In funzione di ciò che
crediamo di essere (segno-genetica) e della classificazione delle
esperienze (ascendente-epiginetica) e delle priorità del momento
(case-emozioni) colleghiamo i puntini che vediamo nell’immaginario
personale, per costruire il disegno della realtà oggettivata.
Le biografie hanno l’istinto di mantenersi e di evolvere
esclusivamente secondo la propria natura, cioè per il presente che è
in noi, istante dopo istante. In funzione di questo assunto, si
può credere che l’esigenza sia il deus ex machina delle scelte o
azioni di ogni essere senziente. Un esempio, ma ogni momento ne offre
altri, è la persistenza di un’esigenza – o anche di una
coercizione – per la quale il rischio di soddisfazione è massimo.
Così si diviene ciò che si immaginava di diventare, o non si riesce
a divenirlo nel caso della mortificazione. È un’espressione del
potere spirituale che a tutto soggiace e che, per la verità, agisce
sempre e solo in quel modo, sia esso presente nella consapevolezza
che assente nell’inconsapevolezza.
Il calore rende il maschio
coraggioso e la femmina disponibile/obbligata a darsi. Nelle donne è
mitigato/esaltato dalla franosa cascata di stimoli che non risparmia
nessuno. L’istinto all’accoppiamento arriva a essere soppresso
nelle timorate o scatenato nelle ninfomani. Estremi di un ampio
spettro nel quale la maggior percentuale non sfugge al bisogno
materno di avere figli. Un’esigenza radicale che contempla, senza
timore di blasfemia morale, l’opzione di un padre qualunque.
Un’eventualità molto relativa all’età. Un concetto che include
le idee che la futura gestante ha in merito alla sua vita, alle
indicazioni medico-scientifiche, alla concezione di sé, alla
dipendenza/indipendenza dal giudizio/contesto/educazione
famigliare/sociale, all’energia necessaria, alla necessità
impellente, inderogabile e irrinunciabile di essere madre e al
percepito esaurimento della fase giovanile.
Se quanto elencato, in buona
misura, può dirsi corrispondente all’ordine consuetudinario, il
vero comando, la vera spinta a gettarsi nello sconosciuto universo
della maternità, viene dalla natura. Non quella che vediamo,
ammiriamo o vogliamo proteggere, ma quella interna, che nessuna
barriera, che non sia ideologica, separa da quella esterna.
Per compiere scelte, con
pari modalità a quelle della natura, agiscono su noi altre forze,
quali i valori, i desideri, le necessità, eccetera. Ma tutte,
indipendentemente dalla razionalizzazione che le può definire e
argomentare, sono emozioni che appartengono alla dimensione
dell’esigenza.
Due di queste esigenze sono
la disponibilità all’ascolto e l’interesse personale. Una specie
di diade creata dai suoi opposti. Due ottiche con le quali, chi più
chi meno, si osserva il mondo al fine di trovarvi posto. Uno scopo
indispensabile alla stabilità psicologica, sebbene perseguito e/o
raggiunto con un criterio di avanzamento diverso tra uno e l’altro.
I nessi che compongono la
rete e disegnano il mondo, la realtà e l’altro visti dalla persona
in ascolto, sono differenti da quelli correlati da chi trova la sua
ragione d’esistenza nell’essere o sentirsi vincitore, se non
superiore, nelle relazioni della vita.
Indizi sui nessi di ognuno
si evincono osservando il suo banco di lavoro, cioè cosa dice e come
reagisce agli eventi in cui è coinvolto, contrari, se non
pericolosi, per la propria struttura. Ne abbiamo qui
un Oscar di incompetenza assoluta e contemporaneamente di
arroganza e mirabile superstizione. Se una psicologia, quella
dell’ascolto, può essere detta o tendere al gentile e
all’accogliente, quella mossa dal movente egoistico ha
tendenzialmente maggior disponibilità al carattere cinico e/o
brutale.
L’intento o la modalità
di entrambe le psicologie rischia, però, di risultare fallimentare
proprio in funzione della prevaricazione dell’ascolto. Un epilogo
piuttosto frequente quando l’attore, diciamo così, non è
all’altezza della situazione. Esempio universale, che vale per
tutti gli ambiti della vita, è quello delle vessazioni del
capo-ufficio nei confronti dei suoi subordinati. Protagonisti di una
dinamica sempre replicata in tutte le relazioni con costumi
differenti.
Per quanto importante,
tralasciando l’inestinguibile connubio eterogeneo tra la modalità
ascolto e quella egoistica – che fa tutti noi, in momenti e
quantità differenti, figli di quel talamo – si può osservare come
al primo corrisponda il dono, e al secondo il furto.
Così procedendo, l’elenco
delle differenze si fa copioso. Nella colonna dell’ascolto trovano
posto voci che implicano la volontà di entrare in contatto con
l’altro al fine di portare solidarietà e aiuto. Ascoltare è
riconoscere le costellazioni del firmamento del nostro interlocutore,
le ragioni dei suoi perché, del suo stato, delle sue necessità.
Ascoltando possiamo anticipare, divenire preveggenti, in quanto
l’astensione del giudizio che vi è implicata permette di arrivare
a vedere l’architettura trabecolata e i suoi punti deboli, di forza
e di vulnerabilità, egregore, ideologie, eccetera. Tutte forze
potenti che l’ascolto – e con esso il suo enattivo braccio
destro, la pazienza, e anche il sinistro, l’umiltà – può
arrivare a vedere chiaramente.
Purtroppo l’ascolto non è
parte costituente della nostra formazione culturale. E, se esso può
dirsi una modalità intrinseca nell’uomo compiuto, si può
concludere che siamo immersi in una società impreparata ed esposta
ai gravi cedimenti che l’attualità di ogni giorno ci riferisce e
che, cosa ulteriormente grave, considera e consideriamo ordinari
E ora, assuefatti più di
sempre alla morale mercantile del capitalismo, la cui ontologia è
geneticamente estranea ai parametri della solidarietà, come
rinascere da tanta aridità spirituale? Fare leggi ad hoc non cambia
nulla, è come quando si arriva al parliamone,
se la relazione d’amore non è più quella di prima: il piano
razionale non ha punti di coniugazione con quello
sentimentale-emozionale. Basterebbe dire il
fritto fa male
per cancellare le patatine dalla faccia della terra. Che può fare
una legge nei confronti della cultura se non artefarla ancor più, se
non aumentare le distanze dalla terra?
Così, in assenza della
cultura dell’ascolto non solo non possiamo riconoscere
l’inderogabile legittimità dello stato dell’altro, ma neppure
l’origine profonda delle nostre scelte e dei nostri malanni.
Senza l’ascolto siamo
menomati e, quindi, esposti al rischio di seguire effluvi virtuali
che con la realizzazione di noi stessi nulla hanno a che vedere.
Anche nel caso li si voglia concepire come necessari a noi, per
divenire istruttivi, serve nuovamente ascolto.
L’altra dimensione della
diade, che a questo punto potrebbe anche essere tralasciata, ha del
drammatico. Essa è pregna di identificazioni con i propri giudizi,
con la propria morale. Strumenti affilati come bisturi, sempre pronti
alla sopraffazione altrui in nome del nostro successo, dell’onore
della nostra autostima. Strumenti separatori di cui dovremmo avere
consapevolezza, al posto di cercare di diventare capo-ufficio.
Lorenzo Merlo