lunedì 29 febbraio 2016

Integrazione del territorio in chiave di omogeneità culturale ed ambientale - Una proposta per il Monferrato di area casalese

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La cartina mostra i comuni che gravitano su Casale Monferrato e costituiscono il Monferrato “casalese”, nella cartina ne mancano alcuni della Lomellina, Vercellese ed Astigiano


Da parecchi anni sono testimone, non solo individualmente, del declino del territorio che per secoli è stato un importante ed influente stato preunitario e che oggi viene considerata una “regione storica” denominata Monferrato, in particolare nell’area “casalese”, quella che fa riferimento alla città di Casale Monferrato, divenuta a partire dal 1435 d.c. l’unica capitale del Marchesato di Monferrato, e del suo territorio di influenza che coinvolge una cinquantina di comuni, localizzati prevalentemente nel nord dell’alessandrino con limitate estensioni nell’astigiano e nel vercellese e pavese.

Le riflessioni che farò ritengo siano applicabili in molte altre località di provincia.
Il problema di fondo socioculturale che caratterizza in particolare l’area casalese, ma è analogo a molte altre zone italiche, è l’eccesso di servilismo e la mancanza di attributi. E’ il motivo per cui sono sempre stato considerato con diffidenza, pregiudizio ed ostilità, dalla politica partitocratica clientelare, perché nel corso della mia esistenza non ho mai esitato ad assumere atteggiamenti critici, sia a voce che per iscritto (cosa ancor più grave ed indisponente), nei confronti di qualunque autorità istituzionale locale avessi da affrontare che stesse cazzeggiando, temporeggiando, bluffando o mistificando.

Come ben sapete, sono pochi coloro che accettano le critiche, ancor meno coloro che le apprezzano, ecco perché l’Italia è divenuto un paese di yesman e quaquaraquà ed è ridotto in stato fallimentare. Persone come me sono sempre state emarginate perché ritenute pericolose per l’establishment, in quanto preferiscono vivere libere ed indigenti piuttosto che da servi o peggio ancora da schiavi di lusso (meno che mai per sottomissione spontanea con catene invisibili).

Fatte queste brevi premesse, consapevole che con gli attuali presupposti è da ingenui porsi alcuna aspettativa e prospettiva favorevole, perso per perso, tanto vale avanzare una proposta importante e lungimirante, seppur difficilissima da realizzare, come quella che in seguito esporrò, nella quale concentrare tutte le forze assumendo posizioni forti e di primo acchito certamente non popolari, nella quale si sia disposti a dare “calci nelle palle” a chi lo merita, dichiarando apertamente che i tanti (troppi) sindaci “caporali” (alla Totò per intenderci) o “blagheur”, devono “andarsene a quel paese” (nel senso metaforico, l’importante è che abbandonino quello reale), rinuncino cioè alla loro carica istituzionale per costituire e confluire in un comune unico che rappresenti l’intero Monferrato di area casalese.

Castello di Casale Monferrato risalente alla metà del XIV, nel quale nel 1435 si è insediata definitivamente la Corte Marchionale del Marchesato di Monferrato, in precedenza la Corte Marchionale era itinerante

Le identità dei singoli borghi con la loro storia plurisecolare (genius loci) si potranno mantenere con i Municipi e con i loro rappresentanti che dovrebbero ispirarsi ai Consoli medievali, quando esistevano le Magnifiche Comunità Locali, che venivano eletti per meriti e qualifiche dai notabili e dai rappresentanti delle varie corporazioni di arti e mestieri e non per motivi politici partitici o per interessi di parte, e se non facevano quello che ci si aspettava venivano sostituiti e comunque avevano una rotazione frequente.

Troppi sindaci tra quelli attuali, che amministrano borghi di poche centinaia di abitanti (a volte poche decine), hanno una visione che è fissa all’ombelico, qualcuno arriva alla punta del proprio naso, altri si specchiano per rimirare il proprio Ego, pochi hanno veramente a cuore le sorti della loro comunità e del territorio ed alzano lo sguardo oltre l’orizzonte. E’ anche una questione probabilistica, nel senso che è difficile in una piccola comunità trovare qualcuno disposto a fare il sindaco e che per dipiù sia pure dotato di qualche talento e non sia motivato solo da carrierismo politico e/o ricerca di visibilità.

Ecco perché è giunto il tempo di parlar chiaro e non di mediare servilmente ed ossequiosamente, occorre dire loro quello che si pensa, gli attuali sindaci di piccole comunità devono fare un passo indietro soggettivamente per favorire il territorio, probabilmente non lo faranno mai per autocoscienza evolutiva, ecco perché occorre pervenire a linguaggi critici anche forti, i soli che potrebbero smuoverli, facendo alzar loro lo sguardo con un minimo di lungimiranza …

Tra l’altro pochi ancora ci hanno pensato, perché vedono solo i soldi in arrivo, cioè i lauti contributi previsti per le fusioni tra comuni, ma se si crea un grande comune unico per un intero territorio omogeneo, tutti avranno il diritto di votare alle elezioni amministrative e quindi anche le liste civiche (vere) potranno avere maggior voce in capitolo rispetto alle solite fazioni politiche ormai sputtanate più o meno ovunque, ai minimi storici come credibilità.

Castello di Moncalvo risalente alla prima metà del XIV secolo che è stata una delle principali Sedi Marchionali del Monferrato

Ho citato spesso in passato la nostra area provinciale (Monferrato “casalese”) come culturalmente retrograda e con gravi problemi sociali e politici che non sto ad elencare ma che la penalizzano gravemente, rispetto a moltissime altre località e regioni del Centro e Nord Italia, molto più dinamiche, attive e lungimiranti. I dati che mi accingo a pubblicare ne sono l’ennesima dimostrazione.

L’Emilia Romagna ha meno di 340 comuni eppure le loro amministrazioni locali sono all’avanguardia nello sfruttare l’opportunità di fondere i comuni per razionalizzare i servizi  e ricevere i previsti cospicui contributi statali e regionali. Lo stanno facendo anche le località vallive appenniniche molto isolate e pertanto non è una questione di radicamento culturale alle proprie identità localistiche, che sono gli alibi cui si ricorre da noi per non fare nulla, per non compiere mai il primo passo, per rimanere nello status quo campanilistico, per attendere fino all’ultimo l’inevitabile, per poi essere costretti a far scelte per costrizione e farle male.

Se anche in Piemonte ci si muovesse come in Emilia Romagna, ed i suoi amministratori locali dovrebbero essere molto più motivati a farlo coi suoi 1200 comuni (alcuni con poche decine di abitanti, molti con poche centinaia), sarebbe anche la regione che maggiormente ne beneficerebbe finanziariamente, socialmente, culturalmente, turisticamente, economicamente, ecc., perché avvierebbe un processo virtuoso, valorizzando il lavoro di squadra anziché le separazioni e gli anacronistici ed aridi campanilismi che la caratterizzano da troppo tempo rendendola sempre più vulnerabile.

Facciamo qualche esempio di quello che avviene in Emilia Romagna dove sono in corso diverse fusioni tra comuni.

La fusione tra Mirabello e Sant'Agostino in provincia di Ferrara (creerà un comune di 10.250 abitanti) riceverà nel corso dei prossimi anni un contributo statale e regionale complessivo di circa 11 milioni di euro, quella tra Bettola, Farini e Ferriere in provincia di Piacenza (circa 5500 abitanti complessivi) riceverà un contributo leggermente superiore (non conosco la legge nel dettaglio ma il contributo dovrebbe favorire soprattutto le fusioni tra piccoli comuni).

Tra le altre fusioni “emiliane” che non sto a citare, c’è ne una interessante tra tre comuni delle dimensioni che da noi in Monferrato avrebbero pressappoco Moncalvo, Trino e Pontestura (circa 13 mila abitanti complessivi), località nostrane che non sto citando a caso, in quanto tutte e tre sono state Sedi Marchionali (ospitavano nei loro castelli o palazzi la Corte del Marchese di Monferrato nel corso dell’anno) e gravitano nell’area territoriale di influenza della Capitale Casale Monferrato. Ebbene questi tre comuni emiliani che hanno deciso di fondersi, tra contributi regionali e statali riceveranno 14 milioni di euro nei prossimi dieci anni.

In questi tempi di crisi e soprattutto di tagli, è una manna caduta dal cielo, in quanto sono contributi extra, che non ne sostituiscono altri ma si aggiungono come fosse una vincita o un lascito ricevuto e che pertanto potranno andare a totale beneficio della comunità e del territorio.

Abbazia cistercense di Lucedio (Trino) risalente alla prima metà del XIII secolo, dove sono sepolti alcuni marchesi del Monferrato

Da moltissimi anni propongo di costituire una Fondazione per la Comunità Locale del Monferrato (cioè una Fondazione Territoriale) e/o un Distretto Turistico del Monferrato, ovviamente partendo dal casalese e quindi mi sembra un naturale proseguimento propositivo pervenire a consigliare di approfittare di questa opportunità legislativa. La possibilità delle fusioni è storia vecchia ma è da poco che gli incentivi sono stati elevati e si cumulano tra statali e regionali, c’è quindi questa possibilità di ricevere notevolissimi finanziamenti per la fusione di comuni (che durano per ben dieci/quindici anni e consentirebbero di fare importanti investimenti territoriali), perché a questo punto non costituire un comune unico che rappresenti il Monferrato di area casalese?

Coi suoi 65/70 mila abitanti questo nuovo ente locale, oltre all’aspetto finanziario la cui importanza per l’intero territorio sarebbe palese, consentirebbe di disporre anche di una forza demografica, identitaria e rappresentativa forte, dal punto di vista politico, storico e culturale (oltre all’unica Capitale Storica del Marchesato di Monferrato avremmo anche diverse Sedi Marchionali), che potrebbe finalmente fornire quella spinta propulsiva che finora è sempre mancata, nel fare in modo che Casale e tutti i comuni dell’area, geograficamente e culturalmente omogenea, possano finalmente riappropriarsi della loro identità storica e culturale e riproporre il “marchio” turistico e territoriale del Monferrato, allargabile poi a quello Storico.

Se non lo fa Casale ed il suo territorio, nessun altro lo farà correttamente (intendo il rappresentare il Monferrato) ma semmai solo per motivi di prosaico interesse speculativo, commerciale e localistico, senza un reale legame solidaristico ed identitario con le sue genti. Inoltre più si attende e più si corre il rischio di essere costretti a fondersi per legge, e quando avverrà probabilmente non ci saranno più gli attuali incentivi, tolti del tutto per imposizione autoritaria legittimata dalla crisi.
Se continuiamo a temporeggiare finirà che non ci rimarrà nulla, ci verrà sottratto tutto, identità, dignità, storia, servizi, ecc. e ci verrà imposto quello che non vorremmo, e potremo solo piangerci addosso.

Gli amministratori locali dovrebbero ormai aver capito che lo Stato accentratore costituisce il problema e non la soluzione, che il parassitismo politico italico è inarrestabile e solo una maggiore autonomia locale potrà porvi dei limiti, intensificando la capacità di auto-organizzazione solidaristica e cooperativistica delle comunità locali.

Ozzano Monferrato, 27 febbraio 2016


Cav. Dott. Claudio S. Martinotti Doria   

domenica 28 febbraio 2016

Distruzione programmata - Inquinanti di nuova generazione immessi nell'ambiente




Un nuovo  pericolo si sta concretizzando per l’ambiente e per l’uomo a causa della crescente diffusione di inquinanti di nuova generazione, per i quali i sistemi di rimozione ed i relativi impianti di trattamento non garantiscono adeguati risultati, trovano particolare riscontro con riferimento ai residui di farmaci, ormai presenti nelle acque superficiali a concentrazioni dell’ordine dei ppb. 


Tali valori di concentrazione sono ancora relativamente lontani dalle soglie di rischio derivanti dalla tossicità di molti di tali principi farmaceutici, ma sono anche di uno – ed in qualche caso due - ordini di grandezza maggiori rispetto ai valori che si potevano rilevare fino a 20-30 anni fa. Ciò dimostra l’esigenza di intervenire per evitare che tale trend si mantenga costante con il risultato di raggiungere in pochi anni valori prossimi ai limiti consentiti per non mettere a rischio la salute dei cittadini. Tale situazione è da imputare all’uso improprio ed esagerato che spesso viene fatto dei farmaci ed ai residui di lavorazione dei processi produttivi nel settore.

A tale situazione in ogni caso, si deve porre rimedio. I depuratori nella maggior parte dei casi sono costruiti con riferimento a classi di composti da rimuovere che rientrano in quelle tradizionali degli inquinanti, alle quali certamente non appartengono i residui di farmaci, data la relativa novità del fenomeno.

L’intervento correttivo non può che passare da un lato per un aggiornamento tecnico dei depuratori stessi e per una loro sempre più puntuale ed accurata manutenzione e dall’altro per sistemi integrativi pubblici e privati di rimozione di tali principi.

In tale prospettiva sembra necessario porre l’attenzione su implementazioni dei depuratori realizzate con impianti a valle dei depuratori stessi e quindi in grado di integrarne l’azione e su strategie di intervento porta a porta con sistemi depurativi da attivare a valle del rilascio dei reflui delle singole industrie per rimuovere da essi i principi farmaceutici ed i farmaci eventualmente presenti. La proposta è quindi quella di dotare ogni azienda di un sistema di monitoraggio dei principi o loro prodotti di trasformazione presenti nei reflui e di un sistema di rimozione basato su processi quanto più possibilmente economici, rispetto a questo tipo di problematica, i cosiddetti AOP (metodi di ossidazione avanzata),differenziati a seconda dell’ossidante utilizzato o dell’eventuale miscela di essi. Tale approccio soffre di tutti i difetti dei processi basati su reazioni chimiche “sporche” (gestione e controllo delle reazioni, ulteriori reflui prodotti, reattivi)

Alternativamente si possono adottare metodi fisici e biologici.

I primi prevedono l’utilizzo della luce solare per realizzare, in condizione di catalisi eterogenea da parte di biossido di titanio in forma anatasio, la fotodegradazione dei farmaci eventualmente presenti. Il processo può essere rinforzato assistendo la luce solare con un’opportuna sorgente di radiazione ultravioletta.

I secondi si affidano invece a microorganismi o a singoli enzimi (ossidasi, idrolasi, cicloossigenasi ) liberi, immobilizzati o operanti direttamente in suoli di sacrificio.

In entrambi i casi si dispone della tecnologia necessaria e si dichiara la disponibilità a descrivere in dettaglio il progetto e ad eseguire sperimentazioni in vivo presso produttori interessati e disponibili.


(Fonte: A.K.)

sabato 27 febbraio 2016

Bioregionalismo elettivo e bioregionalismo etnico




Clenz Domus Venece: "...difesa dalle orde barbariche (homo homini lupus?) alias dalle invasioni di popoli sospinti dall'Eurasia centrale attorno all'anno 1000, 1200, 1300.. ovvero quando il mito di Gengis Khan (imperatore dei due oceani, pacifico e atlantico) plasmava le radici delle attuali identità eurasiatiche, dando il germe dei futuri imperi/regni della Cina, India Moghul, Persia sasanide, Turkestan ottomane, Ellade gregoriana (alias greco-romana, detta bizantina dai cronologisti gesuiti), Russia dell'orda, Slavonie, regni del centro-Europa (alani, franchi, anglo-sassoni, bulgari, goti, vandali, etc).. e l'Italia dei molti popoli nativi (lucani, liguri, venedi, etrussi, siculi, volsci, sabini, piceni, sardi, etc) si difendeva come poteva alle orde successive di "conquistadores" che, 2 secoli successivi, avrebbero proseguito la loro avanzata nelle Americhe... il forte persistere del bioregionalismo italico si può allora meglio comprendere ammettendo che i latini dell'Impero Romano 'occidente, siano solo stati una semplice fiction montata in epoca rinascimentale per nascondere la caduta definitiva della vera Roma (Costantinopoli) e voler trovare ad essa un nuovo luogo Rom'antico individuato dai Franchi nella libera penisola Italica (periferia dell'impero greco-romano di Costantinopoli, il quale aveva un proprio esarca in Ravenna), nelle paludi alle foci del fiume Tevere; qui i miti nativi antichi, vennero "virgiliamente", Petrarcamente" collegati ai miti imperiali della "Romania, ma l'anima dei popoli italici (bioregionalismi) sopravvisse nei suoi dialetti, ricette, usi e costumi, mentre la fiction di una lingua latina (lingua di classe, non di popolo) restò ristretta nei club dei classici, ovvero nelle università di letterati della classe mandarin e nulla residua in pastori o contadini in qualsivoglia angolo sperduto dell'arcipelago Italia..."

Paolo D'Arpini: "...mi piace l'afflato poetico ma il bioregionalismo non è propriamente un movimento etnocentrico... e le "orde" menzionate che transitavano sotto Montelupone erano essenzialmente quelle dei paesi vicini che andavano a razziare le contrade sperdute. Nel medioevo le Marche erano terra di passaggio e di conquista di vari eserciti, da quelli papalini ed imperiali (sacro romano impero) a quelli delle baronie locali, sempre in lotta fra loro. Di tanto in tanto implementate, le orde, da scorribande saracene... per questa ragione quasi tutti i centri abitati si erano spostati su alte colline... la stessa cosa è avvenuta in tante altre regioni d'Italia....  

Per quanto riguarda l'appartenenza al movimento del bioregionalismo,  va detto che questo termine non denota una appartenenza etnica bensì la capacità di rapportarsi con il luogo in cui si risiede considerandolo come la propria casa, come una espansione di sé. La definizione diviene appropriata nel momento in cui si vive in sintonia con il territorio e con gli elementi vitali che lo compongono.

Infatti chiunque può essere bioregionalista indipendentemente dalla provenienza di origine se segue la pratica dell’ecologia profonda, del vivere cercando di essere in sintonia il più possibile col mondo che ci circonda, in un modo in cui, pur sentendosi liberi di manifestare se stessi nelle proprie caratteristiche peculiari, non si ha bisogno di provocare danni all’ambiente od alla società in funzione di un personale esclusivo vantaggio. Nel bioregionalismo si cerca quindi di riportare un equilibrio fra l’uomo, l’ambiente e gli altri esseri viventi e non. E’ molto importante che si tenga sempre presente questo “spirito” in cui l’ecologia “profonda” diventa una pratica costante della vita, come un sottofondo profumato..."

Clenz Domus Venece: "...certo, ho preso spunto per una riflessione più ampia poiché, se è vero che il paese può venir inglobato in realtà più grande con il rischio di perdita di identità, è pur vero che questa politica è vecchia quanto la evoluzione degli stati sovranazionali. A me la domanda che si pone è: può coesistere un regionalismo etnico (identità di un luogo) con il globalismo di una unica lingua, identità cultura, etc, senza un conflitto tra le due tendenze? Se sì, in che termini è possibile che un indigeno possa preservare parte della sua identità in un mondo che corre verso l'accorpamento di tutto?"

Paolo D'Arpini: "...quando si parla di adattamento alla comunità in cui si vive, si sottintende anche che possa esserci un rischio di omologazione e cambiamento del proprio stile di vita, d'altronde è inevitabile che quando l'uomo si sposta dal suo habitat originario debba adattarsi ad un nuovo ambiente, questo fa parte dell'adattamento generale alle nuove condizioni, che è necessario al mantenimento della vita. La memoria comunque resta, come resta il patrimonio genetico, l'adattabilità è un aspetto evolutivo, mentre l'incapacità all'adattamento (od il suo rifiuto) è un aspetto involutivo. Con il cambiamento alcuni aspetti diventano sopiti ed altri vengono sollecitati ad emergere. D'altronde è la stessa identica cosa di quando usciamo dal grembo materno ed affrontiamo il mondo esterno... Non possiamo sfuggire al processo evolutivo, ma il disagio incontrato in nuovo ambiente, talvolta anche ostile, non implica che si debbano compiere sforzi per distruggerlo, piuttosto che si crei una sorta di equilibrio. Questo è l'equilibrio della sopravvivenza... e direi anche della buona attuazione bioregionale."



Dialogo conseguente alla pubblicazione dell'articolo http://bioregionalismo-treia.blogspot.it/2016/02/in-difesa-delle-piccole-comunita.html

venerdì 26 febbraio 2016

Azioni da intraprendere per la qualità dell'ambiente urbano


L’ultimo capitolo del Rapporto “Qualità dell’ambiente urbano”, curato annualmente da ISPRA, è dedicato alle azioni intraprese a favore della sostenibilità urbana da parte delle amministrazione comunali delle 85 città campione.
Il contributo è suddiviso in 6 sezioni che illustrano gli strumenti volontari e le politiche di mitigazione direttamente connessi alla vita sociale adottati::
  • Banca dati GELSO: le buone pratiche di sostenibilità locale
Nel capitolo vengono messe in rilievo alcune esperienze significative emerse dalla rilevazione delProgetto GELSO (GEstione Locale per la Sostenibilità) curata da ISPRA che si propone di favorireBuone pratiche settori di interventola diffusione di buone pratiche. I dati raccolti sono aggiornati a luglio 2015 e ad oggi il DB raccoglie più di 1000 azioni attuate da amministrazioni locali, associazioni, enti di ricerca, scuole, università o soggetti provati in diversi settori: Strategie partecipate e integrate, Agricoltura, Edilizia e Urbanistica, Energia, Industria, Mobilità, Rifiuti, Territorio e Paesaggio, Turismo.

L’indagine ha messo in evidenza che le attività sostenibili delle amministrazioni si concentrano soprattutto nei settori energia, mobilità e rifiuti e che molte sono attuate in partnership.
Per esempio, per incentivare ulteriormente la differenziazione dei rifiuti, la città di Pisa ha messo a punto un sistema premiante che prevede l’uso di unaTessera a punti che consente, per le utenze domestiche, la possibilità di accumulare eco-punti con cui ottenere uno sconto sulla bolletta, in proporzione alle quantità e alle tipologie di rifiuto conferite.
  • Pianificazione locale
Nella seconda sezione viene affrontato il tema degli strumenti di pianificazione locale di nuova generazione attraverso gli indicatori che sono scaturiti dal monitoraggio 2015 del Progetto A21L di ISPRA. In particolare, l’analisi si è focalizzata su: strumenti urbanistici di nuova generazione, strumenti di partecipazione, strumenti di welfare urbano e misure per l’energia sostenibile.
Nel contributo sono presentate una serie di Mappe Tematiche che per ogni tematica visualizzano glistrumenti attuati che sono il risultato del monitoraggio 2015 del Progetto svolto da ISPRA presso le amministrazioni locali attraverso apposito questionario con verifiche su materiale documentale e fonti bibliografiche.
  • Patto dei Sindaci
Voluta dalla Commissione e dal Parlamento europei nel 2008, l’iniziativa mira al coinvolgimento degli enti locali nella lotta al cambiamento climatico per quanto riguarda la riduzione delle emissioni di gas climalteranti. Aderendo al Patto dei Sindaci, infatti, l’ente locale si impegna volontariamente aridurre le emissioni del proprio territorio di almeno il 20% entro il 2020. Complessivamente delle 85 città considerate risulta che 62 città abbiano aderito al Patto dei Sindaci.
  • EMAS e la gestione dei territorio
Relativamente alla certificazione ambientale volontaria EMAS, l’Italia, in Europa, detiene il primo posto per numero di Pubbliche Amministrazioni registrate, seguita dalla Spagna.Siti registrati EMAS
Il Rapporto 2015 ha elaborato i dati estratti dal Registro delle organizzazioni EMAS tenuto dall’ISPRA considerando però non solo la PA, ma ponendo l’attenzione anche sulle altre realtà private e proponendo come indicatore il numero di siti registratiEMAS ricadenti entro i confini comunali.

Fra le diverse realtà merita una menzione l’esperienza della Provincia di Siena che premiata con l’EMASAWARD nel 2008 grazie al Progetto Siena Carbon free,oggi è la prima area vasta Carbon Free d’Europa(3.821 Km 2 ) ponendosi come modello virtuoso esportabile in altri territori.
  • ECOLABEL UE nelle aree urbane
Il Regolamento Ecolabel UE (66/2010) è una certificazione ambientale volontaria che premia i prodotti e i servizi caratterizzati da un ridotto impatto ambientale durante il loro intero ciclo di vita.
Attualmente esistono criteri Ecolabel UE per 35 gruppi di prodotti/servizi e ad ogni licenza Ecolabel UE rilasciata possono essere associati uno più prodotti/servizi certificati.

Nel Rapporto si è analizzato come le licenze d’uso del marchio Ecolabel UE attualmente in vigore siano distribuite nelle aree urbane selezionate a livello provinciale.
Al 2015, le regioni italiane con il maggior numero di licenze Ecolabel UE totali (prodotti e servizi) risultano essere il Trentino Alto Adige (59 licenze), la Toscana (55 licenze) e la Puglia (54 licenze).
Mentre la Puglia e il Trentino Alto Adige mantengono il loro primato esclusivamente per licenze Ecolabel UE legate ai servizi, la Toscana mantiene il suo primato per la categoria “prodotti”, con 30 licenze.

Analizzando il dato provinciale disponibile per le aree urbane identificate viene confermato il trend regionale generale sopra descritto.
Per esempio, per la Toscana, in Provincia di Lucca sono state ottenute 23 licenze, di cui ben 22 rilasciate al gruppo di prodotti “tessuto carta”.
  • Strumenti di informazione e comunicazione ambientale web
La comunicazione pubblica locale riveste un ruolo strategico perché, facilitando la partecipazione dei cittadini, contribuisce alla riuscita delle politiche ambientali di sostenibilità: in tale ambito è ormai ampiamente riconosciuta l’importanza del sito web e della più recente mobile communication.
Strumenti informazione siti web comuni
Nel contributo sono riportati i risultati del monitoraggio che ISPRA, da otto anni, compie sull’offerta di strumenti di informazione e comunicazione ambientale web dei siti dei comuni italiani, attraverso un set di indicatori molto complesso.
Per esempio, l’analisi dei dati riguardanti la presenza di strumenti di informazione e comunicazione ambientale sui siti web, evidenzia che il Motore di ricerca, l’E-mailindirizzata ad uffici o dipendenti pubblici che nell’ambito dell’amministrazione comunale si occupano a vario titolo di ambiente e la Normativa ambientale sono i tre strumenti maggiormente presenti. Inoltre altro indicatore importante è la presenza di un link, in home page, all’Ufficio Relazioni con il Pubblico (URP) che, insieme al Numero verde, presente nel 73% dei siti analizzati, costituisce un punto di contatto diretto del cittadino con l’amministrazione.

(Fonte: Arpat)

giovedì 25 febbraio 2016

17 aprile 2016 - Il 95% degli italiani forse non sa che per il referendum contro le trivelle si vota "Sì" per dire "No"




Il 95% degli italiani forse non  sa che  per il referendum contro le trivelle si vota "Sì" per dire "No"  

"Il Consiglio dei ministri ha fissato il referendum sullo stop alle trivelle e la consultazione si terrà il 17 aprile 2016.

Quindi ci sarà un referendum non affiancato alle elezioni amministrative, come era stato proposto e richiesto nella speranza di far risparmiare all'erario 300 milioni di euro,  invece  il presidente della RepubblicaSergio Mattarella, ha ufficialmente firmato il decreto che conferma il referendum sulle attività petrolifere a mare - entro le 12 miglia dalla costa - per i titoli abilitativi già rilasciati, "per tutta la durata di vita utile del giacimento". A volte certe foto possono molto, come quella degli attivisti di Greenpeace, entrati in azione a Roma, a piazza Venezia davanti all'Altare della Patria, per protestare pacificamente contro la strategia energetica del governo e invitare gli italiani a votare al referendum sulle trivelle del prossimo 17 aprile. Gli attivisti hanno disseminato la piazza con una trentina di piccole trivelle e aperto un lungo striscione: "L'Italia non si trivella". Greenpeace tramite Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace, dichiara: "Siamo in questo luogo così simbolico per il Paese per ricordare ai cittadini che il referendum del prossimo 17 aprile riguarda l'Italia nella sua interezza.

«Le trivelle sono una grave minaccia per i nostri mari, e già questo sarebbe motivo sufficiente per respingerle. Ma esse rappresentano anche un indirizzo energetico insensato, che condanna l'Italia alla dipendenza dalle fonti fossili. Un favore alle lobby del petrolio che espone a rischi enormi economie importanti come il turismo e la pesca», dicono da GreenPeace. 
«Sotto i nostri fondali c'è una quantitativo di petrolio che, se potessimo estrarlo in un colpo solo, corrisponderebbe a meno di due mesi dei consumi dell'Italia. Andrebbe poco meglio col gas: circa sei mesi. Vale la pena deturpare i nostri mari per così poche risorse che non sarebbero neppure dell'Italia ma delle compagnie petrolifere?».

Altre reazioni, il M5s:  "Il governo è rimasto sordo agli appelli di tutte le associazioni ambientaliste e ha tirato dritto per la sua strada. Si voterà il 17 aprile per il referendum su alcune trivellazioni offshore e non insieme alle amministrative, in un election day che avrebbe tra l'altro fatto risparmiare centinaia di milioni di euro ai cittadini. Un referendum nato già azzoppato nei contenuti e che con questa decisione il governo vuole definitivamente affossare". 

Univerdela decisione del governo di fissare il referendum sulle trivellazioni è "antidemocratica e scellerata, una truffa pagata coi soldi degli italiani. Il governo ha fissato la data truffa del 17 aprile, per impedire vera informazione e boicottare la partecipazione al voto sprecando oltre 300 milioni di euro , è una vergogna cui il presidente della Repubblica della Repubblica, Sergio Mattarella, può porre rimedio accogliendo la richiesta delle Regioni che sono una fondamentale articolazione della Repubblica italiana di cui Mattarella è il supremo garante. E' assurdo che il Governo ancora difenda scelte petrolifere dannose e di retroguardia mentre le società petrolifere rinunciano alle domande di ricerca perché non economicamente convenienti. Siano quindi gli italiani a decidere con il voto se vogliono un futuro di fossili o di energie rinnovabili''.


Ancora Greenpeace aggiunge: "L'Italia non si trivella, il 17 aprile possiamo votare per allontanare le trivelle dai nostri mari. Estrarre il pochissimo gas, il pochissimo petrolio che ci sono sotto i nostri fondali avrebbe ricadute insignificanti per l'occupazione, le casse pubbliche, la bolletta energetica del paese. Ma sarebbe invece un rischio enorme, un danno per i nostri mari e con essi per la bellezza dell'Italia, per il turismo, la pesca, le comunità costiere".

Vogliamo un diverso futuro energetico e ci rimane solo di farlo sapere a più persone possibili: "IL 17 APRILE 2016 PARTECIPA AL REFERENDUM E   VOTA Sì per dire No alle trivelle"


Doriana Goracci

mercoledì 24 febbraio 2016

In difesa delle piccole comunità bioregionali – Il caso di Montelupone e l'amaro prezzo della perdita del nome



Montelupone, il monte dei lupi, mi ricorda un po' il monte Soratte, anche lì la storia narra di lupi che s'aggiravano nei boschi e di antichi riti della fertilità: i “lupercali”. Ogni volta che transitando sulla Strada Regina tornando a Treia dal mare osservo il cucuzzolo solitario di Montelupone, inserito nel circuito dei Borghi più belli d’Italia, ritorno al tempo che fu, all'isolamento cercato per proteggersi, alla storia secolare di una comunità che osservava dall'alto l'andirivieni di orde barbariche, restando protetta sull'impervia collina. Montelupone oggi è votata alla sparizione, non nel senso fisico, ma nel senso più intimo quello identitario. 

Senza un nome chi sei? Se rinunci al tuo nome per assumerne un altro, anche più altisonante, come “Floris”, ma che non corrisponde alle tue fattezze alla tua storia, cosa diventi? Nulla... Montelupone, una frazione. 

Sono amareggiato dal punto di vista bioregionale della perdita d'identità locale che subentra con le indicazioni livellatrici, della pessima legge Delrio, che spinge i piccoli comuni ad accorparsi. 

Si dice accorpare ma il vero significato è “accoppare”. E poi chi l'ha detto che risulterebbero dei vantaggi nei servizi da tali accorpamenti, da “aree vaste” prive di radicamento nel senso comunitario? I servizi peggiorano, date le distanze e i decentramenti dei vari uffici, la popolazione perde ulteriormente contatto con i propri amministratori, gli interessi dei centri più grandi prevalgono -per la solita legge democratica della maggioranza- su quelli più piccoli.

Si vorrebbero annettere i paesi della Valle del Chienti fino a raggiungere i 60.000 abitanti... quanto conteranno in un tale contesto i 3.500 di Montelupone? 

Se si vogliono soddisfare le esigenze di una buona amministrazione locale risparmiando sui costi, si cominci con l'eliminare le prebende agli amministratori, si crei un servizio di volontariato a rotazione per quei servizi che possono essere condivisi, magari utilizzando il tempo libero degli anziani o dei giovani studenti. Sarebbe un servizio civile utile alla comunità ed a costo quasi 0, soprattutto a km. 0. 

Mentre con l'annessione amministrativa per raggiungere gli uffici decentrati bisognerebbe fare la spola per tutta la Valle del Chienti, in macchina, avanti ed indrè. Per non parlare di altri inconvenienti... come ad esempio l'assoluto estraniamento fra cittadini e amministratori... 

Su 60.000 abitanti quanti consiglieri potrebbe ottenere Montelupone?  Forse nessuno e se ne avesse  uno solo sarebbe grasso che cola. Se ora la gente per strada incontra il sindaco, od un assessore, o anche un semplice consigliere comunale, e può prospettargli i problemi del vicinato, a quale parrocchia dovranno andare a pregare i Monteluponesi per ottenere udienza? 

Questo sistema dell'aggregazione omologante dei piccoli comuni, voluto dal governo Renzi, non tende al miglioramento dei servizi bensì all'annullamento del senso di comunità ed al controllo della cittadinanza, e mi fa venire alla mente la vicenda di Loudun, nella Francia della prima metà del 1600, descritta magistralmente nel libro di Aldous Huxley *


Paolo D'Arpini – Rete Bioregionale Italiana
Via Mazzini, 27 – Treia (Mc) – Tel. 0733216293




* Recensione del libro “I diavoli di Loudun” di Aldous Huxley: Francia, 1631: sotto il regno di Luigi XIII, il cardinale Richelieu, deciso a fiaccare definitivamente le velleità delle città di provincia, ordina la demolizione delle mura di alcuni centri. A Loudun, il barone de Laubardemont, che deve eseguire tale ordine, trova un oppositore in Urbain Grandier, un prete che pur manifestando una sincera religiosità conduce una licenziosa vita privata. La fama di Grandier richiama l'interesse di suor Jeanne des Anges, frustrata superiora delle Orsoline, la quale, allo scopo di stabilire con lui un concreto rapporto, gli offre il posto di direttore spirituale del proprio convento di clausura. Dopo essere stata rifiutata da Grandier, la madre superiora passa ad uno stato di isterico furore che in breve trasmette anche alle consorelle. Il canonico Mignon, venuto a conoscenza delle strane perversioni delle monache, d'accordo con alcuni influenti personaggi ostili a Grandier, attribuisce il fenomeno ad ossessione diabolica e ne incolpa il prete, affidando le invasate suore agli esorcismi del fanatico Padre Barrè. Sadicamente torturato e condannato al rogo, Urbain Grandier muore il 18 agosto 1634, rifiutando però sino all'ultimo di confessarsi reo di colpe non commesse. 
E subito dopo le mura di Loudun vengono rase al suolo....

martedì 23 febbraio 2016

Bioregionalismo e matrismo - Pescara, 12 e 13 marzo 2016: “Dea. La memoria fertile”

Il 12  e 13 Marzo 2016 presso L’Auditorium Castellamare in Viale Bovio, 446 a Pescara si svolgerà un importante convegno su: “DEA. La memoria fertile”. Interverranno relatrici e relatori molti qualificati che cercheranno di affrontare il complesso argomento da molteplici punti di vista. 

L’insopprimibile ricerca del sacro che accompagna l’umanità fin dagli suoi albori, ha assunto durante la storia una molteplicità di credenze e di rappresentazioni condizionando non poco la vita quotidiana e sociale di tanti popoli e di tante generazioni. 

L’intento della Rete Olistica Adriatica, organizzatrice del convegno, è quello di recuperare una memoria fertile con cui le donne, a partire dalla loro particolare sensibilità, hanno cercato di rappresentare il proprio rapporto con il sacro, dando origine a forme devozionali di grande interesse. 

Si è persuasi che recuperando questa dimensione femminile, a lungo avversata da una cultura maschilista e prepotente, l’umanità possa arricchirsi di una saggezza, di una sensibilità, di una visione del mondo e di valori più attenti alla cura, alla pace e all’armonia, tanto più urgenti e necessari, oggi, in cui si assiste al prevalere di violenze e di ingiustizie.

Michele Meomartino




Articolo collegato: http://riciclaggiodellamemoria.blogspot.it/2013/04/matrismo-la-donna-come-punto-dincontro.html


lunedì 22 febbraio 2016

Le ragioni del No - Referendum Costituzionale e Legge elettorale del governo Renzi


Relazione del Prof. Alessandro Pace a Cosmopolitica 20/2/2016 Roma (Testo integrale)
  1. Violazione degli artt. 1 e 48 della Costituzione
Il Governo Renzi, con il d.d.l. cost. AC n. 2613-B, già approvato nella prima delle due deliberazioni richieste per le leggi di revisione costituzionale, si propone di modificare le disposizioni costituzionali contenute nei titoli I, II, III, V, VI della Parte II della Costituzione e nelle disposizioni finali. Ebbene, poiché tali modifiche sono svariate – come si desume dalla stessa intitolazione della legge («Superamento del bicameralismo paritario e revisione del Titolo V della Parte seconda della Costituzione») – una volta che tale legge fosse sottoposta a referendum, coercirebbe la libertà di voto degli elettori (art. 48 Cost.) e violerebbe, nel contempo, la proclamazione della sovranità popolare «nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1 comma 2 Cost.), in quanto, trattandosi di una legge dal contenuto disomogeneo, l’elettore potrebbe esprimere, sull’intero testo, solo un sì o solo un no ancorché le scelte da compiere sono almeno due: la modifica dell’attuale forma di governo (e cioè il rafforzamento del Governo a spese del Parlamento, con un Senato ridotto ad una larva) e la modifica della forma di Stato(essendo rafforzata la posizione dello Stato centrale nei confronti delle Regioni).
Il che evidenzia l’illegittimità costituzionale che caratterizza il d.d.l. cost. AC n. 2613-B, perché viola, come già detto, gli artt. 1 e 48 Cost. Un vizio che non contraddistingueva invece la c.d. riforma della Costituzione proposta dal Governo Letta (d.d.l. cost. n. 813 AS), naufragata strada facendo, il cui art. 4 comma 2 prevedeva appunto che «Ciascun progetto di legge è omogeneo e autonomo dal punto di vista del contenuto e coerente dal punto di vista sistematico».
Ciò sta a significare che la scelta del Governo in favore di una legge costituzionale dal contenuto disomogeneo, è stata consapevole. Il Governo ha infatti inteso sfruttare le diffuse critiche, anche tecniche, sul mal funzionamento della riforma costituzionale dell’ordinamento regionale introdotta dalla legge cost. n. 3 del 2001, per indurre gli elettori a votare Sì, con la conseguenza che il voto sarebbe contestualmente favorevole alle modifiche della forma di governo: obiettivo prioritario del Governo Renzi.
  1. Violazione dell’art. 138 della Costituzione
Il 29 dicembre 2015, nella conferenza di fine anno, Matteo Renzi si è formalmente impegnato a dimettersi da Presidente del Consiglio dei ministri qualora prevalesse il No nel referendum confermativo. Nell’impegnarsi a dimettersi in caso di sconfitta, Renzi ha però inequivocabilmente ammesso che la paternità della riforma costituzionale è stata del Governo. Non invece del Parlamento, il che risponde alla semplice, ma ovvia, ragione istituzionale di non coinvolgere nell’indirizzo politico di maggioranza il procedimento di revisione costituzionale, che si pone ad un livello ben più alto della politica quotidiana: un livello al quale anche le opposizioni devono poter avere voce in capitolo.
Scriveva infatti Piero Calamandrei nel 1947: «Quando l’assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti; estraneo del pari deve rimanere il governo alla formulazione del progetto, se si vuole che questo scaturisca interamente dalla libera determinazione dell’assemblea sovrana»[1].
Un principio – quello dell’estraneità del governo alle revisioni costituzionali – che è funzionale ad un regime parlamentare come il nostro, che è stato rispettato per 47 anni, fino al tentativo di riforma costituzionale Berlusconi (2005), che prevedeva il così detto “premierato assoluto” bocciato dal referendum del 2006; seguito dal tentativo di riforma costituzionale del governo Letta (2013), che pretendeva, con un “crono-programma” alla mano, di derogare alle norme inderogabili dell’art. 138 Cost.; infine dalla riforma costituzionale Renzi. Né può dirsi che questa riforma fosse legittimata da quei due precedenti, perché l’una fu bocciata dal popolo, l’altra naufragò strada facendo.
Che la riforma Renzi, come le due precedenti, costituisca il contenuto di un atto di indirizzo politico di maggioranza in contrasto coi principi testé ricordati, è confermato dai cinque accadimenti che qui di seguito ricorderò. I quali pertanto non costituiscono delle discrepanze procedurali. Essi sono invece perfettamente funzionali all’indirizzo governativo incostituzionalmente impresso al procedimento di revisione costituzionale.
Primo. La presentazione di un disegno di legge costituzionale per la revisione della Costituzione, ancorché non presente nel programma elettorale del PD, era esplicitamente previsto nel programma del Governo Renzi. Esso pertanto costituiva anche formalmente un atto di indirizzo politico di maggioranza.
Secondo. Immediata conseguenza di quella premessa fu la rimozione d’autorità, nel luglio 2014, dalla Commissione Affari costituzionali del Senato in sede referente, di due parlamentari (i senatori Mauro e Mineo), i quali, insieme ad altri 14 senatori, avevano invocato il rispetto della libertà di coscienza per ciò che attiene alle modifiche della Costituzione.
Terzo. In sede di prima lettura del d.d.l. cost. n. 2613 la sen. Finocchiaro assunse le funzioni di relatore di maggioranza e il sen. Calderoli le funzioni di relatore di minoranza. In sede di terza lettura (d.d.l. cost. n. 2613-B), mentre le funzioni di relatore di maggioranza della sen. Finocchiaro le vennero confermate, le funzioni di relatore di minoranza non vennero assegnate, col pretesto della fine del c.d. patto del Nazzareno (B. Caravita), laddove la procedura di revisione costituzionale avrebbe dovuto essere insensibile alle vicende politiche (P. Calamandrei).
Quarto. Nella seduta del 1° ottobre 2015 venne messo in votazione l’emendamento (n. 1.203) a firma dei senatori Cociancich e Luciano Rossi[2], strutturato in modo tale da precludere tutta una serie di votazioni che avrebbero richiesto il voto segreto, con notevoli rischi per il Governo e per la maggioranza. Una specie di super-canguro nel procedimento di revisione costituzionale!
Quinto. Come dirò anche nel prosieguo, il “futuro” art. 57 Cost. presenta un’insanabile contraddittorietà interna, addirittura risibile in un testo solenne come la Costiuzione. Prevede infatti due commi tra loro antitetici. Per uscire da questa contraddizione, si suggerì da più parti, e anche autorevolmente (E.Cheli), di seguire il parere della Giunta del Regolamento della Camera dei deputati, Pres. Napolitano, del 5 maggio 1993, reso nel corso della modifica dell’art. 68 Cost., nel quale era stato correttamente osservato, «in considerazione dell’atipicità del procedimento di revisione costituzionale», che fosse ammissibile l’emendamento soppressivo di un comma già favorevolmente votato dai due rami del Parlamento (caso analogo all’attuale).
Ciò nondimeno la Presidente Finocchiaro, nella seduta del 2 ottobre 2015, senza andare troppo per il sottile, non considerò affatto tale precedente sulla base di un duplice, specioso argomento: 1) che la riaffermazione dell’eleggibilità diretta del Senato avrebbe altresì implicato la titolarità del rapporto fiduciario col Governo; 2) che l’ammissibilità dell’emendamento soppressivo dell’art. 2 comma 2 d.d.l. n. 1429-B sarebbe stato preclusivo dell’intera riforma.
Argomenti entrambi inesatti. Quanto al primo, la sola elettività diretta non implica la titolarità del rapporto fiduciario, Nel sistema parlamentare il rapporto fiduciario lega bensì il Governo a una Camera eletta dal popolo, ma in quanto essa sia titolare dell’indirizzo politico generale. Per contro, nel d.d.l. Renzi-Boschi, il Senato non è titolare dell’indirizzo politico generale. Conseguentemente l’estensione ad esso del rapporto fiduciario col Governo costituirebbe il frutto di una scelta discrezionale del legislatore costituzionale, e non la conseguenza di un principio costituzionale.
Quanto al secondo argomento, l’approvazione dell’emendamento soppressivo del comma 2 avrebbe implicato la sola conseguenza della riconferma dell’elettività diretta del Senato, non il naufragio dell’intera riforma.
  1. Gli accadimenti storico-politici che hanno determinato la curvatura del procedimento di revisione costituzionale a fini di indirizzo politico di maggioranza
Gli accadimenti che hanno di fatto incostituzionalmente determinato l’utilizzo del procedimento di revisione costituzionale a fini di indirizzo politico di maggioranza sono due: da un lato la sent. n. 1 del 2014 con la quale la Corte costituzionale dichiarò l’incostituzionalità del Porcellum sulla base del quale la XVII legislatura era stata costituita; dall’altro l’inosservanza, da parte del Governo e della maggioranza parlamentare, dei limiti temporali che tale sentenza imponeva al legislatore.
Mi spiego meglio. La Corte, pur dichiarando l’incostituzionalità del Porcellum, consentì espressamente alle Camere di continuare ad operare e a legiferare, non però in forza della legge elettorale dichiarata incostituzionale, bensì grazie a un principio fondamentale del nostro ordinamento conosciuto come il «principio di continuità dello Stato». La Corte richiamò due esempi di applicazione di tale principio: la prorogatio dei poteri delle Camere, a seguito delle nuove elezioni, finché non vengano convocate le nuove (art. 61 Cost.); la possibilità delle Camere sciolte di essere appositamente convocate per la conversione in legge di decreti legge (art. 77 comma 2 Cost.). Ebbene, in entrambe tali ipotesi, il «principio fondamentale della continuità dello Stato» incontra limiti di tempo assai brevi, non più di tre mesi!
Pertanto, ammesso pure che le nuove elezioni non potessero essere indette nei primi mesi del 2014 perché lo scioglimento delle Camere avrebbe portato alle stelle lo spread nei confronti delBund tedesco, è però evidente l’azzardo istituzionale, da parte del Premier Renzi e dell’allora Presidente Napolitano, di iniziare una revisione costituzionale di così ampia portata nonostante la dichiarazione d’incostituzionalità del Porcellum, e quindi con un Parlamento delegittimato quanto meno politicamente, se non anche giuridicamente, con parlamentari non eletti ma “nominati” grazie al Porcellum, insicuri di essere rieletti e perciò ricattabili ed esposti alla mercé del migliore offerente. Il che è dimostrato dal record, nella XVII legislatura, di passaggi da un gruppo parlamentare all’altro «con 325 migrazioni tra Camera e Senato in poco più di due anni e mezzo, per un totale di 246 parlamentari coinvolti»[3].
Di questa situazione di fatto, priva di chiarezza istituzionale e politica, l’attuale Presidente del Consiglio ha approfittato, abilmente e spregiudicatamente, con indubbio tempismo e col favore dell’allora Presidente della Repubblica, mettendo immediatamente in cantiere sia la riforma costituzionale sia il c.d. Italicum, la combinazione dei quali conduce alle distorsioni costituzionali ed istituzionali che ho precedentemente elencato.
  1. Nel merito della riforma. L’Italicum come “perno” della riforma costituzionale
È a tutti noto che la ratio della dichiarazione d’incostituzionalità della legge n. 270 del 2005 era stata individuata dalla Corte costituzionale nella «eccessiva divaricazione tra la compressione dell’organo di rappresentanza politica (…) e la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto». Avrebbe quindi dovuto essere intuitivo all’allora Presidente della Repubblica e al Presidente del Consiglio Renzi che un Parlamento nel quale perdurava la «eccessiva sovra-rappresentazione della lista di maggioranza relativa» (quello eletto per la XVII legislatura repubblicana) non poteva considerarsi legittimato a procedere a revisioni costituzionali, come ribadirò nel prosieguo di questo mio intervento.
Ma non solo le norme del Porcellum sono state sostanzialmente riprodotte nell’Italicum, in forza del quale una lista, in sede di ballottaggio, col 20 o 25 per cento dei voti, potrebbe, grazie al premio di maggioranza, conseguire la maggioranza dei seggi, in contrasto con la sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale.
C’è di più. Grazie all’Italicum il rapporto tra legge costituzionale e legge elettorale è stato invertito costituendone il “perno”. È infatti l’Italicum, approvato per primo, ad individuare il vero obiettivo del combinato “legge costituzionale – legge elettorale”, e cioè «verticalizzare il potere e gestirlo senza ostacoli e limiti da parte di nessuno, cittadini compresi» (L. Carlassare).
  1. Le finalità accentratrici della riforma Renzi quanto alla forma di governo e alla forma di Stato
Le finalità accentratrici del disegno istituzionale sotteso alla riforma Renzi sono indiscutibili.
Nei rapporti tra Stato e Regioni di diritto comune (non però nei rapporti con le Regioni di diritto speciale, garantiti da specifiche leggi costituzionali) prevede una netta inversione di tendenza rispetto alla legge cost. n. 3 del 2001. Viene abolita la legislazione concorrente. Sono ricondotte alla competenza esclusiva dello Stato svariate materie in effetti troppo generosamente (o distrattamente) attribuite alla competenza regionale concorrente (ordinamento delle comunicazioni, grandi reti di trasporto, produzione e distribuzione nazionale dell’energia, coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario ecc.). Viene tuttavia venga fatta salva la potestà dello Stato di delegarne alle Regioni l’esercizio. Viene altresì introdotta la clausola di supremazia statale (ribattezzata “clausola vampiro”: A. D’Atena) in forza della quale una legge dello Stato può intervenire in materia non riservata allo Stato, «quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale» (futuro art. 117 comma 4). Come acutamente sottolineato, ci si allontana dal modello “solidale” che, con tutte le sue imperfezioni, caratterizzava la riforma del 2001 e ci si avvicina al modello “competitivo” (G. Azzariti). Il che implica una modifica della forma di Stato.
Quanto invece alla forma di governo, la titolarità del rapporto fiduciario col Governo è attribuita alla sola Camera dei deputati. La quale esercita, collettivamente col Senato[4], la funzione di revisione costituzionale e la funzione legislativa in un numero limitato di importanti materie ed esercita in esclusiva la funzione legislativa nelle restanti materie, con intervento eventuale del Senato, talvolta non paritario rafforzato, talaltra non paritario con esame obbligatorio (per le leggi di bilancio e rendiconto consuntivo)[5]. Elegge, praticamente da sola, nel Parlamento in seduta comune, sia il Presidente della Repubblica, sia un terzo dei componenti del CSM, rendendo quindi irrilevante il voto dei 100 senatori (mentre, altrettanto irrazionalmente, elegge solo tre giudici costituzionali).
Come è ammesso dagli stessi sostenitori della riforma, il combinato della riforma Renzi-Boschi e dell’Italicum determina il «rafforzamento della colloc6azione del Presidente del Consiglio nel circuito istituzionale» (B. Caravita). E ciò per due ragioni. In primo luogo, grazie all’indiscussa primazia che viene riconosciuta al Governo nel procedimento legislativo, essendogli tra l’altro concesso di richiedere alla Camera dei deputati di deliberare, entro cinque giorni, che «un disegno di legge indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia definitiva della Camera entro settanta giorni dalla deliberazione».
In secondo luogo, grazie al cumulo, nella stessa persona, delle cariche di Presidente del Consiglio dei ministri e di Segretario nazionale del partito di maggioranza, il che consente al Premier di influire sulle organizzazioni periferiche di partito e quindi sui consigli regionali e, transitivamente, sulle decisioni del Senato. Si pensi all’elezione di due giudici costituzionali di competenza del Senato, con conseguente abrogazione implicita dell’art. 3 l. cost. n. 2 del 1967, che prevedeva che i giudici costituzionali venissero eletti a maggioranza di due terzi o, tutt’al più, di tre quinti dal Parlamento in seduta comune!
  1. Le molte criticità del futuro Senato. Violazione del principio costituzionale dell’elettività diretta del Senato come forma di esercizio della sovranità popolare
I maggiori problemi li suscita però il Senato, quanto alla fonte di legittimazione e alla composizione, se non anche per le attribuzioni.
Il futuro Senato sarebbe costituito da 100 senatori, cinque nominati dal Presidente della Repubblica e 95 eletti dai consigli regionali e dai consigli provinciali di Trento e Bolzano, nella persona di 74 consiglieri regionali e di 21 sindaci di comuni capoluogo: 21 collegi elettorali composti da poche decine di eletta di persone (in genere da 30 a 50 componenti, con le eccezioni del Molise, 20, della Lombardia, 80, e della Sicilia, 70) per un totale complessivo di circa ottocento elettori.
Ciò premesso, l’enunciato costituzionale secondo il quale «Il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali…»[6] è stato autorevolmente qualificato come una “bestemmia”, alla luce della teoria della rappresentanza politica. In uno Stato non federale, il rappresentante è infatti il Parlamento e il rappresentato è “tutto il popolo” e non le istituzioni territoriali (M. Dogliani).
Inoltre, essendo i senatori eletti dai consigli regionali e provinciali, ma non “direttamente” dal popolo è stata contestata la legittimità costituzionale del “futuro” art. 57 commi 2 e 5 Cost., il quale, come già ricordato in precedenza[7], da un lato che prevede che i senatori siano eletti dai consigli regionali (comma 2) e dall’altro dispone che l’elezione dovrà avvenire «in conformità alle scelte degli elettori» (comma 5). La si è contestata, in forza del principio della sovranità popolare (L. Carlassare, A. Pace) sulla base della stessa giurisprudenza costituzionale, richiamando, sul punto, due importanti pronunce: la notissima sent. n. 1146 del 1988, nella quale si statuì che i «principi supremi della Costituzione» – tra i quali la Corte ha ripetutamente incluso la proclamazione della sovranità popolare (art. 1 Cost.) – non possono essere contraddetti nemmeno da una legge costituzionale; e la non meno nota sent. n. 1 del 2014 (dichiarativa dell’incostituzionalità del Porcellum), nella quale la Corte, nell’interpretare l’art. 1 comma 2 Cost., ha affermato che «la volontà dei cittadini, espressa attraverso il voto (…), costituisce il principale strumento della volontà popolare» (cons. in dir. § 3) e che, attraverso «la rappresentatività dell’assemblea parlamentare…si esprime la sovranità popolare» (cons. in dir., § 4).
Da parte di parlamentari della maggioranza e di studiosi anche autorevoli (ad es. A. D’Atena) si è invece sostenuto che l’elezione indiretta da parte dei consigli regionali rinverrebbe dei precedenti in diritto comparato. Il che non è esatto né con riferimento al modello francese, né a quello tedesco, né infine a quello austriaco.
In primo luogo non si tratta però di un’elezione indiretta perché i Consigli regionali e i due Consigli provinciali eleggono i senatori jure proprio, e non come “grandi elettori”. Ciò invece accade in Francia, dove i 44.600.000 elettori francesi eleggono specificamente i 150 mila grandi elettori che a loro volta eleggeranno i 340 senatori. I cittadini italiani eleggono i consigli regionali, punto e basta. Non si tratta quindi di un’elezione di secondo grado come quella francese o come quella delle elezioni presidenziali statunitensi (L. Elia).
Né è esatto il paragone col sistema tedesco perché nel Bundesrat sono presenti, a proprio titolo, i Governi dei sedici Länder – preesistenti alla stessa Legge fondamentale tedesca (1949) e addirittura alla stessa Costituzione imperiale del 1871 – che, per il tramite di loro rappresentanti, hanno a disposizione, a seconda dell’importanza del Land, da un minimo di tre ad un massimo di sei voti per ogni deliberazione. Per cui, non si tratta quindi di elezione indiretta.
E nemmeno si potrebbe sostenere che il modello italiano si ispiri al Bundesrat austriaco, i cui membri non sono eletti dai cittadini ma dalle assemblee dei Länder (art. 35 Cost. austriaca). A parte le critiche mosse al sistema austriaco proprio per la carente legittimazione delle assemblee dei Länder (H. Schäffer, R. Bin, F. Palermo), è risolutiva la differenza intercorrente tra la proclamazione della sovranità popolare dell’art. 1 comma 2 della nostra Costituzione secondo quale «la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto (…) costituisce il principale strumento della volontà popolare», e la proclamazione dell’art. 1 della Cost. austriaca («L’Austria è una Repubblica democratica. Il suo diritto emana sal popolo»), che non impone, nemmeno implicitamente, l’elettività diretta degli organi legislativi.
Ho già accennato come la versione definitiva del “futuro” art. 57 Cost. (di cui all’art. 2 d.d.l. n. 2613-B) preveda due commi tra loro antitetici, uno che prevede che i senatori saranno eletti dai consigli regionali (comma 2), l’altro secondo il quale tale elezione dovrà avvenire «in conformità alle scelte degli elettori» (comma 5). Il che non sfugge però alla seguente alternativa: o l’elezione da parte del Consigli regionali, per quanto riguarda i 74 senatori, sarà meramente riproduttiva della volontà degli elettori e sarà quindi inutile; oppure se ne distaccherà, e in tal caso viola l’art. 1 Cost. per le ragioni anzidette.
Poiché però la «conformità alle scelte degli elettori» è imposta dal “futuro” art. 57 comma 5 Cost. soltanto per l’elezione dei senatori-consiglieri e non per l’elezione dei senatori-sindaci, ne segue che almeno l’elezione dei senatori-sindaci è priva del lambiccato correttivo previsto dal comma 5, per cui la violazione dell’art. 1 Cost. è comunque, sotto questo profilo, insanabile. Né si può ipotizzare che la legge bicamerale prevista dal comma 6 del “futuro” art. 57 – che dovrebbe «regolare le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei membri del Senato della Repubblica» – possa rendere identico ciò che tutt’al più sarebbe «conforme alle scelte degli elettori».
Il che implica che, una volta entrata in vigore la riforma costituzionale Renzi-Boschi, qualsiasi cittadino – nel corso di un giudizio nel quale si pretenda dalla controparte l’applicazione di una legge approvata sia dalla che dal Senato (c.d. legge bicamerale) – potrebbe eccepirne l’illegittimità costituzionale “derivata” dall’incostituzionalità del “nuovo” art. 57 commi 2 e 5 Cost., per contrasto col citato art. 1 comma 2 Cost.
  1. Irrazionalità della composizione del Senato
Si è già osservato come l’eccessiva differenza numerica dei seggi che compongono la Camera e il Senato è tale da rendere irrilevante la presenza dei senatori nelle riunioni del Parlamento in seduta comune quando si tratti di eleggere il Presidente della Repubblica e i componenti del CSM.
Ebbene, anziché ridurre i componenti di entrambe le Camere – come si era da più parti suggerito facendo scendere la Camera a 400/500 componenti e il Senato a 200 – si è invece diminuito esclusivamente il numero dei senatori.
I cui 100 componenti, continueranno, oltre tutto, a svolgere part-time la funzione di consigliere regionale o di sindaco, con l’ovvia conseguenza, che svolgeranno male sia la funzione di consigliere regionale (o di sindaco), sia quella di senatore, con spreco, e non risparmio, di pubblico denaro come invece sbandierato dal Presidente del Consiglio e dalla ministra delle riforme.
E ciò senza voler ulteriormente considerare che il compito di valutare «le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori».
Altrettanto discutibile è la nomina presidenziale dei cinque senatori. E ciò per due motivi: 1) i cinque senatori, essendo nominati dal Presidente della Repubblica per sette anni – come lo stesso Capo dello Stato -, potrebbero subirne l’influenza; 2) è paradossale che cinque illustre personalità “che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario” vadano ad esercitare il loro alto magistero culturale in un organo che rappresenta esclusivamente le istituzioni territoriali (“futuro” art. 55 Cost.).
  1. Conclusioni
In definitiva il d.d.l Renzi privilegia la governabilità sulla rappresentatività; elimina i contro-poteri esterni alla Camera senza compensarli con contropoteri interni; riduce il potere d’iniziativa legislativa del Parlamento a vantaggio di quella del Governo; prevede almeno sette tipi diversi di votazione delle leggi ordinarie con conseguenze pregiudizievoli per la funzionalità delle Camere; nega, come già detto, l’elettività diretta del Senato ancorché gli ribadisca contraddittoriamente la spettanza della funzione legislativa e di revisione costituzionale; sottodimensiona irrazionalmente la composizione del Senato rendendo irrilevante il voto dei senatori nelle riunioni del Parlamento in seduta comune; pregiudica il corretto adempimento delle funzioni senatoriali, divenute part-time delle funzioni dei consiglieri regionali e dei sindaci.
Mi fermo qui, ma potrei continuare ancora a lungo: dall’esclusione del Senato nella deliberazione dello stato di guerra (leggi: l’invio all’estero delle missioni militari) ai difficili raccordi del Senato delle autonomie con lo Stato, con le stesse Regioni (i governatori stanno là e non a Palazzo Madama!) e infine con l’Unione europea (A. Manzella).
Prof. Alessandro Pace

[1] P. CalamandreiCome nasce la nuova Costituzione, ne Il Ponte, 1947, 1ss.
[2] «Al comma 1, capoverso «articolo 55 della Costituzione», sostituire il quinto comma con il seguente:  «5. Il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica. Concorre all’esercizio della funzione legislativa nei casi e secondo le modalità stabiliti dalla Costituzione, nonché all’esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione europea. Partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea. Valuta le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori. Concorre ad esprimere pareri sulle nomine di competenza del Governo nei casi previsti dalla legge e a verificare l’attuazione delle leggi dello Stato».
[3] V. il Fatto Quotidiano, 3.1.15, p. 4; Trasformismo in Parlamento in Repubblica.it, 4.1.16; S. SettisMetamorfosi del deputato, ne L’Espresso, n. 1 del 7.1.16, p. 59; Il puzzle dei cambi di partito ne il Corriere della sera, 7.1.16, p. 12 s.
[4] Revisione della Costituzione e altre leggi costituzionali. Tutela delle minoranze linguistiche. Referendum popolari e altre forme di consultazione. Legge elettorale del Senato. Ordinamento, legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di comuni e città metropolitane: forme associative dei comuni. Legge che stabilisce le norme generali per la partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche UE. Ineleggibilità ed incompatibilità dei senatori. Ratifica dei trattati sull’appartenenza dell’Italia all’UE. Ordinamento di Roma capitale. Attribuzione alle Regioni di forme particolari di autonomia. Legge che disciplina la partecipazione delle Regioni alle decisioni dirette alla formazione del diritto europeo e all’attuazione degli accordi internazionali e degli atti dell’UE. Legge che disciplina i casi e le forme in cui la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali di altri Stati. Principi generali per l’attribuzione del patrimonio a comuni, città metropolitane e Regioni. Potere sostitutivo del Governo e casi di esclusione dei titolari di organi di governo regionali e locali dalle funzioni in caso di grave dissesto finanziario dell’ente. Principi fondamentali per il sistema di elezione e i casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente, degli assessori e consiglieri regionali, nonché per promuovere l’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza: durata degli organi elettivi regionali; emolumenti degli organi regionali nel limite dell’importo di quelli attribuiti ai sindaci dei Comuni capoluogo. Distacco dei comuni da una Regione ed aggregazione ad un’altra.
[5] I procedimenti legislativi previsti dal d.d.l. Renzi-Boschi sarebbero più d’uno, se si segue la ripartizione suggerita da Gaetano Azzariti, in base ai diversi iter di volta in volta seguito: procedimento bicamerale paritario (art. 70 comma 1), monocamerale con intervento eventuale del Senato (art. 70 comma 2), non paritario rafforzato (art. 70 comma 4), non paritario con esame obbligatorio per le leggi di bilancio e rendiconto consuntivo (artt. 70 comma 5 e 81 comma 4), disegni di legge a “data certa” (art. 72 comma 7), conversione dei decreti legge (art. 77 commi 2 e 3), leggi di revisione costituzionale (art. 138). A questi sette distinti procedimenti di formazione può aggiungersi quello “speciale” relativo all’approvazione delle leggi elettorali che prevede la possibilità di un controllo preventivo da parte della Corte costituzionale (art. 73 comma 2) e quello nel quale il Senato può, con deliberazione adottata a maggioranza assoluta, “richiedere” alla Camera di procedere all’esame di un disegno di legge (art. 71).
[6] «Il Senato della Repubblica «rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica. Concorre all’esercizio della funzione legislativa nei casi e secondo le modalità stabiliti dalla Costituzione, nonché all’esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione europea. Partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea. Valuta le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori. Concorre ad esprimere pareri sulle nomine di competenza del Governo nei casi previsti dalla legge e a verificare l’attuazione delle leggi dello Stato» (futuro art. 55 comma 5).
[7] V. supra il § 2, in fine.