Viviamo dentro emozioni. Più precisamente, siamo emozioni. Esse si mostrano attraverso noi, e noi necessariamente ne siamo espressione. Dunque, l’equazione è facile: il mondo, la realtà, tutto non è che un’emozione.
Paura e panico sono emozioni che impediscono di uscire di casa, che ci impongono uno status segretamente alienato, frustrato e timorato, ovvero di essere in equilibrio con noi stessi. Sono imposizioni di vita e di realtà. Ma le due emozioni citate, eclatanti, che tutti sappiamo riconoscere ed elencare, intendendole nelle loro espressioni apicali, hanno forma anche piatta. In dosi minori, non arrivano a immobilizzare o a compiere scelte sprovvedute. Silenti in noi, si annunciano e non si fanno avvertire, sono croniche, ci accompagnano qualunque strada si stia facendo, non percepite dai radar della consapevolezza.
Prendiamo ad esempio un individuo ideologizzato, – cioè dentro una specifica emozione – che non significa vada per strada col libretto rosso in una tasca e l’Hazet 36 sottobraccio. Finché le idee in cui crede e si identifica lo informano, esse saranno parte di lui; finché vorrà difenderle o diffonderle, finché le altre e opposte lo toccheranno direttamente e necessariamente lo coinvolgeranno, tutto, ma proprio tutto ciò che vivrà, esprimerà la sua fede, condurrà la sua biografia, giudicherà la sua coerenza. I suoi pensieri saranno mattoni per costruire la realtà che considera corrispondente alla sua fede; anche quelli contraddittori, in quanto nient’altro – dirà – che questioni cui rimediare o sensi di colpa, cioè manifestazioni della sua genuina fedeltà alla propria ideologia, quindi a se stesso.
Se i sentimenti hanno un carattere binario, nel senso che tutti i tipi sono riconducibili a una sola coppia di opposti, ovvero, come il bianco e il nero, di attrazione e repulsione, le emozioni sono molteplici, come i colori. Per quanto in quantità varino da individuo a individuo o da situazione a situazione, ognuno ne esperisce sfumature personali, piccole variazioni che ci inducono a corrispondenti letture personalizzate della realtà, con qualunque unità di misura la si voglia ponderare. Se i sentimenti sono legami, che implicano una relazione, le emozioni no. Esse possono essere ponti di comunicazione, e antenne per chi si muove sulle lunghezze d’onda dell’empatia. Che non significa ascoltare l’altro ma assumere la sua emozione.
Lievi sfumature o grandi differenze delle emozioni inducono a comportamenti e scelte obbligate, onde per cui realizziamo una sola delle possibili, teoriche scelte che avremmo avuto a disposizione. Per quelle alternative, sarebbero servite altre emozioni. Nonostante ciò sia una considerazione piuttosto popolare, se non totalitaria, si tratta in realtà di una superstizione. Credere di avere più opzioni è solo un fanciullesco senno di poi, basato sull’inconsapevole visione di un mondo del tutto assente al momento della scelta o prevaricato da altre visioni: dentro l’emozione del razionalismo über alles, infatti, il singolo individuo finisce per applicare al prossimo un ventaglio di opzioni del tutto chiare a lui che le ha enunciate, ma del tutto ignote o impossibili da cogliere per l’altro.
Pari gravità di lettura del reale accade quando siamo portatori sani – ma senza la consapevolezza di esserlo – del meccanicismo, del riduzionismo, del determinismo e della loro corrispondente filosofia, il materialismo. Infatti, una popolare emozione è quella che ci fa credere nella scienza quale unico criterio attendibile di ricerca della verità. La descrizione della realtà, operata da chi vanta di averla comprovata tramite metodo scientifico, è pronunciata con assoluta fermezza e – nonostante Popper – è assunta come pienamente, anzi, dogmaticamente attendibile dalla vulgata, a sua volta partecipe della medesima emozione o incantesimo.
Il sortilegio emozionale ci contiene e guida fin quando non si prende coscienza della sua influenza. Fino ad allora ne siamo preda, e a lui consacriamo tutta la nostra energia, bellezza, creatività. L’emozione diventa vera e propria egregora e la sua forza determina ciò che facciamo come la dipendenza fa con il dipendente, come l’aguzzino con la vittima.
Nessun argomento razionale può aprire o scardinare l’invisibile portone che ci rinchiude nella cella dell’inconsapevolezza dell’emozione che siamo. Solo l’accadimento in noi di altre e opportune emozioni può offrirci il ponte per passare l’abisso che ci isolava da noi stessi.
Così, può accadere di prendere coscienza che pensavamo, parlavamo e vivevamo entro il bozzolo dorato dell’autoreferenzialità della scienza e della sua inconsapevole elezione a dogma; nonché, giocoforza, del limite della logica e della razionalità; quindi ancora, della realtà come oggetto nel quale credevamo di muoverci come entro un salotto, a sua volta composto da altri oggetti, ognuno dei quali, da lì asportato e portato in laboratorio, avrebbe mantenuto la sua natura, ragione e identità.
Osservare codesta deriva meccanicistico-scientista è il passo che, nell’aprire i catenacci, ci permette di considerare la realtà come organismo, poiché essa ci ha fatti e ci contiene, poiché non ne siamo una parte, bensì un’espressione, e poiché nulla è indipendente e tutto è in relazione. Una presa di coscienza, questa, che ci farà inorridire, dal momento che finora ci eravamo creduti neutri osservatori del reale.
Se la scienza scientista, quella convinta che la sua linea di ricerca possa condurre alla verità e alla conoscenza, fosse meno arrogante – è un ossimoro – avrebbe chiaro il limite del campo logico in cui va sempre a giocare, avrebbe chiaro che per occuparsi di origine della vita e della conoscenza, dovrebbe prima riconoscere l’origine di se stessa, avvedersi della propria autoreferenzialità, quindi di quanto sia piccolo il mondo racchiuso nel suo regolamento logico-razionale, buono per l’amministrazione della vita, ma fuffa per la vera conoscenza.
Riconoscere in che termini, nel sottoregno scientista della scienza, la conoscenza non sia che fuffa, prima di essere un eureka, è uno shock. Dal buio della nostra assoluta certezza di essere proprietari di noi stessi – certi di sapere perché abbiamo studiato, convinti di essere nel giusto perché abbiamo un’etica e inseguiamo la virtù, perché seguiamo la retta via in quanto detentori del buon senso, piuttosto che abdicare al titolo di degni probiviri della scienza –, ci dimeniamo come anguille nel secchio sotto lo sguardo del pescatore che, tirandoci fuori dall’acqua, ci ha svelato che, oltre al mondo che credevamo, ce n’era un altro.
Avvedersi che l’oggettività della realtà e della conoscenza non era che una bufala, passa attraverso fasi contraddittorie che ognuno, sempre per le solite emozioni, elabora a suo modo, tramite percorsi individuali che avanzano e ci fanno evolvere secondo motivazione personale.
L’emancipazione prima e poi la libertà dal conosciuto cognitivo permette quindi l’accesso a dimensioni della vita non più castrate e costrette entro il limitato campo della logica. Il mondo alogico, quello della magia, ovvero della cosiddetta scienza suprema, diviene disponibile. E così, come prima ci perdevamo nel dilemma dell’uovo e della gallina, cercando con accanimento scientifico l’origine di tutto, ora possiamo riconoscere che eravamo gli arbitrari autori tanto del dilemma, quanto dell’accanimento, e che quel tutto non sta nelle regole del piccolo scienziato a cui ci piaceva tanto giocare. È proprio la logica duale tanto a creare la domanda, quanto a impedirne una risposta soddisfacente. Il paradosso ci avverte sulla sua fallacia se estesa a dio della conoscenza.
Ora potremo comprendere che era proprio quel costretto modo di procedere a impedirci di essere anche il mistero, anche il tempo, anche gli altri, anche la realtà che vediamo e che ora sappiamo essere una nostra creazione.
Porsi domande analitiche, oltre a generare l’impotenza di sentire ed essere il mistero, impedisce anche di vedere, accreditare e relazionarsi al mondo delle forze che si muovono nelle situazioni e ne inducono gli esiti, di constatare i propri punti di forza e di vulnerabilità, di riconoscere attraverso il sentire come sfruttare i primi e ridurre i secondi, sebbene non si tratti di processi lineari, prevedibili, pianificabili. Logici.
Così, col piede della consapevolezza nella porta del cielo, non intravediamo più oggetti, ma l’evidenza che era proprio una certa emozione a impedirci di vedere l’assurdità di spiegare l’universo con la scatola del piccolo scienziato aperta sul tavolo, con le quattro regolette imparate alle lezioncine della scuola. Industrialmente formati per replicare. Veri stampini che, pur credendosi liberi e padroni della propria immaginazione, non possono che ridondare nel già detto, nel già visto e conosciuto, con la sola eventuale opzione creativa di perfezionarlo e nulla più. E anche per condannare coloro che, invece, meno teleguidati dalla sola lunghezza d’onda di questa tecnologica cultura, creano, sanno di creare, sanno riconoscere i limiti e la necessità di quanto accade e per questo sono considerati eretici, idonei al rogo dell’inquisizione degli esperti, dei baroni, dei presidenti, dei bigotti, del potere.
Diversamente dal determinismo, dal meccanismo causa-effetto, dal tempo lineare della meccanica classica, dalle probabilità quantificate, nella fisica dei quanti troviamo la tendenza, l’eventualità, la possibilità inqualificabile. La fisica quantistica induce a una filosofia che permette di cogliere il valore della magia. Nessuna delle due gioca sul campo logico-razionale. Le regole divengono insieme al gioco stesso. La comunicazione non ha ponti industriali-razionali uniformati, ma sempre occasionali-creativi personalizzati. La realtà non è fuori, ma dentro. Entrambe sono oltre l’uscio. Lo vede chi ha messo il piede nella porta.
Del resto le emozioni non sono un salto nel tempo, come tutti abbiamo sperimentato? Ovvero, non realizzano la principale irreversibilità, data per certa, della fisica classica?
Dal tempo della deriva razional-illuminista, la conoscenza oggi è solo conoscenza tecnica, parcellare, specialistica; non ha in sé nulla che possa permettere di emanciparsi dalle ragioni della sofferenza, anzi. Nessun accumulo di questo tipo di conoscenza potrà mutare lo stato di sofferenza in cui consumiamo una vita di superficie, simile a un palco dove, in tempi differenti, recitiamo i ruoli, anche contradditori, dettati dalle emozioni. L’erudizione non ha nulla a che fare con la forza – semmai con il potere materiale – con la bellezza, con l’armonia, con la creatività. Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza non allude alla via dell’accumulo di dati, ma a quella delle consapevolezze; non soltanto allo studio fine a se stesso, frainteso come conoscenza, ma alla contemplazione che ci mostra l’infinito che siamo.
La conoscenza è già in noi. Riuniti al nostro sé, emancipati dal nostro io, possiamo coglierne a piene mani, possiamo navigare in tutti mari e con tutti i tempi, realizzando le migliori scelte. La conoscenza acquisibile, cognitiva, tanto più è creduta la sola, tanto più ci allontana da noi stessi e ci consegna alle ideologie, alle superstizioni, agli incantesimi. E ci porta alla cultura di sofferenza che conosciamo.
Lorenzo Merlo
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