L'articolo che segue si riferisce al gravissimo incidente della Exxon Valdez in Alaska del 1989 (con alcuni parallelismi con quello più recente nel Golfo del Messico) le cui disastrose tragiche ripercussione sono state perlopiù taciute, paradossalmente sono state meglio rivelate le conseguenze sull’ecosistema e sulla fauna che quelle sanitarie posteriori sugli esseri umani, cui cerca di porre rimedio Maria Rita D'Orsogna, autrice dell’articolo.
Stessa cosa si potrebbe dire dell’incidente di Chernobyl di tre anni prima (aprile 1086), del quale i media internazionali hanno attribuito (con ragione) al governo sovietico la grave responsabilità politico istituzionali di aver taciuto per alcuni giorni senza dare il doveroso allarme, se ricordate infatti furono gli scandinavi ad accorgersi per primi della nube radioattiva che circolava sul continente. Quanti sanno che praticamente tutti coloro che sono intervenuti sul luogo dell’incidente sono morti o sono rimasti disabili, chi dopo pochi giorni chi dopo alcuni anni, secondo l’esposizione? Stiamo parlando di 25 mila persone morte di cui 5 mila suicide (per porre fine all’agonia) e 70 mila rimaste gravemente invalide. Il numero dei morti per tumori da radiazioni tra la popolazione ucraina e soprattutto bielorussa è inestimabile, alcune cifre riferiscono di almeno un milione di morti in trent’anni.
Ma veniamo al civilissimo popolo giapponese, fino a qualche tempo fa il più occidentalizzato del continente asiatico. Mi riferisco ovviamente al gravissimo episodio di Fukushima. In questo caso trattandosi di un terremoto cui è seguito uno tsunami evidentemente non ci sono responsabilità di aver taciuto per giorni la tragedia, ma la sua gravità e ripercussioni sì, eccome. Come gravità è stato molto superiore all’incidente di Chernobyl, i reattori coinvolti erano tre e non uno, le radiazioni erano circa il doppio con l’aggravante dello scarico in mare di acque contaminate (che continua tuttora) ma la gestione è stata comunque approssimativa ed inadeguata nonostante la superiorità tecnologica ed organizzativa delle istituzioni giapponesi, i rischi sono sempre stati minimizzati e non sono state assunte adeguate contromisure. Si stima che ogni giorno 400 tonnellate di acqua altamente radioattiva finiscano nell’oceano Pacifico fino a raggiungere gli Stati Uniti.
Ne sa qualcosa lo stato di Washington che ha rilevato un aumento smisurato di radioattività ambientale e delle acque. La radioattività si accumula nei pesci seguendo la catena alimentare, quindi i più intossicati sono i predatori, ma nessuna misura restrittiva è stata presa per non ledere interessi commerciali. Secondo un recente report dello Smithsonian Institution gli uccelli dell’area dell’incidente sono praticamente scomparsi o nascono con lesioni e menomazioni. Ma delle ripercussioni sugli esseri umani cosa sappiamo, quasi nulla! Per evitare il panico e ledere gli interessi economici è meglio minimizzare, temporeggiare e tacere, distrarre con argomenti lievi …
Claudio Martinotti Doria - claudio@gc-colibri.com
Exxon Valdez, la strage lenta
Maria Rita D'Orsogna * | 18 luglio 2015 |
Alaska, 1989
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di Maria Rita D’Orsogna*
Sono passati cinque anni dallo scoppio nel golfo del Messico. Mi ricordo dove ero quel 20 aprile – era mattina ed ero a casa e mi chiamò il mio amico Tom Chou, lo stesso con cui scrissi l’articolo dell’idrogeno solforato, per dirmi di questo disastro in Louisiana.
In questi cinque anni, articoli di stampa, articoli scientifici, leggi, decisioni di corti di vario livello, miliardi di dollari pagati e richiesti – con l’ultimo pagamento di 18.7 miliardi che la BP dovrà versare al governo federale per i danni causati e che vanno ad aggiungersi agli altri 30 già pagati.
Golfo del Messico
Dopo cinque anni delle tante cose che si possono dire, quella più vera è che siamo solo all’inizio e che ci vorranno anni ed anni per arrivare ad una qualche semblanza di normalità per chi ha perso salute, sitle di vita e a volte anche lavoro.
Una delle lezioni piu interessanti arrivano dall’incidente della Exxon Valdez, nel 1989. Dopo neanche trent’anni, quasi tutti coloro che hanno lavorato alle operazioni di pulizia sono tutti morti o malati.
La vita media per chi ha lavorato in Alaska dopo lo scoppio è stata di cinquantuno anni.
I pochi rimasti in vita soffrono di tossi persistenti, lacrimazione agli occhi, nausea, vomito e dolori in tutto il corpo. La persona tipica che si rese disponibile ad aiutare nelle operazioni di pulizia in Alaska era economicamente in difficoltà (e chi sennò andrebbe di sua spontanea volontà in mezzo al petrolio?) che per sei settimane ha spruzzato acqua bollente in mare e lungo la sabbia con evaporazione di petrolio in atmosfera. Che ha ovviamente inalato.
Al tempo dello scoppio, la ditta e i lavoratori la chiamavano “Exxon crud”. Era una specie di tosse petrolifera, visto che era diffusissima fra gli addetti. E siccome era consierata una specie di influenza, nessuno ci pensò troppo. La Exxon ha eseguito nel corso degli anni ogni tipo di studio su ogni tipo di animali ed esseri viventi entrati a contatto con il petrolio: granchi, cozze, pesci, papere, aquile e pure cervi ed orsi, ma mai persone.
Fra chi è rimasto in vita Roy Dalthorp, a suo tempo disoccupato e che dopo le sue seti settimane ha sviluppato problemi di respiro e di lacrimazione che durano tuttoggi. Nessuno della Exxon l’ha mai esaminato, né durante né dopo le operazioni di pulizia. Lui dice di essere stato lentamente avvelenato.
“I had no choices, because I was behind on my house payments, and no health insurance”.
Entra in scena Dennis Mestas, avvocato che inizia a indagare le cartelle cliniche dei lavoratori della Exxon a Houston. Su 11.000 lavoratori della Exxon con sede in Alaska, 6,722 si sono ammalati. Decide che uno dei casi più lampanti era quello di Gary Stubblefield, con la stessa storia di Roy Dalthorp: problemi di respiro e di generale cedimento fisico. La Exxon lo paga 2 milioni di dollari, pur di non andare a processo. Pochi altri ex lavoratori hanno avuto la stessa “fortuna” di essere risarciti.
D’altro canto, la Exxon ribadisce che non può commentare o confermare le cifre dei lavoratori ammalatiperché questi erano temporanei e non si sa che malattie avessero sviluppato prima o dopo. E aggiungono che nessuno si è lamentato con loro. E quindi… tutto a posto.
E per le operazioni di pulizia della BP? I lavoratori della BP hanno respirato metano, benzene, idrogeno solforato e il dispersante Corexit e secondo il tossicologo Ricki Ott, fra i lavoratori della Louisiana ci sono stati gli stessi esatti sintomi che in Alaska nel 1989. Ci si lamenta di mal di testa, fatica, problemi intestinali e di concentrazione e memoria, irritazione alla gola e agli occhi, mancanza di respiro, tosse e nausea. Esiste pure una nuova malattia: Tilt, toxicant-induced loss of tolerance, per descrivere i malati delle operazioni di pulizia petrolifera.
Fra i lavoratori della BP almeno in 160 si sono ammalati e in venti sono finiti all’ospedale. Ma la BP specifica: “per poco tempo”.
Non abbiamo imparato niente. Evviva.
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