissimo (rispetto ai tempi della natura) spazio di una o
dieci o cento generazione, accontentiamoci di ammirare il mondo che ci
circonda e, se possibile di rispettarne le meraviglie.


Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

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