La consapevolezza della natura dell’emozione permette una
lettura della realtà e una conoscenza altrimenti mantenuta
nell’oscurità.
Un’emozione è tutto. La ragione è niente. Rapiti da un’emozione,
siamo una capsula dall’orbita segnata, nessuna ragione ha i mezzi
per modificarla o arrestarla; rapiti da
un’emozione, non c’è verso razionale di rinsavire.
Ogni dipendenza, dall’esaurirsi nel proprio io alla bulimia e così
tutte le altre superstizioni, è un’emozione che la ragione,
nonostante la sua arroganza di onnipotenza, non è in grado neppure
di scalfire.
Siamo sempre entro un’emozione. L’aura è una sua emissione
energetica, tanto più lucente quanto più siamo in armonia con il
tutto. Qualcuno è in grado di vederne le tonalità. Tutti vediamo la
luce pulita o torva che qualcuno emette. Secondo certe tradizioni
sapienziali, siamo avvolti in un uovo di luce e siamo attraversati
dall’energia, le cui declinazioni tutto generano. Di più. Siamo
un’emozione. Un’emozione genera il seme (maschio) e un’emozione
vuole generare (femmina).
Per un’emozione vogliamo essere scalatori, sommozzatori, aviatori,
medici. Il perdurare dell’emozione implica il massimo rischio di
realizzazione, di successo. Ma, per una coercitiva richiesta
famigliare, potremmo arrivare a castrare il nostro intento e finire a
fare l’avvocato, l’assicuratore o il banchiere. Forze che, quando
superiori alle nostre, possono lentamente spegnere l’emozione e il
sogno, lasciandoci immiseriti a fare altro da noi.
La determinazione è un’emozione. In essa vediamo e viviamo ciò
che ancora non è accaduto. L’emozione fa il mondo in cui siamo.
Così il bimbo che non riesce a smettere di giocare, chiamato per la
merenda, non riesce/vuole uscire dall’emozione dalla quale è
avvolto.
La volontà è l’aspetto espresso dell’emozione. Essa raduna le
migliori risorse creative per realizzarsi, per raggiungere lo scopo,
per creare quella realtà prima solo immaginata e a propria immagine
e somiglianza. Così, la scopa è realmente un cavallo, la Maserati
veramente uno scopo in cui riconoscersi, la vetta il solo punto in
cui si realizza l’autostima.
Volontà, emozione e creazione sono amanti.
Imparare a riconoscere in quale emozione siamo e il mondo che ne
consegue è uno dei primi passi per avviarsi a scoprire i nostri
poteri energetici. Uno di questi riguarda il punto di attenzione. Un
vincolo a forze ridondanti, del quale siamo facilmente preda. A mezzo
del quale si generano le egregore, ossessivi filtri attraverso i
quali traguardiamo, distorcendolo, il mondo. Con la presa di
coscienza del punto di attenzione, di dove va a posarsi a nostra
insaputa e su come prenderne possesso, realizziamo una libertà dal
conosciuto altrimenti non possibile.
Concretamente, significa avere i mezzi per
uscire da una capsula emozionale – il nostro modo di reagire
dichiara sempre la bolla emozionale che ci contiene – e anche
entrare in un’altra, secondo libera volontà creativa. Uno
stadio di consapevolezza che offre il senso di avere in mano la barra
del timone della nostra serenità, orientato a seguire la rotta degli
alisei, che porta al mare dell’invulnerabilità, all’arcipelago
della salute e alla terra dell’armonia.
Allora viene da sé riconoscere che il mondo è divenuto altro pur
mantenendo le medesime sembianze. Che prima guardavamo senza vedere.
Che ci occupavamo solo dell’inconsistente schiuma della realtà.
Che investivamo arbitrariamente la realtà di proprietà soltanto
nostre. Che questa non era fuori ma dentro noi.
Contraddire un’emozione, comportarsi senza
rispettarla è alzare il rischio d’inconveniente. Buona parte degli
incidenti corrispondono a emozioni non rispettate o scelte e azioni
in contrasto con l’emozione che viviamo. Imporre o imporci il
dovere, senza avere il valore della disciplina e quindi viverne
l’emozione, è cosa frustrante e alienante, condizione spirituale
idonea agli inconvenienti.
Le emozioni muovono tutti gli uomini identicamente. Esse si ripetono
in ognuno con il medesimo potere di movimento, fosse anche
l’immobilità, se l’emozione è nera. In esse sussiste il segreto
del nietzschiano eterno ritorno dell’identico, verità
impossibile da riconoscere da chi è preda dell’emozione
razionalista e materialista. Condizione dalla quale, ancora una
volta, soltanto un’emozione potrà far brillare l’emancipazione e
cogliere il mondo forestiero alla bolla scientista e determinista. È
una verità che non richiede stupide prove scientifiche, quelle che
contengono, ovvero costringono, esauriscono e mortificano il pensiero
– sempre nietzschiano – dell’ultimo uomo. Essa riferisce
la dimensione alogica, magica della coscienza, quindi realtà e vita
del lato oscuro dell’universo. Un buio che, ad emancipazione
compiuta, si riempie di luce.
Le emozioni avvertono tutti gli uomini dell’energia che sta
scorrendo nel tempo e nel momento. Quando le vibrisse che siamo non
sono imbrattate di vischiose ideologie e saperi cognitivi, le
emozioni permettono di conoscere attraverso il sentire. Di
riconoscere la superficialità e soprattutto la caducità del sapere
analitico-intellettuale.
Emancipati da quel tipo di sapere fuorviante, superficiale e
disumano, ci avvertono del richiamo e della repulsione nei confronti
di qualcuno e qualcosa. Permettono di comprendere in che termini la
conoscenza è già in noi. Di muoverci, prendere decisioni e condurre
una vita a misura di noi stessi. Di liberarci dal dominio
dell’infrastruttura dell’io, dell’interesse personale in quanto
ragione di sofferenza, dell’identificazione con consuetudinari
ruoli storici che impongono una vita estranea all’evoluzione umana.
Le emozioni sono la presenza storica dell’infinito e dell’eterno.
Dal grande volume cosmico che tutto contiene, da cui tutto diviene –
l’iperuranio secondo Platone –, gli uomini traggono solo e
soltanto gli elementi idonei alla loro biografia storica. Una linea
rossa infinitamente lunga che, identificati con il nostro io,
crediamo corrispondere soltanto al piccolo frammento di vita che ci
attraversa. Consideriamo la vita come se ne fossimo i proprietari e
non banali, quanto necessari, latori al pari di una delle mille
foglie di un faggio nell’apoteosi dell’estate. Una piccola
coscienza egocentrica è inetta a cogliere l’energia del mondo,
idonea a non capire nulla dell’esistenza, fino a sostenere l’idea
che siamo qui per caso.
Consapevoli che gli elementi che estraiamo dal grande volume non sono
che gocce raccolte dal mare e scelte obbligate dalla nostra
biografia, possiamo avvederci della loro autoreferenziale parzialità,
della loro pari dignità con quelli estratti da altre biografie.
Possiamo dunque riconoscere l’arbitrarietà con la quale gli uomini
creano gerarchie dialetticamente sostenute, applicate con qualche
tipo di forza, ma spiritualmente vuote.
Alla domanda ti
piace il jazz o Miles Davis
estraiamo dal volume il Jazz e il Miles Davis che eventualmente
conosciamo, non solo, ne estraiamo il necessario alla nostra
biografia per dare risposta alla domanda. Sia essa no o sì, in ambo
i casi non realizzeremo comunicazione sul nostro jazz e sul nostro
Miles Davis, se non approssimativa, fuorviante, equivoca. Due
interlocutori, in particolare se tra loro estranei, portano in sé
universi diversi. Il confronto tra campi aperti basato sul linguaggio
logico-razionale esclude di far contenere alle parole l’esperienza
e la contingenza che impone cosa estrarre dal volume. È un’emozione
che ci fa estrarre il necessario per dare risposta alla domanda. Solo
con una simile o identica emozione nei confronti del jazz e di Miles
Davis, e anche nei confronti dell’altro, la risposta implicherà
comunicazione e conoscenza. Dentro la stessa emozione eleggiamo la
stessa realtà, cioè estraiamo dal volume le medesime gocce.
Quando inconsapevoli di giacere nell’incantesimo dell’io, ne
idolatriamo i diritti e ne adoriamo le superstizioni, ne crediamo le
leggende, consideriamo ogni estrazione dal volume un merito e un
libero nostro potere. Ma, così facendo, affermiamo l’inettitudine
a riconoscere che noi stessi corrispondiamo a un’emozione e,
soprattutto, che abbiamo perso il legame dal grande volume
originario. Come se un muscolo si arrogasse il potere di compiere un
gesto. Ogni storia privata di consapevolezza trascendentale è anche
una storia di dolore. Rinascere e morire non sono che emozioni dette
innamoramento e depressione. È solo per una certa emozione che
stiamo ubbidienti e proboviri entro il risibile quadrilatero del
nasci-lavora-consuma-crepa. È solo riconoscendone la violenta
autoreferenzialità che possiamo elaborare come attingere alla vita
che entro le emozioni delle consuetudini ci eravamo fatti sottrarre.
E nella libertà dal conosciuto apriamo alla possibilità di
emancipazione dall’emozione che siamo, e quindi all’accesso al
tutto.
L’ordine attraverso il quale il razionalismo ha oggi pieno potere,
con il quale si arroga il diritto di vita e di morte delle
affermazioni umane, cioè il diritto di eleggere cosa è vero e cosa
non lo è, non è che una trama dell’io. Vero parassita cui
devolviamo tutta la nostra energia, alla cui volontà sottostiamo
fino a uccidere o farci uccidere, se è questo che ci comanda.
L’arroganza del razionalismo è di una tale
gretta irruenza da non avvedersi che l’esperienza non è
trasmissibile, che capire non conta nulla. La razionalità è
insufficiente a comunicare. La comunicazione avviene attraverso
un’emozione che permette di vedere nel firmamento le medesime
costellazioni. E anche la memoria è un’emozione. Non è la memoria
che fa insorgere l’emozione, ma è questa che permette il fenomeno
della memoria. Il suo insorgere elude il tempo e lo spazio, artifici
slegati dall’universo. Elude il nostro frammento di vita nei
déjà-vu
e nelle conoscenze, anche tecniche, prive di supporto cognitivo. Ed è
un’emozione che può scatenare una patologia e una guarigione.
Come noi creiamo per mezzo di un’emozione,
così l’emozione crea il mondo. Riconoscendo che solo entro
un’emozione agiamo e creiamo, possiamo riconoscere il legame con
l’infinito.
I via via più raffinati e alti calcoli per
elaborare algoritmi in grado di simulare le emozioni arriveranno a
dissimulare l’anima robotica che le esprime. Sarà allora che
l’uomo comune, a mezzo della cultura che gli verrà proposta come
verità, crederà di avere a che fare con un suo simile. Sarà allora
che la babelica torre avrà raggiunto le quote più elevate e il
fracasso del suo crollo non risparmierà niente del mondo. Ogni
azione slegata dall’origine è un passo verso il regno del
nichilismo. I cristiani lo chiamano perdizione.
Dall’io, dal suo predominio su di noi, dalla nostra
inconsapevolezza della sua esistenza, della sua natura e logica,
diviene la sofferenza, la gnostica, l’elezione del diritto quale
solo strumento per dirimere la vita, generare fittizia giustizia e
alimentare uno status quo materialista, evolutivamente sterile.
Il predominio dell’io è un’emozione, un nodo energetico, un
cortocircuito che ci separa dall’origine. Che ci condanna a una
vita di stenti. Che impedisce di riconoscere la magia alogica, lei sì
scientifica, che porta alla conoscenza intima e cosmica. Che ci
permette di vedere la banalità del piombo che diviene oro e del
“come in alto così in basso”.
Lorenzo Merlo