mercoledì 14 febbraio 2018

Territorio, Identità e Comunità


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"In un mondo marcato dalla crisi generalizzata delle istituzioni e dei grandi sistemi di integrazione sociale, l'affondamento dello Stato-nazione e la crescente insignificanza delle frontiere territoriali hanno visto riapparire sotto forma di comunità e di reti di rapporti, una formidabile sete di ri-radicamento. La società civile si ristruttura spontaneamente, ricreando gruppi e 'tribù' che cercano di rimediare all'indifferenza crescente dei ruoli (…) ricorrendo alla democrazia diretta e al principio di sussidiarietà. Questo fenomeno, attraverso la sua rapida espansione 'virale', mostra da solo che si è già usciti dalla modernità. Il desiderio di eguaglianza, succeduto a quello di libertà, fu la grande passione dei tempi moderni. Quello dei tempi post-moderni sarà il desiderio di identità."

Il tema identitario è un argomento sul quale si sta cercando di costruire un impianto teorico forte per il secolo a venire: ma di quale identità si parla e quali sono i presupposti costitutivi di questo modello neo-comunitario?

In molti, infatti, anche a sinistra, hanno tentato di opporre forme di resistenza locale ai sistemi alienanti generali e generalizzanti di tipo mondiale, da cui il nome indecifrabile di globalizzazione. Dalla produzione dei formaggi di fossa, al recupero di lingue sommerse, ai balli tradizionali (penso alla mia vicina "Occitania") la gamma delle opposizioni alla globalizzazione cerca di trovare sponde anche dove sponde vere e proprie non ci sono: sono uno di quelli che pensano che se le cose (in genere) rimangono nel tempo, questo non avviene per processi decisionali dal basso o dall'alto che siano, bandiere e stendardi compresi, ma da prassi consolidate e non necessariamente spiegate. Tanto per capirci: dalle parti di mio nonno, nel profondo cuneese, quando ero piccolo tutti parlavano il dialetto, perché era normale parlare in dialetto. 

Adesso lo parlano ancora in tanti, ma non più come prima e molti ragazzi e ragazzi usano soltanto la lingua italiana. Non credo che su questo come su molte altre questioni sia possibile rimediare, sempre che si debba e sia giusto farlo, creando scuole, corsi di piemontese etc: sono processi artificiali che contrastano e non accompagnano evoluzioni o involuzioni che a dir si voglia, ma qui entriamo nel merito del giudizio di valore, di persone che abitano quei luoghi. Molti dei tentativi di recupero di tradizioni, senza che vengano messi mai in discussione, cosa di per sé, a mio parere, grave, le ragioni della nascita e dello sviluppo delle stesse, sono volti a costituire e a rimarcare diversità e differenze escludenti. 

Si è membro di una comunità etnica, religiosa o sociale indipendentemente dal fatto che se ne voglia far parte o meno e che si sceglie come legame volontario, per acquisirne, al contrario, "diritti e doveri" di nascita. Questa posizione ha una inequivocabile connotazione razziale: se i diritti sono nativi, ovvero di appartenenza, da questi stessi diritti ne sono esclusi automaticamente tutti coloro che non fanno parte della comunità stessa. Questo concetto sta anche alla base di una certa idea di multiculturalismo sociale come semplice coesistenza di comunità separate all'interno di uno stesso territorio, che è poi il modello dell'apartheid interno, contraltare politico al progetto assimilazionista statolatrico e neo-illuminista dei governi integrazionisti. 

Anche a sinistra, non vengono mai messe in discussione le modalità con cui una "comunità" si appropria di pratiche, di varia nefandezza, né in che modo queste corrispondano a nuovi innesti prodotti da altri inserimenti sociali e culturali (ad esempio l'Islam). 

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La tradizione viene appunto risolta in forma storica inamovibile a-temporale e soprattutto a-conflittuale. Si pensa ciò che se ciò avviene da secoli, questo, per solo fatto appunto che capita, sia di fatto accettato acriticamente da tutti i membri della società, che non produca conflittualità interne né esterne e così via. È lo stesso discorso pernicioso sull'autodeterminazione dei popoli, che non si capisce bene in che cosa di debbano auto-determinare, se non nella forma della resistenza alle ingerenze imperialistiche. Ma appunto, riproviamo a chiamare le cose con il loro nome, ovvero che se ci si oppone all'invasione economico-politica e militare di predoni armati da governi di vario tipo, si tenta di resistere ai nuovi imperialismi criminali e massacratori, ma questo non implica affatto che nel processo, inverso all'occupazione, di auto-determinazione si stia costruendo una società libera da sfruttamento, clericalismo, sopraffazioni, maschilismo etc. 

La domanda identitaria tenta di rispondere, a priori, al quesito primordiale: "Chi sono?" La comunità chiusa sta alla base delle scelte che l'individuo effettua e tramanda valori e comportamenti che creano l'individuo in quanto persona e, di conseguenza, le appartenenze non vengono mai scelte, ma sono fissate una volta per tutte.

Esistono altre forme di comunità non chiuse? A questo quesito non so rispondere. Penso però che la questione aperta dalla nuova destra e da alcune sinistre sia seria ed importante proprio per le ricadute politiche, a mio parere negative, che si possono avere. 

Allora quale risposta o quali risposte, sempre che sia possibile darle, da un punto di vista di classe ed anarchico. Partiamo inizialmente da due postulati:
1) Ognuno di noi nasce in contesti sociali, politici, culturali, economici che sono la costruzione e l'intreccio di tantissimi fattori che si muovono sia su di una scala temporale consequenziale o lineare sia su una scala di contemporaneità. Da essi non possiamo in alcun modo prescindere, ma possiamo però lottare per modificarli e contribuire a modificarli in virtù di principi e valori propri e in virtù di scambi con altre persone che portano similarmente a noi principi e valori comuni.
2) I nostri principi e valori comuni, e mi riferisco in particolare a quelli di eguaglianza sociale, ovvero di comunismo anti-gerarchico ed anticapitalistico, e di libertà come ricerca e come accesso libero alla sperimentazione (culturale, sociale etc.), ovvero l'anarchia, sono nati ed impregnati di positivismo ottocentesco europeo, limite intrinseco teorico e geografico allo sviluppo universalistico delle nostre teorie.
Quale è allora la nostra forza, o meglio quale dovrebbe essere?
A) Le nostre teorie si rifiutano di pre-determinare gli esiti della storia, ma provano a cambiarla come atto cosciente e volontario dell'essere umano volto a modificare la condizione di sudditanza nella quale si trova.
B) Le nostre teorie, benché ancorate a luoghi ed ambienti, quando parlano di giustizia sociale radicale parlano invero ai più nel mondo e parlano gli stessi linguaggi di persone che richiamano con parole diverse gli stessi concetti.
C) La nostra grande forza è nella libera sperimentazione, dove, accomunati da principi comuni di eguaglianza e di libertà, non abbiamo modelli pre-costituiti di socialismo da caserma.
E quindi pensiamo, alla fine, che in ogni luogo, le persone, liberamente associate, possano trovare la loro strada per liberarsi dalle tradizioni di sfruttamento e mantenere ciò che, invece, provenendo dal passato più o meno remoto possa contribuire alla loro crescita a quella degli altri ed alla loro libertà. Sappiamo anche che questo processo, sempre che avvenga, non sarà né indolore, né senza conflitto: anzi di conflitto si nutre e del conflitto si fa motore.

Pietro Stara 


(Stralcio di un articolo tratto dal periodico anarchico Umanità Nova) 


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