Immersi nella superstizione che ci sia un mondo di fronte a noi e quindi preda dell’incantesimo dell’oggettività, incaponiti a seguire l’idolatria del razionalismo, ci sfuggono le prospettive utili per evolvere, per realizzare educazioni e politiche più consone all’uomo meno infettate di idealismo.
Ce l’avevo sotto il naso e non lo vedevo. Quanto volte ce lo siamo detti, quante ce lo hanno detto e quante lo abbiamo detto ad altri. È una formuletta apparentemente ovvia e innocua, ma che contiene una sostanza piuttosto sconosciuta, dal potere deflagrante.
Appare ovvia e innocua perché sembra riferire una realtà alternativa che avremmo effettivamente potuto vedere, conoscere, scegliere, realizzare. Solo che non lo era per niente. Non c’era alcuna alternativa a parte quelle che abbiamo vagliato, ma alla fine comunque scartato, tralasciato, svalutato.
Quella formuletta induce in noi la convinzione d’avere sbagliato e le sue conseguenze, quali la colpevolizzazione, l’esclusione, il senso di colpa. Un suo potere che viene meno una volta emancipatisi dalla superstizione che non era vero avevamo a disposizione paritaria anche ciò che poi non abbiamo scelto.
Solo il cosiddetto senno di poi ci permette, sfacciatamente, di impiegarla, la formuletta. Ma è un ulteriore abbaglio. Infatti solo il visto è il considerato e, al suo interno, solo l’utile è scelto. Tutto è selezionato secondo in filo rosso della nostra biografia, altrimenti detto destino. Ciò che resta fuori, indipendentemente da quanto poi lo si possa aver ritenuto sotto al naso, era stato a noi invisibile.
Misconoscere o, peggio, non avvedersi della nocività dello smodato impiego del senno di poi, non tarda a condurci alla sopraffazione del prossimo che non ha visto quanto aveva sotto al naso. Sopraffazione ricca di tutte le misure possibili. La più impiegata da noi, persone serie, intelligenti e rispettose del prossimo, nonché erudite e religiosamente scientifiche (ma sarebbe opportuno dire scientiste) è il deliberato impiego dell’ovvio. Non esiste ovvio se non nel mondo autoreferenziale che la nostra storia, le nostre emozioni e il nostro allineamento hanno selezionato e se non nel campetto di gioco in cui più persone condividono regole, linguaggio e sue accezioni. Allora sì che è ovvio che 2+2 faccia 4. Ma non è per niente ovvio ciò che secondo altri avremmo dovuto scegliere, quando il campetto di gioco nostro è diverso da quello altrui. Né quando siamo consapevoli che i nostri campi hanno righe che li delimitano secondo l’esigenza del giocatore. È così che tutta la cosiddetta realtà non è che suggestione e che la suggestione dei prepotenti ne elegge una sopra le altre.
Tuttavia anche questi inciampano e battono il naso. Dovrebbe bastare per far insorgere in noi la consapevolezza che stavamo adottando una modalità di relazione col prossimo piuttosto violenta. Ma non va così. Non c’è senno di poi che possa ravvederci. La nostra spinta biografica non ci rende idonei a vedere le verità che la metafora autoreferenziale del campetto ci mette sotto al naso.
Solo dall’esterno di noi, da altri universi, o da noi in altro momento, si può ritenere che altro da quanto avevamo scelto era a nostra disposizione. Passare con il rosso per un sopra-pensiero ne è un campione, non avvedersi delle bugie di chi ci sta a cuore, ne è un altro. Lo stesso avviene quando si pensano cose fuori contesto, quali ridere a un funerale, leggere e non seguire il racconto, dimenticare la pentola sul fuoco.
Ma la questione del ce l’avevo sotto al naso, non riguarda soltanto le sviste, ovvero ciò che grossolanamente si potrebbe spingere dentro la scatola dei cosiddetti errori. No. Per niente. La questione è più ampia ed è estesa a tutto e a tutte le circostanze della vita.
Ogni nostra posizione nei confronti di qualunque situazione segue una via che si apre davanti a noi strada facendo, silentemente condotta dalle esigenze contingenti, a loro volta obbligate della nostra biografia. Ovunque ci porti nel bene e nel male, verso la soddisfazione delle nostre aspettative ed intenti, o verso la loro frustrazione e irrealizzazione, significa che abbiamo scartato le ipotetiche alternative. Oltre, fuori, al di là di quello che vediamo – che il vincolo della nostra biografia ci impone/concede di vedere – il mondo sparisce, e, a causa di quello che vediamo il mondo esiste, ad esso limitato.
Se così non fosse non avremmo problema alcuno a sottrarre alla tristezza un nostro amico, né alcuna difficoltà a far convertire alla nostra ideologia i nemici. La lista degli esempi è lunga quanto la vita. Ogni situazione rivela che non abbiamo potuto considerare altro se non quello cui eravamo obbligati. In ogni momento possiamo trovare nella nostra biografia posizioni che avevamo sostenuto, dalle quali ora prendiamo le distanze inorriditi. Ogni nostro istante, come dice il Tao, è una verità. Giudicarlo un istante dopo è una blasfemia.
Se così non fosse, sarebbero davvero acuti e arguti coloro che si disperano per Cassano e Balotelli, geni del calcio che avrebbero potuto fare di più. Sì, ma solo secondo una teoria – che solo loro concepivano – scambiata per realtà. Come razionalmente non possiamo sottrarre da un’emozione il prossimo, così non possiamo neppure indicare la retta via per non sbagliare. È il potere dell’egregora che ci domina. In quanti avranno provato a redarguire e a “correggere” Cassano e Balotelli? Un acume e un’arguzia purtroppo assai diffusa. Ma non c’è da farne una colpa a coloro che ne dispongono. Siamo figli di una cultura cieca quando si tratta di riconoscere i perché e le radici delle nostre scelte e comportamenti.
È la cultura meccanicista, materialista, fondata sul principio del causa-effetto adottato anche in ambito di relazioni umane, quindi una sorta di elefante in cristalleria. Ovvio, no?
Cultura quantitativa, inetta a concepire che siamo universi diversi, ma geniale nel ritenersi in potere di giudicare stupido chi non si sia avveduto che aveva la soluzione della sua vita proprio sotto il naso.
Lorenzo Merlo
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