lunedì 30 aprile 2018

In ringraziamento all'eroe russo, Stanislav Evgrafovič Petrov, che salvò il mondo dalla catastrofe nucleare


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Stanislav Evgrafovič Petrov,  deceduto  a Frjazino, il 19 maggio 2017,  è stato  tenente colonnello dell'Armata Rossa durante la guerra fredda.
Il 26 settembre 1983 identificò un falso allarme missilistico - prendendo difficili decisioni al limite delle sue prerogative e dei regolamenti preposti - evitando così il più che probabile scoppio di un conflitto nucleare mondiale.
La storia dice che quel giorno  a Petrov fu richiesto di sostituire l'ufficiale di servizio al bunker Serpuchov 15, vicino a Mosca, con il compito di monitorare il sistema satellitare posto a sorveglianza dei siti missilistici statunitensi, interpretando e verificandone i dati, per informare i suoi superiori di un eventuale attacco nucleare contro l'Unione Sovietica. Nel caso si fosse presentato un attacco, la strategia dell'Unione Sovietica era quella di lanciare immediatamente un contrattacco nucleare su vasta scala contro gli Stati Uniti, secondo la dottrina della distruzione mutua assicurata. Alle 00:14 (ora di Mosca) il sistema satellitare diede l'allarme segnalando un missile lanciato dalla base di Malmstrom, in Montana, in viaggio verso il territorio sovietico. Petrov, ritenendo inverosimile un attacco con un unico missile, pensò a un errore del sistema e non segnalò ai suoi superiori l'accaduto. 

Pochi minuti dopo il satellite segnalò altre quattro volte un report uguale, per un totale di 5 missili nucleari potenzialmente in viaggio verso l'URSS. Lanciare l'allarme, assecondando quanto riportato dal sistema, avrebbe potuto significare dar avvio alla risposta nucleare verso gli Stati Uniti da parte sovietica, ma Petrov, che conosceva bene le peculiarità del sistema satellitare sovietico OKO, considerando troppo esiguo l'attacco missilistico in corso rispetto alla dotazione statunitense, ritenne che si stesse trattando di una serie di errori. 

Alla fine delle analisi (con i presunti missili lanciati ancora in volo verso il suolo sovietico, ma non rilevati come presenti da altre fonti), decise di segnalare il tutto ai superiori come un malfunzionamento del sistema, anziché come un attacco nucleare dagli Stati Uniti all'Unione Sovietica. La decisione si rivelò giusta. Venne infatti poi accertato che si trattava di un falso allarme dovuto a una particolare congiunzione astronomica tra la Terra, il Sole e l'orbita del sistema satellitare OKO - collegata all'equinozio autunnale appena accaduto - che aveva dato inaspettatamente luogo a consistenti riflessi solari su nubi ad alta quota, erratamente identificati come lanci di missili. Petrov aveva interpretato i dati e gli ordini nel modo più esatto, con beneficio per tutto il pianeta.

In seguito il colonnello fu redarguito, ufficialmente per altre ragioni, e la sua carriera militare terminò con la pensione anticipata. L'episodio che lo vide protagonista fu tenuto segreto a lungo, approdando all'opinione pubblica quasi dieci anni dopo, mentre Petrov si era nel frattempo ritirato a Frjazino, un piccolo villaggio vicino Mosca, dove visse in condizioni economiche precarie fino al  2017, anno in cui morì. 

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(Fonte notizie: Accademia Kronos e Wikipedia)

Bioregionalismo e identità ecologica... nel ciclo della vita!


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La natura opera secondo un sistema di nutrienti e metabolismi in cui non esistono rifiuti. Un ciliegio fa germogliare fiori e (forse) produce frutti. È per questo che gli alberi fioriscono. Ma i fiori che danno frutti sono tutt’altro che inutili. Cadono al suolo, si decompongono, nutrono vari organismi e microrganismi, e arricchiscono il terreno. Gli animali e gli uomini emettono biossido di carbonio che le piante assorbono e usano per crescere. L’azoto contenuto nei rifiuti viene trasformato in proteine da microrganismi, animali e piante. I cavalli mangiano l’erba e producono sterco che diventa nido e nutrimento per le larve delle mosche. I più importanti nutrienti della Terra – carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto – sono riciclati di continuo. Rifiuti uguale cibo.

Questo sistema biologico ciclico, “dalla culla alla culla”, ha tenuto in vita e nutrito per milioni di anni un Pianeta ricco e diversificato. Fino a poco tempo fa era l’unico sistema esistente e ogni essere vivente del Pianeta ne faceva parte. Poi è arrivata l’industrializzazione e ha alterato l’equilibrio naturale dei materiali sulla Terra.

Gli uomini hanno cominciato a estrarre materie prime dalla crosta terrestre, le hanno concentrate e alterate, e hanno sintetizzato materiali che non possono essere restituiti al terreno senza provocare danni. Gli esseri umani sono l’unica specie terrestre che prende dal suolo grandi quantità di nutrienti necessarie ai processi biologici, e raramente le restituisce in forma utilizzabile. I nostri sistemi – eccetto alcune piccole realtà locali – non sono più studiati a questo scopo. Industriali, progettisti, ambientalisti e in genere gli addetti ai lavori parlano spesso di un “ciclo vitale” del prodotto. Naturalmente solo pochissimi prodotti sono “vivi” in senso stretto, ma in molti casi siamo noi che, per così dire, proiettiamo su di loro la nostra vitalità, e la nostra mortalità. Sono quasi parte della famiglia. Vogliamo che vivano con noi, che ci appartengano. Nella società occidentale gli esseri umani vengono seppelliti nelle tombe e così i prodotti. Ci piace l’idea di essere potenti, unici; e ci piace compare cose nuove di zecca, fatte di materiali “vergini”.

Quando io (che sono una persona speciale e unica) avrò finito di usare un prodotto vergine, nessun altro lo userà. Le industrie progettano e pianificano in accordo con questa mentalità. Nel caso dei materiali, ci sembra invece decisamente più sensato insistere su quei caratteri di somiglianza e ordinarietà che ci permettono di godere più di una volta anche di prodotti speciali e unici. Cosa sarebbe accaduto se la Rivoluzione industriale avesse avuto luogo in società che mettono al primo posto la comunità e non l’individuo, e in cui si crede non in un ciclo vitale “dalla culla alla tomba” ma nella reincarnazione? I sistemi e le industrie umani diventeranno rispettosi della diversità solo quando riconosceranno che la sostenibilità, come tutte le politiche, è un fatto locale.

Quando si connetteranno ai flussi locali di materiali e di energia, ai costumi e ai gusti locali, dal livello molecolare fino a quello dell’intera bioregione. Le realtà locali non sono tanto da intendere come isole di civiltà, astratte dal contesto naturale, ma proprio come forme di “sapere ecologico”, un sapere che deve la sua esistenza al legame che le comunità umane hanno, nel corso della loro storia, intrecciato con il territorio cui appartengono. Tutto ciò implica che si costruisca, intorno ai territori naturali, una vera e propria “identità ecologica“, in cui si esprima e si rafforzi la relazione biunivoca tra le bioregioni e i loro abitanti. Per questi motivi, il bioregionalismo implica innanzitutto un coinvolgimento attivo da parte dei membri delle comunità.

Ciò significa che esso non è solo un progetto meramente politico-gestionale, ma anche un progetto culturale. Insieme a un forte senso di appartenenza al territorio, nell’“identità ecologica” confluiscono infatti il recupero di tradizioni legate ai luoghi, la riscoperta di lingue, arti, riti e conoscenze indigene, ecc.

Fulvio Di Dio

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domenica 29 aprile 2018

Bioregionalismo - La realtà bioregionale e la descrizione bioregionale


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La  parola "Bioregionalismo"  è un neologismo che  contraddistingue, più ancora che un progetto istituzionale, un modo di pensare e studiare che muove dall'esigenza profonda di riallacciare un rapporto sacrale con la terra, un rapporto che implica rispetto, ammirazione, timore e che inibisce ogni forma di rapina e di spreco.

Questo rapporto si conquista a partire dalla volontà di capire il luogo in cui viviamo, in cui la nostra esistenza ha luogo, e si sviluppa quando, a partire da un luogo, si cerca di identificare un'area che presenta caratteri di relativa omogeneità sia rispetto alla realtà fisica del territorio, sia rispetto alle comunità umane che la abitano e a tutte le altre forme di vita che la caratterizzano.

Una bioregione non è un recinto di cui si definiscono stabilmente i confini ma una sorta di campo magnetico distinguibile dai campi vicini solo per la intensità decrescente delle caratteristiche che formano la sua identità.
Questa natura flessibile e problematica spiega perché un programma così ambizioso e coinvolgente non abbia ancora al suo attivo esperienze istituzionali esemplari. Di fatto più che un programma politico il bioregionalismo tenta di introdurre nella società moderna un modo di pensare e di "appartenere" che potrebbe gradualmente rivelarsi rivoluzionario, potrebbe cioé (sulla base di riflessioni che riguardano il benessere e l' utilità pratica evidente di certe decisioni) produrre una reazione a catena capace di ridimensionare il potere incontrastato della tecnica e dell'economia globalizzatrice che oggi ha il primato rispetto a qualunque altra esigenza umana. 

Che senso può avere - è lecito domandarsi - un modello di azione bioregionale in un mondo in cui sempre più la popolazione si accumula nelle grandi conurbazioni, dove lo stesso concetto di luogo entra in crisi rispetto ai rituali di una società che nega il valore della memoria? In un certo senso il bioregionalismo è una fede e come tutte le fedi non si misura con l'immediatezza ma con il flusso del tempo e alimenta la sua speranza di successo facendo assegnamento su processi in atto di lunga durata, non meno concreti di quelli che derivano dal primato dell'economia. 

Tra questi da una parte il processo di degrado dell'ambiente che impone ed imporrà all'umanità svolte decisive, dall'altra i sintomi dell'affermazione di un nuovo paradigma scientifico aperto a riconoscere (attraverso la visione olistica e l'approccio sistemico) la complessità delle scienze della natura, liberate dal fascino di una razionalità chiusa e dal mito di un adempimento finale, e che la conoscenza dovrebbe raggiungere per riconoscersi signora dell'universo. Si sono aperte -come scrive Prigogine- al dialogo con la natura che non può più essere dominata con un colpo d'occhio teorico, ma solo esplorata; al dialogo con un mondo aperto al quale noi stessi apparteniamo, alla costruzione del quale partecipiamo.

Il modo di pensare bioecologico d'altronde non nega il significato e il valore delle città ma ne contesta il mito dell'autosufficienza e della insularità, vedendo in esse il frutto di un mutevole delicato rapporto con la sua "regione" e il resto del mondo. Vivere in sintonia con la propria città diventa allora conoscere l'insieme di relazioni che ne definiscono il ruolo, spesso parassitario, rispetto al territorio, impegnandosi in un riequilibrio necessario per la sua sopravvivenza. 

Il bioregionalismo è allo stesso tempo molto semplice e molto complicato. Molto semplice, perché le sue componenti sono presenti e manifeste intorno a noi, proprio dove viviamo... Molto complicato perché è in contraddizione con i punti di vista convenzionali dei nostri giorni. Per cui è fin troppo facile considerarlo limitato, provinciale, nostalgico, utopistico o semplicemente irrilevante. Ci vorrà un po' di tempo prima che la gente capisca che il familiarizzarsi con il luogo non è nostalgico né utopistico ma piuttosto un modo 'realistico', ed alla portata di tutti, per creare possibilità pratiche ed immediate, capaci di rovesciare la tendenza al disastro ed all'incoscienza. 

Paolo Portoghesi

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(Intervento tenuto al Convegno su "Bioregionalismo ed Economia Sostenibile" - Organizzato dal Circolo Vegetariano VV.TT. a Calcata (Vt)  il 10 maggio 2003)

venerdì 27 aprile 2018

Testo Unico Forestale - Allarme della Rete Bioregionale Italiana e di altre associazioni



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NUOVI ALLARMI PER BOSCHI E FORESTE

Le osservazioni di 264 accademici e 224 esperti in diverse discipline inviate al Presidente della Repubblica perché non firmi il nuovo “Testo Unico Forestale” approvato lo scorso 16 marzo dal Governo Gentiloni. Il plauso di Legambiente, Accademia dei Georgofili, Alleanza delle Cooperative Agroalimentari, Coldiretti, Federforeste e Uncem. Critici il Wwf, Lipu, Italia Nostra, European Consumers, Rete Bioregionale Italiana e oltre 50 Associazioni, fra cui i Comuni virtuosi. Contrari i 5S ed altri Movimenti, i cui timori si assommano ai ripetuti appelli rivolti in questi giorni al Presidente Mattarella perché rimandi la decisione ad una consultazione partecipata e supportata da studi più approfonditi sugli impatti del D.lgs. così come formulato dai quattro parlamentari proponenti, tra cui il non rieletto esponente del Partito Democratico on. Ermete Realacci, Presidente onorario di Legambiente.

Nonostante gli appelli sottoscritti da giuristi, da comunità scientifiche e ambientaliste, e una non trascurabile petizione a firma di migliaia di cittadini, il 16 marzo scorso, nel soffuso torpore mediatico e dilagante declino morale e politico, il Consiglio dei Ministri del governo uscente ha dato il definitivo via libera al D.lgs. riguardante “Disposizioni concernenti la revisione e l’armonizzazione della normativa nazionale in materia di foreste e filiere forestali, in attuazione dell’art. 5 della legge 28 luglio 2016, n. 154”, meglio noto come Testo Unico Forestale.
Oltre a riordinare la materia e ad introdurre norme volte a disciplinare gli interventi finanziari a sostegno delle imprese agricole, il nuovo provvedimento intende garantire la conservazione ambientale e paesaggistica, la crescita occupazionale nelle aree interne e lo sviluppo di nuove “economie verdi”.

Approvato in attuazione della legge su semplificazione, razionalizzazione e competitività dei settori agricolo e agroalimentare, punta a rafforzare non solo la funzione di coordinamento istituzionale svolta dallo Stato nei confronti delle Regioni e delle autonomie locali, ma anche a formulare chiari indirizzi di riferimento su programmazione, pianificazione, tutela e gestione attiva del patrimonio forestale nazionale per i prossimi decenni.

In breve, il nuovo testo sulle foreste e sulle filiere forestali: Delinea criteri innovativi di programmazione e pianificazione forestale • Fissa i criteri minimi uniformi per le attività di gestione forestale, demandando alle singole Regioni l’onere di declinarli tenendo conto dell’estrema varietà degli ecosistemi forestali italiani • Disciplina in modo nuovo la trasformazione di aree boscate in altra destinazione d’uso, mantenendo saldo il principio dell’obbligo di compensazione • Individua i principi cardine per la promozione e l’esercizio delle attività selvicolturali di gestione, anche attraverso la pianificazione di piste utili ai lavori forestali • Detta principi innovativi per facilitare e incentivare la gestione di superfici forestali accorpate, anche quando i proprietari siano molti e le superfici unitarie piccolissime • Rilancia l’attività della filiera vivaistica forestale nazionale • Pone il Ministero al centro di un coordinamento di Enti per la raccolta e la divulgazione di dati quantitativi e qualitativi sulle foreste.
Contrariamente a quanti lo temono come un “via libera alla deforestazione” ammantata da necessità agricole ed economiche, altri, come Legambiente, unica associazione ambientalista schieratasi a favore, lo ritengono un primo passo importante per sviluppare una politica nazionale efficace e coordinata del patrimonio boschivo. Come affermato dal responsabile Aree Protette di Legambiente, Antonio Nicoletti, il dispositivo non mette in discussione gli attuali livelli di tutela ambientale e paesaggistica. Riconosce il patrimonio forestale nazionale, che ammonta a 11,8 milioni di ettari, pari al 39% del territorio italiano, come parte del “capitale naturale” nazionale e come bene di interesse pubblico. Al contempo ne promuove la sostenibilità garantendo una gestione del bosco che consente sia un utilizzo produttivo che il mantenimento della biodiversità. Ora molto dipenderà dal modo in cui saranno scritti i decreti attuativi, e da come questi potranno garantire la coerenza delle norme regionali con le prospettive indicate nel testo.

Altrettanto soddisfatte Coldiretti e Federforeste per le quali fino a 35 mila nuovi posti di lavoro potrebbero nascere da una migliore gestione dei boschi che oggi coprono una superficie record raddoppiata rispetto all’Unità d’Italia, quando era pari ad appena 5,6 milioni di ettari. L’Italia, spiegano gli esponenti dei due sodalizi, non è mai stata così ricca di boschi, ma a differenza del passato si tratta di aree senza alcun controllo e del tutto impenetrabili ai necessari interventi di manutenzione e difesa che mettono a rischio la vita delle popolazioni locali a causa del degrado ed incendi. Con la nuova legislazione si va a riconoscere che solo i boschi gestiti in modo sostenibile assolvono al meglio a funzioni importanti per la società, come la prevenzione dagli incendi, dalle frane e da alluvioni o l’assorbimento del carbonio, facilitando le attività ricreative e il benessere psicofisico in generale. Il D.lgs. consentirà di affrontare anche un’anomalia che vede oggi l’Italia importare l’80% del legno da altri paesi, mentre da noi ogni anno si utilizza appena il 25% della superficie boschiva.

Anche l’Alleanza delle Cooperative Agroalimentari plaude il provvedimento del Cdm. Il testo approvato, sottolineano dal coordinamento nazionale, non è certamente un decreto perfetto poiché frutto di tanti compromessi, ritenendo un importante passo in avanti il fatto che si sia provveduto ad una armonizzazione della materia. Tra gli aspetti positivi della nuova normativa c’è la valorizzazione del ruolo delle cooperative forestali nella gestione sostenibile del grande patrimonio boschivo nazionale che rappresenta una grande opportunità dal punto di vista economico, sociale ed ambientale. Le cooperative operano in zone montane e marginali, spesso a rischio di abbandono e spopolamento, e forniscono un servizio insostituibile per la collettività e per lo sviluppo economico delle aree in cui svolgono le loro attività. Il patrimonio forestale italiano è una grande risorsa, non può essere abbandonata e ha bisogno di strumenti di indirizzo e di valorizzazione come quelli recentemente introdotti.
Un risultato legislativo importantissimo, commenta l’on. Enrico Borghi, Presidente nazionale Uncem, poiché il nuovo provvedimento esalta i “servizi ecosistemici-ambientali” che circa 12 milioni di ettari di bosco svolgono non solo per le aree montane, ma per le intere collettività in una rinnovata sussidiarietà ambientale e territoriale che va costruita tra poli urbani e aree interne del Paese. 

Stando a quanto dichiarato dall’Accademia dei Georgofili, il provvedimento è frutto di un lavoro di confronto e partecipazione pubblica durato 4 anni, e riprende in gran parte un testo licenziato nel luglio 2015 dal Tavolo di settore “Foresta e legno” del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. Non si ricorda nella storia del settore forestale italiano una esperienza così ampia e partecipata di elaborazione di un testo normativo. È un segnale positivo e importante, che si accompagna alla parallela scelta di istituire una Direzione Foreste presso il Ministero per dare dignità e capacità operativa alle autorità centrali dello Stato in un settore ritenuto strategico per lo sviluppo del paese.

In tal senso la rivista “Sherwood” d’informazione tecnica sulla gestione delle foreste, riservandosi di commentare con maggior dettaglio i contenuti della norma, ha evidenziato quello che il decreto non comporterà, ovvero: Non eliminerà alcuna legge di tutela ambientale vigente • Non eliminerà alcuna area protetta, di nessun tipo • Non eliminerà la richiesta di autorizzazione ai fini paesaggistici, là dove è oggi richiesta • Non eliminerà l’autorizzazione ai fini del vincolo idrogeologico • Non toglierà la potestà alle Regioni e alle Province Autonome in materia di foreste, pertanto rimarranno in vigore tutte le leggi, i regolamenti e le prescrizioni di tutela attuali • Non prevede alcun esproprio delle proprietà.

Per questo, sottolineano dall’Accademia, risultano strane le critiche fatte al testo in questi giorni; critiche che sono caratterizzate da toni ultimativi e drammatizzanti che non entrano nel merito degli articoli della norma.

Tuttavia questo decreto, definito da tant’altri un provvedimento “ammazza foreste” di fine legislatura, non è stato accolto favorevolmente da tutti gli ambientalisti.
È ritenuto assai dannoso per il nostro patrimonio boschivo: è un testo che incentiva l’uso dei boschi per la produzione energetica e nulla dice per la protezione dell’ecosistema.

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Secondo il Forum Salviamo il Paesaggio - Difendiamo i Territori molte nubi oscurano il futuro delle foreste italiane. È quanto sostiene Franco Pedrotti (Professore Emerito dell’Università degli Studi di Camerino) per il quale il testo del provvedimento è il risultato del lavoro di un ristretto gruppo di persone con competenze limitate a specifici settori delle scienze forestali e da altri soggetti rappresentativi del mondo agrario, commerciale e industriale. Totalmente assenti esperti nei settori dell’ecologia, della botanica, della zoologia, della patologia vegetale, della geologia, dell’idrologia, della medicina. Anche alcuni confronti pubblici organizzati dai promotori della legge hanno avuto solo funzione di facciata perché tutte le opinioni dissonanti rispetto all’impostazione dell’impianto normativo non sono state tenute in alcun conto.

Ne è scaturita una legge che, non considerando il bosco nella sua complessità ecosistemica, finisce col promuoverne e sostenerne solo le potenzialità produttive, trascurando ogni riferimento agli aspetti di tutela delle foreste e dei suoli, se non quelli già imposti dalla normativa vigente.

Per Patrizia Gentilini, oncologa ed ematologa di chiara fama, membro di Medicina Democratica e di ISDE Italia, il decreto in questione è stato approvato in carenza di potere giacché trattasi di provvedimento di straordinaria amministrazione che non può essere adottato dopo lo scioglimento delle Camere che hanno conferito la delega. A ereditarlo sarà pertanto un Parlamento che non l’ha proposto né voluto. Per questo ed altre incongruenze giuridiche (ben evidenziate dal Prof. Paolo Maddalena, Vice Presidente Emerito della Corte Costituzionale) si invita il Presidente Mattarella a non approvare questo decreto legge in quanto: Viola gli artt. 9 e 117 della Costituzione poiché, ignorando l’aspetto ambientale e paesaggistico del patrimonio boschivo è contro la tutela costituzionale del paesaggio, dell’ambiente e dell’ecosistema • Viola anche l’art. 41, il quale dispone che l’iniziativa economica (…) “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” • Contiene articoli volti alla distruzione del bosco, come quello che non considera tale il bosco recentemente ricostituitosi a seguito dell’abbandono dell’attività agricola (art. 12), oppure il rimboschimento realizzato nel recente passato, anche con fondi europei, (art. 5). Tali boschi dunque possono essere abbattuti • Include norme di dettaglio che ledono la competenza delle Regioni in materia di agricoltura e foreste.

Oltretutto il D.lgs. va anche contro l’art. 32 della Carta Fondamentale riguardante la tutela della salute, perché l’incremento delle combustioni di biomasse non potrà che peggiorare la qualità dell’aria, già pessima in tante zone del nostro paese, tanto da essere sotto procedura di infrazione da parte dell’UE. Le biomasse solide contribuiscono (dati ISPRA) per circa il 68% al PM2.5 primario, cui va attribuita una consistente quota dei circa 60.000 decessi prematuri che si registrano ogni anno in Italia per tale inquinante. Ma alla cattiva qualità dell’aria vanno ascritte, oltre alle morti premature per eventi cardiovascolari, numerose altre patologie quali alterazioni della fertilità, della gravidanza, del periodo perinatale, danni al cervello in via di sviluppo nonché numerose patologie croniche cardio-respiratorie, metaboliche e neurologiche, compreso Alzheimer, cancro a polmone e vescica, e ricoveri per patologie acute (soprattutto negli esposti più suscettibili come bambini e anziani).
Conferme dei limiti e delle incertezze nel programmare, monitorare e bilanciare gli effetti su scala locale vengono da pianificazioni non sempre finalizzate alla effettiva riorganizzazione dei territori, in cui siano presenti una pluralità di funzioni, e in cui siano preminenti le valenze dell’interesse “pubblico” su quello “privato”. Avviene un pò ovunque, nondimeno dalle nostre parti, dove pur di avallare progetti produttivi privati su aree agricole e boscate fra le più preziose del demanio civico, se ne ridimensionano le effettive dotazioni indicate nel PTPR, in contesti ambientali vincolati dove i caratteri del bosco risultano inequivocabili e senza soluzioni di continuità con le aree circostanti.

Nell’ampia riflessione sull’argomento inviatami alcuni giorni fa, il bioregionalista Paolo D’Arpini rammentava che nelle civiltà antiche l’albero era considerato manifestazione delle divinità; ad esso, ispiratore di miti bellissimi e fantastici, si pregava per chiedere protezione e aiuto. In quasi tutte le tradizioni troviamo l’albero cosmico, asse dell’universo con le sue radici affondate negli abissi sotterranei e con i suoi rami che s’innalzano al cielo. L’ispirazione derivante dalla presenza nell’habitat originario è ben descritta da San Bernardo di Chiaravalle che disse: “Troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce t’insegneranno cose che nessun maestro ti dirà”.

Anche per D’Arpini un grandissimo problema di oggi è la sistematica distruzione dei boschi che sono parte integrante e di primaria importanza per il nostro ecosistema. La mentalità speculativa, che non tiene conto della vita globale, sta distruggendo la Natura, la flora, la fauna, i nostri alberi e… di conseguenza anche noi stessi.

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Tornando alle principali criticità del T.U. Forestale, si riporta uno stralcio delle ben più articolate osservazioni sottoscritte da un nutrito gruppo di Associazioni, Comitati e Comuni Virtuosi, inviate al Presidente della Repubblica e al Presidente del Consiglio ancor prima della sua approvazione:

a. Ai fini della “tutela” del patrimonio forestale nazionale come bene di rilevante interesse pubblico, si vuole introdurre in maniera generalizzata la “gestione attiva” da attuarsi attraverso la selvicoltura. Non è riconosciuto nel decreto il carattere autonomo degli ecosistemi forestali, la loro evoluzione naturale e complessità e, con l’attenzione rivolta al solo sfruttamento economico industriale immediato, si apre la strada ad un processo di speculazione sul legname, foriero di artificializzazione, fragilità, semplificazione e bruttezza dei boschi e delle foreste italiane.


b. Sebbene ricorra in tutto il decreto, il concetto di gestione attiva non trova alcuna definizione nello stesso e ciò espone a qualsiasi interpretazione stravagante e distruttiva: per il Tavolo della Filiera del legno, infatti, significa tagli forestali. Certo non è usato nel significato di gestione sostenibile (i termini, infatti, sono usati separatamente) che impone attenzione al complesso dell’ecologia dei boschi prevedendovi anche riserve integrali, rilasci di alberi o isole ad invecchiamento indefinito ed altro ancora (cfr Forest Europe, il cui indirizzo è stato preso a riferimento dagli estensori del decreto, per la sola parte economica e non per quelle, che devono essere contestuali, ambientale e sociale e, pertanto, non si può parlare di sostenibilità).

c. Nel testo manca un chiaro riferimento alla compartimentazione o zonizzazione del patrimonio forestale nazionale, ossia una distinzione tra boschi da destinare alla produzione (o ad altre finalità utilitaristiche) da quelli che devono essere conservati tal quali per ragioni ecologiche, paesaggistiche, idrogeologiche, genetiche, culturali. Tanto meno vengono distinte le formazioni degradate e meritevoli di restauro più che di utilizzazione. Un salto indietro di 95 anni: la legge “Serpieri” del 1923 operava tale distinzione finalizzata alla difesa idrogeologica.

dVengono definiti prodotti forestali non legnosi anche i singoli alberi fuori dal bosco (permittére omnes arbores excidere?) che misteriosamente non sono ritenuti legnosi e poco importa che il più delle volte caratterizzano decisamente il paesaggio in maniera identitaria.

eEquipara i terreni agricoli in cui non è stata più esercitata attività e che sono in via di rinaturalizzazione spontanea (anche se in realtà sono attualmente boschi a tutti gli effetti che si trovano nella fase di colonizzazione da parte di specie pioniere e si avviano, se ciò verrà consentito, alla fase di maturità) a terreni forestali che hanno superato il turno. La cosa è scientificamente infondata perché si estende il concetto di turno, che dev’essere applicato unicamente alle colture (ad es. dei cedui semplici o matricinati e alle fustaie coetanee che sono create e sostenute dall’uomo), al bosco che invece cresce ed evolve autonomamente. Allo stesso tempo, si introducono delle scadenze temporali agli interventi che, paradossalmente, sono contrari alla selvicoltura, anche a quella produttivistica nell’accezione più riduttiva del termine, perché impongono limiti che contrastano con la necessità del selvicoltore di adattare le modalità di intervento a quelle che sono le caratteristiche proprie di ciascun popolamento. Ancora una volta i boschi sono equiparati a colture agrarie.

fNel decreto i castagneti da frutto non appartengono più alla definizione di bosco. Non si considera che gli stessi connotano l’identità demologica tradizionale e paesaggistica di molti comuni italiani, in rapporto ai frutti piuttosto che al legname. Le conseguenze non sono trascurabili: escluderli dalla categoria bosco significa ammettere anche per castagneti secolari la reversibilità d’uso a fine ciclo, con ritorno alla coltivazione e irrimediabile perdita dell’identità paesaggistica dei luoghi.

g. Viene introdotto, mal interpretando il regolamento U.E. 1307/2013, il concetto di “bosco ceduo a rotazione rapida” (vale a dire sottoposto a tagli più ravvicinati), mentre tale definizione andrebbe applicata solo ai terreni agrari con alberi piantati, suscettibili di reversibilità d’uso a fine ciclo.

h. Il decreto non adotta, per i boschi, la definizione della FAO, utilizzata già dagli inizi degli anni 2000, e che garantisce di proporre le statistiche come le chiede l’Europa e la FAO stessa; è un passo indietro adottarne una che era stata superata e che ora viene riproposta.

i. Vengono inspiegabilmente ed incredibilmente esclusi dalla categoria bosco, e quindi sono eliminabili, tutti i rimboschimenti, compresi quelli storici della fine dell’Ottocento e quelli realizzati con fondi europei.

j. Il decreto demanda alle Regioni e alle Province Autonome la scelta dei soggetti a cui affidare la redazione e l’attuazione dei Piani di Gestione, purché dotati di comprovata competenza professionale. Il requisito è talmente vago da aprire ad ogni discrezionalità e abuso: i laureati in Scienze Forestali, specialisti in questo settore, iscritti al proprio Ordine Professionale, potrebbero quindi essere ignorati e i compiti affidati a soggetti più vicini ai saperi dei taglialegna e che, ottenuto il primo incarico, possono comprovare nel proprio curriculum la “competenza” e candidarsi - senza alcun controllo indipendente garantito dall’Ordine Professionale - ad assumere incarichi per sempre.

k. Il decreto afferma che la conversione a ceduo delle fustaie è sempre vietata; poi contraddice l’affermazione aprendo a una folla di eccezioni nel caso in cui le Regioni decidano il contrario. Alla fine arriva sostanzialmente ad includere la conversione a ceduo di ogni tipo di utilizzazione forestale, purché si abbia rinnovazione.

l. Viene liberalizzata, surrettiziamente, la possibilità di cambio di destinazione d’uso del suolo introducendo, all’art. 8, la trasformazione intesa come ogni intervento che comporti l’eliminazione della vegetazione arborea e arbustivaL’eliminazione del bosco, inoltre, può essere compensata anche con l’apertura di strade e opere simili che in realtà vanno oggettivamente a vantaggio delle aziende che operano i tagli. Si fa presente che l’istituto della “compensazione” è utilizzato (ad es. nei pareri di V.I.A.) solo allorquando un’opera assolutamente necessaria, che non ha alternative praticabili e che abbia adottato tutte le possibili mitigazioni, risulti comunque carica di un importante impatto ambientale residuo non eliminabile. Non è certo, questo, il caso della cancellazione di un bosco.

m. È gravissimo e contrario alla Costituzione, il disposto dell’art.12 per cui le Regioni e le Province Autonome possono procedere al taglio coattivo dei boschi esistenti su terreni privati il cui proprietario abbia lasciato decorrere il turno (di taglio) e di quelli sui terreni “silenti”, vale a dire di cui non si è riusciti a rintracciare il proprietario. Rappresenta, di fatto, un esproprio della disponibilità d’uso del soprassuolo forestale, immotivato nei confronti della natura e della volontà dei Cittadini che oggi ne curano la tutela e l’esistenza per il solo piacere di vederlo crescere, invecchiare, rinnovare spontaneamente e che stanno svolgendo un servizio encomiabile per la collettività e per il Paese.

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In conclusione questa legge è fatta male, contrasta con diverse altre discipline che regolano la materia e presenta profili di incostituzionalità. Non è condivisa da una larga parte del Paese che si è vista costretta a intervenire con prese di posizioni pubbliche, petizioni e appelli.

Non è condivisa neppure da forze politiche oggi candidate legittimamente ad esprimere un nuovo governo.

Si basa su presupposti incredibilmente antiscientifici come quello secondo cui il bosco morirebbe senza l’intervento costante dell’uomo e che l’abbandono sarebbe responsabile del loro degrado e addirittura degli incendi.
Ha un’impostazione pressoché produttivistica, utile solo al profitto immediato delle industrie del pellet e delle grandi centrali elettriche a biomasse (peraltro assai inquinanti), che oggi proliferano solo grazie agli incentivi statali senza i quali non hanno competitività di mercato, di cui alcune travolte da inchieste giudiziarie denominate silvomafie”.

Il peccato originale di questa legge è di aver ignorato, sebbene richiamato in linea di principio, ma poi senza conseguenti articolazioni, che la sostenibilità, per l’ONU e per la UE, si basa sullo sviluppo contestuale e armonico di tre fattori: economico, ecologico e sociale.

Per completezza andrebbe aggiunto il fattore culturale. In tutto l’assetto del T.U. prevale invece l’ottica economicistica “bruciante” di dimensioni industriali foriera di molti danni per il nostro Paese.

In un pungente articolo dello scorso febbraio, l’ex direttore Anpa Giovanni Damiani, assai critico nei confronti di quel provvedimento ritenuto “un’aggressione ai boschi italiani nel trionfo della motosega”, sosteneva che commissionare in via privilegiata alla filiera del legno la stesura di un tale decreto è come affidare la disciplina della tutela delle galline alle associazioni delle volpi.
Ad oggi non tutto è perduto perché Mattarella deve ancora firmarlo. Dallo scorso 16 marzo, in assenza di clamori mediatici e mobilitazioni di piazza, tantissimi cittadini si stanno rivolgendo direttamente al Capo dello Stato affinché non promulghi quel dissennato piano “albericida” messo in atto da un governo inequivocabilmente bocciato dagli italiani.

Italo Carrarini
(da: LA PIAZZA DI CASTEL MADAMA – Anno 15 – n. 4, Aprile 2018)

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Articoli collegati: 

http://bioregionalismo-treia.blogspot.it/2016/12/gli-alberi-sono-la-vita-del-pianeta-un.html

http://www.terranuova.it/Blog/Riconoscersi-in-cio-che-e/Anche-gli-alberi-hanno-un-anima


Treia. Una scuolina di agricoltura bioregionale sempre aperta


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Continuando il lungo discorso sul ritorno alla terra in chiave bioregionale a  questo punto è necessario che io  parli  della reale condizione della nostra ‘azienda agricola sperimentale’ di Treia, che in effetti azienda non è ma trattasi di un orticello urbano in cui apprendere (o ricordare) un diretto contatto con la natura e con le piante.   

La partecipazione  prevede un incontro riavvicinato con il luogo in modo da trarne un senso di appartenenza e di presenza, allo stesso tempo sperimentando dal vivo il contatto con la terra. 

Teoricamente questo è un discorso ancora molto sentito  nelle realtà rurali di Treia, dove ancora si prativa la cura dell'orto, ed in verità i miei veri maestri son stati proprio quei ‘vecchi contadini’ dai quali ho appreso alcune verità basilari sulla terra e sull’arte di trarne frutto senza danneggiarla.

Parlando in termini di agricoltura ‘naturale’ poniamo l’esempio della cura rivolta alla prole, che si manifesta con l’incoraggiamento alla crescita e non con la   coercizione,  allo stesso modo poniamoci  verso le risorse che  madre terra offre.

In termini di agricoltura bioregionale ciò significa prima di tutto rendersi consapevoli di quello che spontaneamente cresce nel posto in cui si vive.
Questo iniziale processo di osservazione, o accomunamento alla terra,  è necessario per scoprire quante erbe e frutti commestibili son già disponibili, cresciuti in armonia organolettica con il suolo e quindi
esprimenti un vero cibo integrato per chi  là vive. 

Una accurata analisi consente l’immediato utilizzo di cibo integrativo spontaneo per arricchire la dieta corrente,  oggi limitata a poche specie coltivate (sia pure in modo biologico).  Il passo successivo è quello di sperimentare l’eventuale inserimento nel terreno prescelto di piante coltivate  che siano in sintonia o meglio delle stesse famiglie di quelle spontanee. 

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Questa graduale promozione ovviamente non può essere fatta con l’occhio distaccato di un botanico o di un tecnico agricolo ma va accompagnata da una reale presenza e compartecipazione al luogo, in modo da trarne occasione per un riconoscimento di appartenenza  e condivisione  (con la vita ivi presente) divenendo in tal modo noi stessi cooperatori della natura e suoi custodi.  

E’ una convergenza, una osmosi, che si viene pian piano a creare fra noi e l’ambiente ed è anche  la base della produzione di cibo vero (per uomini veri) che non va però relegata alla sola categoria dei contadini ma vista come la premura di ognuno.

E’ un atteggiamento di consapevolezza alimentare.  Infatti il mio consiglio -dopo una breve permanenza presso  di noi è quello di intraprendere  piccole coltivazioni casalinghe ovunque sia possibile,  nel giardino dietro casa o sulla terrazza di un condominio, e di approfittare di ogni passeggiata per cogliere delle erbe commestibili,  in modo da spezzare la totale dipendenza dal cibo fornito dal mercato,  rendendoci così responsabili -sia pure in minima parte- della nostra alimentazione.  E’  un aspetto essenziale della cura per la vita quotidiana e della presenza consapevole nel luogo.

Personalmente  ho cominciato ad occuparmi  di attività ecologiste, vegetariane e di spiritualità a partire dal 23 giugno del 1973,  facendo esperienza in vari luoghi dell’India (Ashram e comunità rurali) e dal 1977 a Calcata, in provincia di Viterbo, ed ora continuo la pratica a Treia, in provincia di Macerata.  

Nell'orticello di Treia insistono 4 piante di olivo, un melo, una angolo coltivato a topinambur, un piccolo melograno, finocchiella e tante piante selvatiche commestibili. 

A questo punto mi sembra ‘opportuno’ trasmettere la
conoscenza acquisita  a quelle persone ‘esterne’,  interessate a questo tipo di  ricerca, volendo con ciò  sviluppare  quelle attività ecologiche, bioregionali e spirituali sinora portate avanti.  

Paolo D'Arpini -  Rete Bioregionale Italiana: bioregionalismo.treia@gmail.com

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Treia. Orticello urbano

mercoledì 25 aprile 2018

L'economia bioregionale secondo Leonardo Boff


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Dappertutto si va a caccia di alternative alla produzione industrial/mercantilistico/consumistica, visto che gli effetti sulle società e sulla natura si stanno dimostrando sempre più disastrosi. Il caos climatico, l’erosione della biodiversità, la scarsità di acqua potabile, la penetrazione dei pesticidi negli alimenti e il riscaldamento globale sono i sintomi più rivelatori.

Questo modo di produzione è ancora dominante, ma non è indenne da serie critiche. In compenso, appaiono dappertutto forme alternative di produzione ecologica, come l’agricoltura organica, cooperative di alimenti biologici, agricoltura familiare, eco-cittadine e altre affini. La visione di un’economia della sufficienza ossia del “ben vivere e convivere” dà spessore al bioregionalismo, come abbiamo già spiegato su questo foglio.

L’economia bioregionale si propone di soddisfare i bisogni umani (in contrasto con la soddisfazione dei desideri) e realizzare il ben vivere e convivere, rispettando le possibilità e i limiti di ogni eco-sistema locale.

Innanzitutto dobbiamo interrogarci sul senso della ricchezza e del suo uso. Invece di avere come obiettivo l’accumulazione materiale al di là di ciò che è necessario e decente, dobbiamo cercare un altro tipo di ricchezza, questa sì umana veramente, come il tempo per la famiglia e i figli, per gli amici, per sviluppare la creatività, per godersi incantati lo splendore della natura, per dedicarsi alla meditazione e al tempo libero. Il senso originario dell’economia non è l’accumulazione di capitale ma creazione e ri-creazione della vita.

Essa è ordinata a soddisfare le nostre necessità materiali e a creare le condizioni per la realizzazione dei beni spirituali (non materiali) che non si trovano sul mercato, ma provengono dal cuore e da corretti rapporti con gli altri e con la natura, tipo la convivenza pacifica, il senso di giustizia, di solidarietà, di compassione, di amorizzazione e di cura per tutto quello che vive.

Mettendo a fuoco la produzione bioregionale, abbiamo minimizzato le distanze che i prodotti devono affrontare, abbiamo economizzato energia e diminuito l’inquinamento. Quel che occorre per i nostri bisogni può essere fornito da industrie di piccola scala e con tecnologie sociali facilmente assorbite dalla comunità. I rifiuti possono essere maneggiati o trasformati in bio-energia.

Gli operai si sentono legati a ciò che la natura locale produce e siccome operano in piccole fabbriche, considerano il loro lavoro più significativo.
Qui risiede la singolarità dell’economia regionale, invece di adattare l’ambiente alle necessità umane, sono queste ultime che si adattano e si armonizzano con la natura e perciò assicurano l’equilibrio biologico.

L’economia usa in grado minimo le risorse non rinnovabili e usa razionalmente le rinnovabili, dando alla Terra il tempo per il riposo e la rigenerazione. I cittadini si abituano a sentirsi parte della natura e suoi curatori. Invece di creare posti di lavoro, si cerca di creare, come afferma la Carta della Terra, “modi sostenibili di vita” che siano produttivi e diano soddisfazione alle persone.

I computer e le moderne tecnologie di comunicazione permetteranno di lavorare in casa, come si faceva nell’era pre-industriale. La tecnologia serve non per aumentare la ricchezza, ma per liberarci e garantirci più tempo – come sempre enfatizza il leader nativo Ailton KrenaK – per la convivenza, per il riposo creativo, per il rilassamento, per la restaurazione della natura e per la celebrazione delle feste tribali.

L’economia bioregionale facilita l’abolizione della divisione del lavoro fondata sul sesso. Uomini e donne assumono insieme i lavori domestici e l’educazione dei figli e hanno cura della bellezza ambientale.
Questo rinnovamento economico favorisce anche un rinnovamento culturale.

La cooperazione e la solidarietà diventano più realizzabili e le persone si abituano a un comportamento corretto tra di loro e con la natura perché è più evidente che questo fa parte dei suoi interessi come di quelli della comunità. La connessione con la Madre Terra e i suoi cicli suscita una coscienza di reciproca appartenenza e di un’etica della cura.

Il modello bioregionale, a partire dalla piccola città inglese Totnes è assunto oggi da circa 8.000 città, chiamate Transition Towns: passaggio verso il nuovo. Questi fatti generano speranza per il futuro.

Leonardo Boff 

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Traduzione di Romano Baraglia e Lidia Arato

http://www.cdbitalia.it/2015/12/31/uneconomia-incentrata-sul-bioregionalismo-di-l-boff/

martedì 24 aprile 2018

Mondeggi. Riunione Campagna per la Legge sulle Agricolture Contadine, 14 e 15 aprile 2018 - Giro di interventi e decisioni finali


Riunione Campagna per la Legge sulle Agricolture Contadine
Mondeggi, Bene Comune 14-15 Aprile 2018
Presenti:
Orazio Rossi: ARI
Damiano Cafaggi: Comitato terre di Lastra
Roberto Li Calzi: Consorzio le galline felici
Bruno di Arezzo
Cecilia Bevicini: GAS di Firenze e Associazione Altrarno che organizza mercati contadini
Roberto Bettoja: Associazione La Spinosa di Orvieto
Sergio Cabras: Associazione La Spinosa di Orvieto
Paola De Meo: Terra Nuova
Alessandro Bignamini: WWOOF Italia, Agricoltore, Montecatini Terme
Marco Gulisano: Comitato Amig@s Sem Terra
Elisabetta Monti: WWOOF Italia
Giovanni Pandolfini: Comitato Mondeggi bene comune/ Genuino clandestino
Andrea Ghelfi: Genuino Clandestino ex ricercatore universitario
Daniele Amorati: Comitato Mondeggi bene comune
Giuseppe Finamore:  Rete Bioregionale Italiana
Stefano Gianandrea De Angelis: Crocevia, USB
Stefano Chellini: AIAB
Alessia Bartolomei: Terra Nuova
Alex Koensler: Università di Perugia
William Di Cicco: WWOOF
Francesco Amendola: CoOperazione Contadina
Eugenio Corradin: CoOperazione Contadina
Roberto Roveri: Ass. ZappaStorto
Serena Romagnoli: Amig@s Sem Terra
Ernesto Puhl: MST
Totale: 25 persone



Giro di interventi e decisioni finali:
E’ emerso fortemente il bisogno di un gruppo che si occupi della formazione (interna ed esterna, verso le scuole e/o le persone in generale, spesso lontane da questi temi). Fondamentale anche la formazione per implementare la comunicazione. Necessario creare dei materiali di formazione, che possano essere utilizzati anche dai comitati locali. Creare contenuti e strumenti spendibili. 
Paola propone di non creare corsi nuovi ma inserirsi in quelli già esistenti, che sono già numerosi.
Si è tornato a sottolineare il bisogno di inclusività e trasparenza, e la necessità di mobilitare risorse umane, intellettuali, ecc..
Sergio ha sottolineato però il fatto che bisogna tenere sempre la direzione giusta, e cioè il nostro scopo finale che è l’approvazione della legge. Se abbiamo davanti a noi quello scopo ben chiaro, è più facile portare avanti la campagna e non perdersi.
Si propone di non creare comitati locali nuovi, ma appoggiarsi a quelli già esistenti. Ci si propone di avere un o più responsabili/referenti per regione e ove possibile provincia. Questi verranno indicati sul sito.
Si decide di far aderire non solo le associazioni ma anche i singoli individui, a fronte del versamento di una quota associativa (100 euro per associazioni, 5 euro minimo per individui). La partecipazione dei singoli è una presa di posizione importante e fondamentale per la promozione sui territori.
Inizialmente si propone di far convergere il gruppo legislazione con quello coordinamento. Successivamente, si è deciso di far sì che il gruppo coordinamento fosse formato da 2 rappresentanti di ogni gruppo, un uomo e una donna. Il gruppo coordinamento non ha un vero e proprio potere decisionale, è al pari degli altri, ma è un punto di incontro e scambio tra i gruppi e quindi, se necessario, decide su alcune cose (es. spese).
Decisioni sui gruppi:
  1. gruppo legislativo: ragiona su legge quadro nazionale e leggi regionali/locali e internazionali. Rapporti e pressione su parlamentari. Partecipanti: Sergio, William, Stefano (AIAB), Elisabetta, Paola, Orazio, Francesco.
  2. Gruppo comunicazione: strumenti quali volantino (prioritario), sito web (idem), creazione di video, newsletter (ma per ora è presto), aggiornamento social, gestione delle mailing list, Google Suite + AdWords (strumento di Google che permette di avere, per le associazioni, 120mila dollari l’anno in pubblicità, ossia permetta di essere tra i primi risultati delle ricerche su determinati argomenti, ecc.), testimonial, logo della campagna. Partecipanti: Alessia, Alessandro, Roberto Li Calzi, Roberto Bettoja, Roberto Roveri, Sergio Cabras, Aldo ( da confermare).
  3. Gruppo formazione: interna ed esterna, elaborazione contenuti e strumenti. Partecipanti: Serena, Damiano, Alex, Marco, Daniele.
  4. Gruppo Extra > finanziamento: apertura conto, supervisione versamento quote, gestione rimborsi spese. Partecipanti: Paola, Alessandro (per pagamento online).

Stralcio del report di  Alessia Bartolomei - bartolomei@terranuova.org