martedì 3 settembre 2019

Ecologia della comunicazione nell’epoca dell’incantamento digitale

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La nostra è l’epoca dell’incantamento digitale, della comunicazione globale e degli scambi veloci ed interattivi: l’era dell’intimità esteriorizzata attraverso i social network. Indubbiamente trascorriamo sempre più tempo a navigare in internet e a dialogare attraverso le chat ed i newsgroup, spesso convinti di sostenere un autentico rapporto di comunicazione. 

Proprio in questo settore stiamo assistendo alle più grandi innovazioni e progressi, ma mai come oggi sentiamo parlare così tanto di isolamento e di solitudine, anche perché gli strumenti scientifici e tecnologici non sempre forniscono valide risposte alle nostre domande di senso, non sempre colmano quella percezione di vuoto che deriva dall’assenza di legami reali. 

Paradossalmente le condizioni di isolamento e di solitudine trovano spazio soprattutto in quegli agglomerati urbani dove molti scelgono di vivere per sentirsi meno soli, in quei luoghi dove la folla domina incontrastata sull’individuo. Eppure, in un mondo sempre più integrato ed uniformato, tutto questo martellante e onniavvolgente comunicare sembra assumere le sembianze tranquillizzanti di un unico grande supermercato che porta con sé i segni di laceranti ed insanabili contraddizioni. 
Come sosteneva McLuhan, i media elettronici hanno abolito sia il ‘tempo’ sia lo ’spazio’, facendoci perdere la capacità di ripartire i ruoli e di assumere punti di vista individuali.
Nell’agosto 2009, dalle pagine del Wall Street Journal, John Freeman lanciava il Manifesto della Slow Communications sottolineando come l’ambiente tecnologico che ci siamo costruiti intorno agisca su di noi con una pressione tale che non siamo più in grado di sopportare. Certo è che l’impatto con il vortice di stimoli derivati dai dati e dalle informazioni conseguenti all’iper-esposizione ai media e agli strumenti digitali rischia di farci perdere le capacità di scelta. Nelle sue dichiarazioni di intenti Freeman così evidenziava: “I nostri giorni sono limitati, le nostre ore sono preziose. Dobbiamo decidere che cosa vogliamo fare, che cosa vogliamo dire, di che cosa e di chi dobbiamo prenderci cura. Bisogna pensare come vogliamo ripartire il nostro tempo in base a queste domande, entro limiti che non possiamo cambiare. In poche parole, dobbiamo rallentare”. 

Oggi, ci troviamo di fronte ad un curioso quanto inquietante paradosso: “da un lato ripetiamo ad nauseam che viviamo in un mondo sempre più complesso, dall’altro abbiamo creato una cultura della comunicazione che rende difficile, se non impossibile, ritagliarsi spazi e tempi per riflettere tranquillamente e senza distrazioni. In un mondo che esige risposte in tempo reale abbiamo perso la capacità di affrontare problemi complicati”.
Per dirla con Zygmunt Bauman, sociologo della ‘modernità liquida’, “viviamo in una condizione di affollata solitudine” di fronte alla quale c’è chi intraprende percorsi spirituali o avventure estreme pur di ritrovare un’autentica solitudine. Sarebbe pertanto utile domandarsi da cosa derivi questa abnorme e patologica paura per tale condizione esistenziale. Di fatto il diffondersi e il radicarsi dell’isolamento e della solitudine fra generazioni viene scarsamente affrontato e approfondito sul piano politico e sociale. 

Spesso l’isolamento generazionale è proprio di chi non riesce a svolgere e a dare valore al proprio ruolo sociale nelle varie fasi della vita. Per reagirvi occorre un lungo e costante lavoro culturale per ricollocare la persona al centro delle questioni reali; un lavoro che sappia promuovere la cultura dell’essere e della costruzione del proprio essere attraverso la riscoperta del senso della storia, della tradizione e della continuità con i valori che contano. Tuttavia, le incessanti informazioni che riceviamo non facilitano la ricerca delle relazioni e del senso di appartenenza poiché tendono spesso a trasferirci virtualmente in un altrove, o in un futuro che ci viene rappresentato sempre migliore del presente. Illudendoci di sentirci ovunque a casa rischiamo di non trovarla più. 

In realtà la nostra sfera emotiva è più lenta e più profonda della nostra mente; proprio per questo non riesce a trovare spazio nella velocità di un vissuto sempre più superficiale e meno qualificante. È pur vero che la ricerca della solitudine (spesso considerata negativa anche per la perdita della capacità di stare soli per brevi periodi) può offrire valide occasioni per riflettere, raccogliersi e ritrovarsi. Essa stessa presenta molteplici aspetti positivi che inducono a sondare le nostre emozioni e i nostri timori verso l’ignoto, a realizzare la nostra vera natura e i nostri talenti, a reagire ai sempre più pervasivi modelli massificanti e a quel fluire incessante di messaggi spesso banali ed estranianti. 

Stiamo disimparando a riconoscerne l’importanza e l‘utilità, essendo stati indotti a diffidare di tante altre cose che attengono alla nostra parte più autentica e profonda, a quella parte che necessita del silenzio per rivelarsi. Ed è proprio l’aver dichiarato guerra alla natura, in nome di una battaglia insensata che chiamiamo progresso, e che si sta fatalmente ritorcendo contro noi stessi, che ci rendiamo così vulnerabili e irragionevoli di fronte alla solitudine… uno stato d’animo da conoscere per ascoltare la voce interiore che sprona a vivere nei modi più equilibrati e adeguati, per ritrovare i valori inalienabili della riflessione critica, dell’impegno etico e della solidarietà. 

L’affollamento, dunque, è la quintessenza dell’isolamento, proprio perché la folla è negazione della comunicazione autentica e del relazionarsi con sé stessi e con gli altri. Il vero paradosso è che per comunicare realmente bisogna prima conoscere sé stessi, ma per conoscersi bisogna diventare prima di tutto sé stessi, attraverso l’ineludibile percorso creativo ed introspettivo della solitudine che si nutre del silenzio. 

Un silenzio ben diverso da quel ‘mutismo’ proprio dell’isolamento, che trova nell’affollamento e nell’insignificanza del proprio ‘comunicare’ tutta la sua imbarazzante dimensione di chiusura e di (in)sofferenza.

Italo Carrarini


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