"Un colpo di luce in mezzo alla luce fondamentale... La cosiddetta oscurità è solo un concetto della mente." (Saul Arpino)
Quando parlo di una "Comunità ideale" non penso ad un modello urbanistico o territoriale ma ad un modo di percepire la presenza umana nel luogo. Una presenza inserita nel contesto della natura, nel consesso dei viventi, in condivisione olistica e simbiotica.
Un saggio disse che noi non possiamo essere altro che una parte integrante della manifestazione totale e del totale funzionamento ed in nessuna maniera possiamo esserne separati.
Eppure l'uomo tende a dare maggiore importanza al contesto urbano in cui egli vive. Ma è nella società umana, con le sue esigenze e movimenti, che si fa la storia e si sancisce la caratteristica di un posto, molto spesso dimenticando l'appartenenza al tutto, ignorando l'inscindibile co-presenza della natura e degli animali. Ma per manifestare una vera "idealità" dovremmo riscoprire le nostre radici naturali, continuando a prendere ad esempio un certo modo naturale di vivere il luogo e nel luogo.
Lo scopo del nostro vivere bioregionale è perciò quello di vivere nel presente e pienamente nel luogo che ci ospita attuando programmi, storie, partecipazioni nell´ambiente (sia naturale che umano), poesie, riflessioni... stabilendo un punto di incontro e fusione delle anime.
Nell'antico libro di saggezza cinese, I Ching, si afferma che la perfezione è sempre presente in ogni aspetto incarnato, ognuno di noi è una manifestazione del Tao, non serve cambiare sembianze, queste ultime non sono importanti più di un abito che indossiamo.
Anche solo parlare di questi argomenti è già una predisposizione utile per centrare l'attenzione sulla presenza consapevole nel luogo Ed anche questo è una parte del "gioco della Coscienza bioregionale".
Tira un forte vento qui a Treia, i panni stesi svolazzano. Ancora si fa desiderare la primavera...
Paolo D'Arpini - Rete Bioregionale Italiana
venerdì 16 maggio 2025
Bioregionalismo Treia e la Comunità Ideale...
giovedì 15 maggio 2025
L'ultima preda dell'imperialismo... (per conquistarla ci vuole un "first strike"?)
mercoledì 14 maggio 2025
Italia Nostra contro le "nocività ambientali" sul territorio dei Castelli Romani...
L'espressione "nocività ambientali" che, a prima vista, potrebbe sembrare un pò generica, in realtà, fa riferimento concretamente alle gravi problematiche e minacce che gravano da tempo sul territorio dei Castelli Romani e dintorni, quali, in sintesi:
primo tra tutti l'incombente impianto di incenerimento da 600 mila tonnellate di rifiuti indifferenziati "tal quale" che l'amministrazione del comune di Roma ha previsto in località Santa Palomba, ai piedi dei Castelli Romani, il quale avrà un impatto fortemente deleterio sul nostro territorio, in termini di deturpazione del paesaggio (con una ciminiera di oltre 80 metri), inquinamento da polveri sottili e CO2 che saranno immesse nell'aria in grandi quantità (a 3 km dall'ospedale del NOC), con un grave consumo idrico, nonchè il conseguente scoraggiamento della raccolta differenziata a Roma, in contrasto stridente con l'obiettivo dei principi dell'economia circolare, ricordando come, da parte dell'amministrazione di Roma, da sempre, si tenda a scaricare i problemi della megalopoli ai confini, anche con i Castelli Romani come, ad esempio, nella gestione dei rifiuti, è accaduto con la discarica di Roncigliano, soltanto per ora chiusa, ma, si spera, chiusa in modo permanente.
Ma non parliamo solo dell'incombente inceneritore ( o termovalorizzatore che dir si voglia), ma anche delle altre problematiche importanti che affliggono il nostro territorio da decenni quali, in particolare:
il consumo di suolo e la cementificazione imperante, che ha stravolto il nostro paesaggio originario (con la perdita di molti vigneti ed uliveti) e condotto ad un incremento demografico ingiustificato della popolazione, attratta dalle nuove abitazioni costruite negli ultimi 40 anni circa;
il conseguente sovrasfruttamento delle falde acquifere che, associato all'impermeabilizzazione del suolo, dovuto alla cementificazione, sta provocando un impoverimento pericoloso della falda ed un abbassamento disastroso del livello dei laghi Albano e Nemi;
lo sfruttamento intensivo del nostro patrimonio boschivo che, all'interno del Parco regionale dei Castelli Romani, è per il 95 % destinato al taglio ceduo;
senza trascurare anche l'impellente ampliamento dell'impianto della Fassa Bortolo con ulteriori immissioni inquinanti nell'aria.
martedì 13 maggio 2025
La questione del "Dio"... (nel Buddhismo)

Da più di un secolo, i molti Occidentali a cui è stato insegnato il Buddismo, hanno acriticamente accettato che assolutamente e categoricamente non c'è alcun Dio, nessun Divino nel Buddhismo. Ma è abbastanza vero, questo? Non è forse il momento di riguardare ciò che in realtà questa grande religione sostiene in relazione all'idea di una possibile Divinità? In primo luogo, occorre che noi si definisca "Dio". Un concetto chiave è quello dell'assoluta Realtà eterna. La "Cambridge Encyclopedia" (CUP, 1997 p. 460) dice: "Dio è concepito come 'essere esso stesso'… assoluto, infinito, eterno, immutabile, incomprensibile… totalmente saggio (onnisciente), sempre presente in ogni dove (onnipresente), e totalmente buono (onni-benevolente)". C'è un qualcosa che si avvicina a questo nel Buddismo? Sì! Guardiamo qualche piccolo dato della grande quantità di evidenze.
Nei suoi primi insegnamenti, il Buddha parlò del reame di Nirvana (eterna pace e felicità) che è "non-nata, non-originata, non-creata" (Udana). Questo significa che il Nirvana non giunse in essere per una qualche causa: esso era là da sempre. In seguito, nei suoi insegnamenti del Mahayana, il Buddha parla del Buddha come il "Re Santo" di questo reame misterioso di Nirvana. Nel Nirvana Sutra, afferma: "La dimora dell’insuperato Signore del Dharma, il Re Santo, è concordemente chiamata 'Grande Nirvana'." (Mahayana Mahaparinirvana Sutra, tradotta da K. Yamamoto, redatto da T. Page, Nirvana Publications, 2000, Vol. 7, p. 28). Il "Dharma" è il sostenere la cosmica Verità Ultima, ed il Buddha è l'incarnazione di questa Verità – il volto personalizzato dell'impersonale Assoluto.
Inoltre, si dice che il Buddha sia presente dappertutto. Di nuovo, nel Nirvana Sutra, il Buddha dichiara di sé: "… il Tathagata [cioè, il Buddha] pervade tutti i luoghi, proprio come lo spazio. La natura dello spazio non può essere vista; così similmente, il Tathagata non può realmente essere visto, eppure fa sì che tutti possano vederlo attraverso la sua sovranità. Tale sovranità è chiamata 'il Grande Sé'. Quel Grande Sé è chiamato 'il Grande Nirvana'. " (ibid, p. 30). Così si afferma che Egli è "onnipresente", invisibile, però in grado di manifestarsi attraverso la sua grande "sovranità". Un ‘Sé’ sovrano, onnipresente, invisibile, increato, cioè il Dio Signore – non vi è familiare, tutto ciò? Non ha un qualche sentore della forma della Divinità?
Andiamo avanti. Il Buddha, nelle Istruzioni sul sutra ‘Non c’è Diminuzione e Nè Aumento’, rivela come la sua intima ed onnipresente natura - chiamata "Dharma-dhatu" (reame della Verità) - costituisce il Rifugio Eterno per tutte le creature ed il vero cuore di tutti gli esseri. Egli dice: “La Base di questo eterno, immobile, puro ed immutabile Rifugio, che è libero dal sorgere e dal cessare, l’inconcepibile puro Dharmadhatu, io lo chiamo 'puro-essere' [sat-tva]." Notiamo che questa "terra-di-base" dell'essere, del Buddha è "inconcepibile" o "incomprensibile" – che sono un'altra qualità associat con il Divino.
Ma c'è di più. Nel Lankavatara Sutra, il Buddha dice di come Egli è adorato sotto diversi nomi, come Verità (satyata), Nirvana, e "Dio" ("Isvara"), eppure non è compreso da coloro che lo adorano in queste varie modalità. Loro non riescono a vedere che l’uno-e-stesso increato, imperituro essere, è qui chiamato sotto una gran quantità di nomi. Alcuni pensano perfino che egli sia una non-entità, un non-esistente! I commenti di Buddha: "Essi mi prestano rispetto e mi donano offerte, ma non capiscono bene il significato delle parole, non distinguono le idee, e né il vero dal falso; attaccandosi alle parole degli insegnamenti, essi erroneamente discriminano che il Non-nato e l’Imperituro significhino la non-esistenza. Così loro non sono capaci di comprendere che il Tathagata [cioè, il Buddha] può essere conosciuto in molti diversi nomi e titoli". (‘Studies in the Lankavatara Sutra’, del Dott. D. T. Suzuki, Motilal, 1999 p. 354).
Forse è questo il motivo percui molte persone hanno frainteso un'importante area del Buddismo: dato che il Buddha parla di qualcosa che era Increato o Non-nato, molti hanno presunto erroneamente che ciò doveva significare che non c'è nulla del tutto, - poiché nulla è mai venuto ad esistere. Ma questo è mancare il punto centrale – e cioè, che la Realtà era, è, e non può mai essere creata: perciò essa È!
Infine, se il lettore ha ancora dubbi riguardo al Dio concepito nel Buddismo, provi ad ascoltare le parole del Buddha Primordiale, il cui nome è Samantabhadra – che guarda caso significa "Tutto-Buono", una delle definizioni di Dio, il quale nel sutra "All Creating King (Il Re che Tutto-crea)", rivela in termini maestosi e che ispirano il più alto timore riverenziale - che tutti gli esseri e i fenomeni sgorgano in nessun altro luogo che da essa - la cosmica Mente Risvegliata: "Io sono il centro di tutto ciò che esiste. Io sono il seme di tutti quelli che esistono. Io sono la causa di tutti gli esseri che esistono. Io sono il tronco di tutto ciò che esiste. Io sono la base di ogni esistenza. Io sono la radice stessa dell’esistenza. Io sono 'il centro',perché contengo tutti i fenomeni. Io sono 'il seme' perché genero tutto. Io sono 'la causa' perché tutti vengono fuori da me. Io sono 'il tronco' perché le ramificazioni di ogni evento germogliano da me. Io sono 'la base' perché tutti dimorano in me. Io sono chiamato 'la radice' perché io sono Tutte-le Cose". (Chogyal Namkhai Norbu, "La Suprema Fonte", trad. di Adriano Clemente, Snow Lion Publications, 1999 p. 157). Questo Buddha è sicuramente come Dio - la fonte, sostenitore ed essenza di Tutte le Cose e Tutti gli Esseri. Perciò, non è forse giunto il momento di smettere di chiamare "ateo" il Buddhismo?
Tony Page
lunedì 12 maggio 2025
Fermare l'industria delle armi...
L’Italia sta per acquistare altra tecnologia militare da Israele con il programma Gulfstream G-550 (ripreso da peacelink.it)
Siamo in tempo per mobilitarci. Infatti la Commissione Difesa del Senato non ha ancora espresso il parere sullo schema di decreto del Ministro della Difesa relativo alla prosecuzione dei programmi di ammodernamento e rinnovamento SMD 03/2020 e SMD 37/2021, con scadenza fissata al 26 maggio 2025.
Condividi questa pagina web e scrivi queste due lettere
- una alla senatrice Stefania Pucciarelli (stefania.pucciarelli@senato.
it ) relatrice del programma militare; - una alla presidente della Commissione Difesa del Senato, Stefania Craxi (stefania.craxi@senato.it).
Nelle lettere occorre chiedere che la commissione voti contro il programma pluriennale di A/R n. SMD 19/2024, relativo alla prosecuzione dei già avviati ed approvati programmi di A/R n. SMD 03/2020 e SMD 37/2021, finalizzati alla progressiva implementazione di suite operative “Multi-Missione Multi-Sensore” (MMMS) su piattaforma condivisa Gulfstream G550 “Green” base JAMMS (n. 264).
Proposta di email alla sottosegretaria alla Difesa Stefania Pucciarelli
Indirizzo: stefania.
Oggetto: No all’acquisto di tecnologia militare israeliana – Appello per un voto contrario
Gentile Sottosegretaria Pucciarelli,
Le scrivo per esprimere la mia forte contrarietà all’acquisto da parte del Governo italiano di velivoli CAEW, prodotti da Elta Systems/Israel Aerospace Industries, destinati a potenziare le capacità di spionaggio e guerra elettronica del nostro Paese.
Mi riferisco all’implementazione di suite operative “Multi-Missione Multi-Sensore” (MMMS) su piattaforma condivisa Gulfstream G550 “Green” base JAMMS, attualmente in esame al Senato nella Commissione Difesa.
In qualità di relatrice di questo programma militare e membro della Commissione Difesa del Senato, ha oggi una responsabilità particolare. Questo non è un semplice programma tecnico: è una scelta politica, che rinsalda rapporti militari con un governo, quello israeliano, attualmente responsabile di orrende stragi sui civili a Gaza per cui è sotto accusa a livello internazionale.
L’Italia deve rompere ogni accordo militare con Israele. Acquistare tecnologie militari da Israele significa oggi finanziare un particolare settore del complesso industriale di un governo che opera con grave disprezzo per il diritto umanitario internazionale.
Le chiedo quindi per ragioni di coscienza e di coerenza con la Costituzione Italiana di opporsi a questo programma.
L’Italia deve uscire da ogni rapporto di affari con l’industria militare di Israele ed essere invece promotrice di pace, dialogo e tutela dei diritti umani.
In attesa di un Suo riscontro, Le porgo cordiali saluti.
[Nome e Cognome]
[Città / Provincia di residenza]
[Eventuale organizzazione o rete]
Proposta di email alla senatrice Stefania Craxi, presidente della Commissione Difesa
Indirizzo: stefania.craxi@
Oggetto: Voto contrario al programma militare Italia-Israele – Appello in difesa dei diritti umani
Gentile Senatrice Craxi,
Le scrivo in qualità di cittadino/a profondamente preoccupato/a per il programma di acquisto da parte del Governo italiano di velivoli militari CAEW (Conformal Airborne Early Warning), strumenti altamente sofisticati per la sorveglianza aerea e la guerra elettronica, prodotti dalla Israel Aerospace Industries.
Mi riferisco all’implementazione di suite operative “Multi-Missione Multi-Sensore” (MMMS) su piattaforma condivisa Gulfstream G550 “Green” base JAMMS, attualmente in esame al Senato nella Commissione Difesa.
Questa operazione, oltre a rappresentare un’ulteriore spesa militare in un momento di grave crisi sociale ed economica, lega il nostro Paese a rapporti commerciali nel settore bellico con uno Stato – Israele – oggetto di ripetute denunce per gravi violazioni dei diritti umani a Gaza e in Cisgiordania.
Mi rivolgo a Lei non solo come Presidente della Commissione Difesa del Senato, ma anche in quanto membro della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani. È proprio in virtù di questo doppio ruolo che Le chiedo un gesto di coerenza istituzionale e morale: votare contro questo programma militare.
Promuovere i diritti umani significa anche non rafforzare economicamente e tecnologicamente governi che violano il diritto internazionale umanitario.
Le chiedo di dare ascolto alla coscienza civile di tanti cittadini e cittadine che non approvano rapporti di complicità con il complesso industriale-militare israeliano.
La ringrazio per l’attenzione e confido in un suo impegno coraggioso.
Cordialmente,
[Nome e Cognome]
[Città / Provincia di residenza]
[Eventuale organizzazione o rete]
Fonte ed info: Alessandro Marescotti <a.marescotti@peacelink.org>
domenica 11 maggio 2025
Oliver Stone... fuori contesto?
Il regista premio Oscar Oliver Stone ha visitato Mosca e lì ha rilasciato una dichiarazione forte. Ha affermato che le autorità statunitensi ed europee stanno mentendo alla popolazione: i russi non sono dei nemici.
"9 maggio 2025. È stata la parata più grande dal 2021, dal leader russo niente minacce all’Occidente. Sugli spalti anche il regista Oliver Stone e l’attore Steven Seagal." (Domani)
Report:
sabato 10 maggio 2025
Scientismo = idolatria della scienza...
L’alone che avvolge di mistero e conferisce segreti a quanto non conosciamo, in particolare a ciò che lo scientismo – idolatria della scienza – ci vieta di avvicinare, pena la derisione e la condanna di superstizione e ignoranza, si scioglie al cospetto della purezza con la quale possiamo avvicinarlo.
La formuletta
Così in basso come in alto è una formula alchemica che allude alla consapevolezza che quanto accade nello stato materiale ha una corrispondenza spirituale e viceversa, cioè che quanto possiamo osservare nella cosiddetta realtà concreta contiene ed esprime ciò che è presente in quella sottile o metafisica. Una dualità che cessa di essere tale, la consapevolezza della quale permette di esorcizzarla, fino a riconoscere in tutte le parti, apparentemente separate, l’intero che le contiene e mostra.
La presenza nelle nostre coscienze di quanto non è misurabile, dell’assoluto, dell’infinito, del mistero o di Dio permette di dare verità al motto alchemico, in quanto è dall’informe e uniforme vuoto che anima l’eterno, che avviene il pieno delle forme difformi della storia.
Ed è per la medesima prospettiva che per il buddhismo “non conta l’atto in sé ma quello dotato di intenzione” (1), tanto nel bene quanto nel male. Dunque l’innocenza, qualsiasi effetto comporti, non ha effetti sull’evoluzione umana, ma ne ha invece l’intenzione interessata, egoica, tanto da mantenerci nel ciclo del samsara, cioè legati alla sofferenza.
Il cambio di paradigma dalla concezione della realtà oggettivata – univoca e per tutti identica, nonché separata da noi – a quella soggettivata – che si realizza al nostro cospetto e che dipende dal nostro stato, dal corpo organico in cui siamo presenti – scaturisce nel momento in cui possiamo pronunciare la formuletta quale nostra creazione e non come slogan, scimmiottatura, luogo comune o vanto d’erudizione intellettuale.
Capire non basta, ricreare è necessario. È un discorso inaccessibile a chi risiede, per ideologia cioè per carenza di consapevolezza, nel piano razional-positivista e material-meccanicista. Un territorio che, come tutti gli altri, genera le sue verità. Tra queste, la negazione che altro ci sia oltre alla cosiddetta materia.
Manca però un’ulteriore considerazione. L’avvento della consapevolezza necessaria per riconoscere in che termini la formula alchemica sia rappresentativa dell’identità umana e contemporaneamente della realtà che gli uomini descrivono, richiede il simbolo e l’archetipo. Più esattamente e rispettivamente, il riconoscimento del potere energetico delle forme e l’identità sostanziale celata dalle forme stesse.
Cessare la concentrazione sulle forme permette di vedere le forze, i veri moventi, che giacciono e agiscono sulle e nelle persone, quali l’orgoglio, l’ideologia, il risentimento, il sentimento, l’esigenza, la morale, il senso di colpa, ecc., non quando questi sono evidenti o dichiarati, ma quando celati, anche a noi stessi, sotto il tappeto della cosiddetta buona educazione, dell’ipocrisia, della bugia, dell’orgoglio, della debolezza, del vittimismo.
Ermete
Nella letteratura ermetica, la formuletta è normalmente attribuita e Ermete Trismegisto (tre volte saggio). Ma Ermete, sempre secondo la letteratura, più che un essere storico è figura divina estrapolata dalla cultura greca, a sua volta derivata dal dio Thot della cultura egizia. Entrambi, tra le numerose doti di cui sono ricchi, dispongono della consapevolezza della comunicazione, del logos creatore di realtà, dell’emozione quale madre partoriente del solo mondo che possiamo narrare.
Le emozioni, fondamenta di ogni nostro ordinario e straordinario, possono dirsi anche il territorio, da esse ben delimitato, in cui ci muoviamo, tanto nel particolare quanto in generale, ovvero tanto nel credere e pensare concreto quanto nelle consapevolezze o inconsapevolezze che impongono quel fare e quel pensare.
Tra le opzioni offerte dall’etimologia del lemma alchimia, quella greca che allude a fusione pare la più funzionale a cogliere la via per la conoscenza – appunto – seguita dagli alchimisti.
I suoi segreti – chiamiamoli così – iniziano a svelarsi, cioè a divenire banalità a tutti accessibili quando, a partire dalla sua missione di trasformare il piombo in oro, invece di ridere e deridere, si assume l’intento fino a trovare il contenuto che quella formula – appunto – nasconderebbe.
Solo il materialista ride e deride, ma si avvia al processo evolutivo quando riconosce che ogni affermazione allude a una prospettiva che la impone, quando capisce di aver scambiato l’interpretazione per la realtà. Se in quel momento avvia la ricerca, giungerà a vedere in che termini – allegorici – è effettivamente possibile trasformare in oro il piombo. Gli alchimisti lo narrano a loro modo.
Tre
Secondo il pensiero alchemico, tre sono le emozioni che corrispondono ad altrettante fasi dell’evoluzione esistenziale, il cui culmine implica – appunto – la fusione con il tutto, o la consapevolezza della natura della cosiddetta materia quale espressione del cosiddetto spirito, cioè la conoscenza, da loro simboleggiata dalla quintessenza o pietra filosofale, simbolica fucina della ricetta di tutte le cose del mondo tanto in basso quanto in alto.
I tre stadi, che chiamano nigredo, albedo e rubedo, rappresentano ognuno uno stato, un’emozione avviluppante in cui, come nelle palle di vetro dei souvenir, concepiamo il mondo ed effettivamente ci sembra di constatarlo nell’osservazione.
Nigredo indica lo stato in cui nella palla di vetro troviamo la cosiddetta realtà oggettiva, in cui la verità è scientificamente dimostrabile e ciò che non lo è non esiste, è una suggestione, o non è verità.
È la fase dell’arroganza umana, per eccellenza di stampo illuminista, e della sofferenza.
Albedo indica la fase in cui prendiamo coscienza della palla o dell’emozione che ci contiene, quindi anche della riduzione della conoscenza entro la modalità analitica, logica, razionale e materiale, nonché della vita esaurita nella modalità egocentrica e antropocentrica. Un criterio nel quale l’io e l’uomo sono considerati indipendenti dal mistero, tanto che credono di poterlo indagare con gli inadeguati strumenti del materialismo.
È la fase della sorpresa e della rivoluzione, tuttavia, in particolare nella prima parte, spesso troppo concentrata sulla ricerca cognitiva e intellettuale, cioè con l’impiego di modalità inadeguate.
Con Rubedo il diametro del souvenir tende all’infinito, eppure in ogni istante siamo consapevoli della sua dimensione. Dunque, con rubedo si intende l’avvento della consapevolezza della circolarità del tempo, quindi della ripetitiva necessità di attraversare tutte e tre le fasi al fine della trasmutazione, o della morte dell’ignoranza e della rinascita nella conoscenza. Conoscenza del proprio e altrui stato, dell’assoluta nostra responsabilità di tutto, della dinamica che vincola e muove le relazioni, della percezione delle energie di un luogo, di una persona, della possibilità di cogliere dal particolare l’intero, della chiaroveggenza, dell’attendibilità dell’oracolo e della dinamica del miracolo. I veri reconditi motivi, spesso vanitosi e orgogliosi, per cui restiamo concentrati su un progetto, siamo o non siamo disciplinati, la ragione delle distrazioni, la causa della ressa di pensieri, l’origine inconfutabile e necessaria di ognuno di questi, il loro necessario avvento, l’origine e il movente tutto autoctono della nostra sofferenza e del nostro benessere.
È la fase in cui si svela anche un altro segreto – continuiamo a chiamarlo così – quello del solve et coagula, sciogli e riunisci, il cui significato è la consapevolezza della permanente mobilità delle prospettive con cui guardiamo il mondo e, quindi, contemporaneamente della loro inettitudine all’evoluzione. Una premessa da sfruttare al fine di farne scuola e mutare l’esperienza storica in conoscenza. Un senso che viene alla luce quando si riconosce la necessarietà della storia, della sua brutale grevità, inevitabile emozione di partenza per la salita alle vette della sublimazione. Cioè per riconoscere l’Uno ed esserlo.
Lorenzo Merlo
Note
https://www.ereticamente.net/la-liberazione-marco-calzoli/
venerdì 9 maggio 2025
Bioregionalisti in campagna (contadina)...
Considerando il periodo di tempo che stiamo attraversando, il richiamo ad un modo di vivere e di concepire il nostro nutrimento, attraverso la sinergia con i luoghi, i terreni e le piante ad esso destinati, si sente il piacevole dovere di impegnarsi nella creazione di un fulcro attorno al quale accendere le nostre fiammelle, che unite, saranno in grado di mostrare che il vero sistema per risolvere tutti i problemi intorno alle coltivazioni per il nostro sostentamento bioregionale, ai modi, sostanze da usare o non usare e varietà, consistendo innanzitutto nel rispetto di ciò che si lavora e con il quale ci si nutre.

giovedì 8 maggio 2025
La storia degli schiavi bianchi nei Paesi Barbareschi...
Gli storici hanno studiato tutti gli aspetti della schiavitù degli africani ad opera dei bianchi, ma hanno ampiamente ignorato la schiavitù dei bianchi da parte dei nord africani. Quella degli schiavi cristiani con padroni musulmani è una storia accuratamente documentata e scritta chiaramente di ciò che il prof Davis chiama «l’altra schiavitù», sviluppatasi all’incirca nello stesso periodo del commercio transatlantico, e che ha devastato centinaia di comunità costiere europee. Nel pensiero dei bianchi di oggi, la schiavitù non ha minimamente il ruolo centrale che ha tra neri, ma non perché sia stato un problema di breve durata o di scarsa importanza. La storia della schiavitù mediterranea è, infatti, altrettanto fosca delle più tendenziose descrizioni della schiavitù americana.
Nel XVI secolo, gli schiavi bianchi razziati dai musulmani furano più numerosi degli africani deportati nelle Americhe.
Un commercio all’ingrosso:
La Costa Barbaresca, che si estende dal Marocco fino all’attuale Libia, fu sede di una fiorente industria del rapimento di esseri umani dal 1500 fino al 1800 circa. Le grandi capitali del traffico di
schiavi furono Salé in Marocco, Tunisi, Algeri e Tripoli, e durante la
maggior parte di questo periodo le marine europee erano troppo deboli per opporre più che una resistenza simbolica.
Il traffico transatlantico dei neri era puramente commerciale, ma per
gli arabi, i ricordi delle crociate e la rabbia per essere stati
espulsi dalla Spagna nel 1492 sembrano aver determinato una campagna
di rapimenti dei cristiani, quasi simile ad una Jihad.
«È stato forse questo pungolo della vendetta, contrapposto alle
amichevoli contrattazioni della piazza del mercato, che ha reso gli
schiavisti islamici tanto più aggressivi e inizialmente (potremmo
dire) più prosperi nel loro lavoro rispetto ai loro omologhi
cristiani», scrive il professor Davis.
Durante i secoli XVI e XVII furono condotti più schiavi verso sud
attraverso il Mediterraneo che verso ovest attraverso l’Atlantico.
Alcuni furono restituiti alle loro famiglie in cambio di un riscatto,
alcuni furono utilizzati per lavoro forzato in Africa del Nord e i
meno fortunati morirono di fatica come schiavi nelle galere.
Ciò che più colpisce circa le razzie barbaresche è la loro ampiezza e
la loro portata. I pirati rapivano la maggior parte dei loro schiavi
intercettando imbarcazioni, ma organizzavano anche enormi assalti
anfibi che praticamente spopolavano parti della costa italiana.
L’Italia è il bersaglio più apprezzato, in parte perché la Sicilia è
solo a 200 km da Tunisi, ma anche perché non aveva un governo centrale
forte che potesse resistere all’invasione.
Grandi incursioni spesso non incontrarono alcuna resistenza
Quando i pirati hanno saccheggiato Vieste nell’Italia meridionale nel
1554, ad esempio, rapirono uno stupefacente totale di 6.000
prigionieri. Gli algerini presero7.000 schiavi nel Golfo di Napoli nel
1544, un raid che fece crollare il prezzo degli schiavi a tal punto
che si diceva che si poteva «scambiare un cristiano per una cipolla».
Anche la Spagna subì attacchi su larga scala. Dopo un raid su Grenada
nel 1556, che fruttò 4.000 uomini, donne e bambini, si diceva che
«piovevano cristiani su Algeri». Si può calcolare che per ognuno di
questi grandi raid ce ne siano stati dozzine di minori.
La comparsa di una grande flotta poteva far fuggire l’intera
popolazione nell’entroterra, svuotando le regioni costiere.
Nel 1566, un gruppo di 6.000 turchi e corsari attraversarono il mare
Adriatico e sbarcarono a Francavilla. Le autorità non erano in grado
di fare nulla e raccomandarono l’evacuazione completa, lasciando ai
turchi il controllo di più di 1300 chilometri quadrati di villaggi
abbandonati fino a Serracapriola.
Quando apparivano i pirati, la gente spesso fuggiva dalla costa per
andare alla città più vicina, ma il Professor Davis spiega che questa
non era sempre una buona strategia: «più di una città di medie
dimensioni, affollata di profughi, si trovò nell’impossibilità di
sostenere un assalto frontale di molte centinaia di corsari e reis
[capitano dei corsari] che altrimenti avrebbero dovuto cercare schiavi
a poche dozzine per volta lungo le spiagge e sulle colline, potevano
trovare un migliaio o più di prigionieri comodamente raccolti in un
unico luogo per essere presi.»
I pirati tornavano continuamente a saccheggiare lo stesso territorio.
Oltre a un numero molto maggiore di piccole incursioni, la costa
calabra subì le seguenti depredazioni, sempre più gravi in meno di
dieci anni: 700 persone catturate in un singolo raid nel 1636, un
migliaio nel 1639 e 4.000 nel 1644.
Durante il XVI e XVII secolo, i pirati installarono basi
semi-permanenti sulle isole di Ischia e Procida, quasi all’imboccatura
del Golfo di Napoli, da cui organizzavano il loro traffico
commerciale.
Quando sbarcavano sulla riva, i corsari musulmani non mancavano di
profanare le chiese. Spesso rubavano le campane, non solo perché il
metallo aveva valore, ma anche per ridurre al silenzio la voce
inconfondibile del cristianesimo.
Nelle più frequenti piccole incursioni, un piccolo numero di barche
operavano furtivamente, piombando sugli insediamenti costieri nel
cuore della notte per catturare gli uomini «tranquilli e ancora nudi
nel loro letto». Questa pratica diede origine alla moderna espressione
siciliana, pigliato dai turchi, [in italiano nel testo], che significa
essere colto di sorpresa, addormentato o sconvolto.
La predazione costante provocava un terribile numero di vittime
Le donne erano più facili da catturare degli uomini, e le regioni
costiere potevano perdere rapidamente tutte le loro donne in età
fertile. I pescatori avevano paura di uscire, e si prendeva il mare
solo in convogli. Infine, gli italiani abbandonarono gran parte delle
loro coste. Come ha spiegato il Professor Davis, alla fine del XVII
secolo «la penisola italiana era preda dei corsari di Barberia da più
di due secoli, e le popolazioni costiere si erano ritirate in gran
parte nei villaggi fortificati sulle colline o in città più grandi
come Rimini, abbandonando chilometri di coste, una volta popolate, a
vagabondi e filibustieri.
È solo verso il 1700 che gli italiani riuscirono a impedire le
imponenti incursioni di terra, anche se la pirateria sui mari continuò
senza ostacoli.
La pirateria indusse la Spagna e soprattutto l’Italia ad allontanarsi
dal mare e perdere la loro tradizione di commercio e di navigazione,
con effetti devastanti: «Almeno per l’Iberia e l’Italia, il XVII
secolo ha rappresentato un periodo oscuro in cui le società spagnola e
italiana non erano più che l’ombra di quello che erano state durante
le epoche d’oro precedenti».
Alcuni pirati arabi erano abili navigatori d’alto mare e
terrorizzavano i cristiani fino ad una distanza di 1600 km. Uno
spettacolare raid in Islanda nel 1627 fruttò quasi400 prigionieri.
L’Inghilterra era stata una formidabile potenza di mare dal tempo di
Francis Drake, ma per tutto il XVII secolo, i pirati arabi operarono
liberamente nelle acque britanniche, entrando persino nell’estuario
del Tamigi a fare catture e incursioni sulle città costiere. In soli
tre anni, dal 1606 al 1609, la Marina britannica ha riconosciuto di
aver perso non meno di 466 navi mercantili inglesi e scozzesi a causa
dei corsari algerini. Nel metà del Seicento, gli inglesi erano
impegnati in un attivo traffico trans-atlantico dei neri, ma molti
equipaggi inglesi divennero proprietà dei pirati arabi.
Vita sotto la frusta
Gli attacchi di terra potevano essere molto fruttuosi, ma erano più
rischiosi delle catture in mare. Le navi erano quindi la principale
fonte di schiavi bianchi. A differenza delle loro vittime, le navi dei
corsari avevano due mezzi di propulsione: gli schiavi delle galee
oltre alle vele. Ciò significava che potevano avanzare a remi verso
un’imbarcazione ferma per la bonaccia e attaccarla quando volevano.
Avevano molte bandiere diverse, così quando navigavano potevano issare
quella che meglio poteva ingannare le prede.
Una nave mercantile di buone dimensioni poteva trasportare circa 20
marinai abbastanza sani da poter sopportare qualche anno nelle galere,
e i passeggeri erano generalmente buoni per ottenere un riscatto. I
nobili e i ricchi mercanti erano prede allettanti, così come gli
ebrei, che potevano generalmente fornire un forte riscatto da parte
dei loro correligionari. Anche alti dignitari del clero erano preziosi
perché il Vaticano era solito pagare qualsiasi prezzo per sottrarli
alle mani degli infedeli.
All’arrivo di pirati, spesso i passeggeri si toglievano i vestiti
belli e tentavano di vestirsi il più poveramente possibile, nella
speranza che loro rapitori li restituissero alla loro famiglia per un
riscatto modesto. Lo sforzo era inutile se i pirati torturavano il
capitano per avere informazioni sui passeggeri. Era inoltre
consuetudine far spogliare gli uomini, sia per cercare oggetti di
valore cuciti nei vestiti, sia per verificare che non ci fossero ebrei
circoncisi travestiti da cristiani.
Se i pirati erano a corto di schiavi per le galee, potevano mettere
immediatamente al lavoro alcuni dei loro prigionieri, ma i prigionieri
erano solitamente messi nella stiva per il viaggio di ritorno. Erano
ammassati, potevano a malapena muoversi in mezzo a sporcizia, fetore e
parassiti, e molti morivano prima di raggiungere il porto.
All’arrivo in Nord Africa, era d’uso far sfilare per le strade i
cristiani appena catturati, affinché la gente potesse schernirli e i
bambini coprirli di immondizia.
Al mercato degli schiavi, gli uomini erano costretti a saltellare per
dimostrare che non erano zoppi, e gli acquirenti spesso li volevano
far mettere nudi per vedere se erano in buona salute. Ciò permetteva
anche di valutare il valore sessuale di uomini e donne; le concubine
bianche avevano grande valore, e tutte le capitali dello schiavismo
avevano una fiorente rete omosessuale. Gli acquirenti che speravano di
fare rapidi guadagni con un forte riscatto, esaminavano lobi delle
orecchie per trovare segni di piercing, che era un’indicazione della
ricchezza. Inoltre si usava guardare i denti per vedere se fossero in
grado di sopportare un duro regime di schiavo.
Il Pasha, cioè il governatore della regione, riceveva una certa
percentuale di schiavi come una forma di imposta sul reddito. Questi
erano quasi sempre uomini e diventavano proprietà del governo,
piuttosto che proprietà privata. A differenza degli schiavi privati
che solitamente si imbarcavano con il loro padrone, questi vivevano
nei «bagni», come erano chiamati i negozi di schiavi del Pascià. Agli
schiavi pubblici venivano solitamente rase la testa e la barba come
ulteriore umiliazione, in un tempo in cui la capigliatura e la barba
erano una parte importante dell’identità maschile.
La maggior parte di questi schiavi pubblici trascorrevano il resto
della propria vita come schiavi sulle galee, ed è difficile immaginare
un’esistenza più miserabile. Gli uomini erano incatenati tre, quattro
o cinque ad ogni remo, e anche le loro caviglie erano incatenate
insieme. I rematori non lasciavano mai il loro remo, e quando veniva
loro concesso di dormire, dormivano sul loro banco. Gli schiavi
avrebbero potuto spingersi a vicenda per defecare in un’apertura dello
scafo, ma spesso erano troppo esausti o scoraggiati per muoversi e si
liberavano sul posto. Non avevano alcuna protezione contro il sole
cocente del Mediterraneo, e il loro padrone sfregiava le schiene già
provate con lo strumento di incoraggiamento preferito del padrone di
schiavi: un pene di bue allungato o “nerbo di bue”. Non c’era quasi
nessuna speranza di fuga o di aiuto; il compito dello schiavo era
quello di ammazzarsi di fatica – principalmente in incursioni per
catturare altri disgraziati come lui – e suo padrone lo gettava in
mare al primo segno di malattia grave.
Quando la flotta pirata era in porto, gli schiavi vivevano nel “bagno”
e facevano tutti i lavori sporchi, pericolosi o estenuanti che il
Pasha ordinava. Lavori consueti erano tagliare e trascinare pietre,
dragare il porto, o lavori dolorosi. Gli schiavi che si trovavano
nella flotta del sultano turco non avevano nemmeno quella scelta.
Erano spesso in mare per mesi di fila e restavano incatenati a loro
remi anche al porto. Le loro barche erano prigioni a vita.
Altri schiavi sulla Costa dei Barbari avevano i lavori più vari.
Spesso svolgevano lavori domestici o agricoli del genere che noi
associamo alla schiavitù in America, ma quelli che avevano qualche
competenza venivano spesso affittati dai loro proprietari. Alcuni
proprietari mandavano in giro i loro schiavi durante il giorno con
l’ordine di tornare la sera con una certa quantità di soldi, sotto
pena di essere duramente picchiati. I padroni sembravano aspettarsi un
profitto di circa il 20% sul prezzo di acquisto. Qualunque cosa
facessero, a Tunisi e Tripoli, gli schiavi dovevano tenere un anello
di ferro attorno a una caviglia e una catena di 11 o 14 kg di peso.
Alcuni proprietari mettevano i loro schiavi bianchi a lavorare in
fattorie lontane verso l’interno, dove correvano un altro rischio: la
cattura e una nuova schiavitù dalle incursioni berbere. Questi
infelici probabilmente non avrebbero mai più visto un altro europeo
per il resto della loro breve vita.
Il Professor Davis osserva che non c’era nessun ostacolo alla
crudeltà: «Non c’era alcuna forza equivalente per proteggere lo
schiavo dalla violenza del suo padrone: nessuna legge locale contro
la crudeltà, nessuna opinione pubblica benevola e raramente pressioni
efficaci da parte di stati stranieri».
Gli schiavi bianchi non erano solo merci, erano infedeli e meritavano
tutte le sofferenze che il padrone infliggeva loro.
Il Professor Davis osserva che «tutti gli schiavi vissuti nei “bagni”
e sopravvissuti per scrivere le loro esperienze, hanno sottolineato la
crudeltà e la violenza endemica che vi venivano praticate». La
punizione preferita era fustigazione, in cui un uomo veniva messo
sulla schiena con le caviglie legate per essere battuto a lungo sulle
piante dei piedi.
Uno schiavo poteva ricevere fino a 150 o 200 colpi, che potevano
lasciarlo storpiato. La violenza sistematica trasformava molti uomini
in automi.
Gli schiavi cristiani erano spesso così numerosi e così a buon mercato
che non c’era alcun interesse ad occuparsene; molti proprietari li
facevano lavorare fino alla morte e poi li rimpiazzavano.
Gli schiavi pubblici contribuivano anche ad un fondo per mantenere i
sacerdoti del bagno. Era un’epoca molto religiosa e anche nelle
condizioni più terribili gli uomini volevano avere la possibilità di
confessarsi e, soprattutto, di ricevere l’estrema unzione. C’era quasi
sempre un sacerdote prigioniero o due nel bagno, ma perché fosse
disponibile per i suoi compiti religiosi, gli altri schiavi dovevano
contribuire e riscattare il suo tempo al pasha. Alcuni schiavi di
galee dunque non avevano più niente per comprare cibo o vestiti,
sebbene in certi periodi degli europei liberi che vivevano nelle città
della Costa dei Barbari contribuissero al mantenimento dei sacerdoti.
Per alcuni la schiavitù diventava più che sopportabile. Alcuni
mestieri, in particolare quello del costruttore di navi, erano così
ricercati che un proprietario poteva premiare il suo schiavo con una
villa privata e delle amanti. Anche alcuni residenti del bagno
riuscivano a sfruttare l’ipocrisia della società islamica e a
migliorare la propria condizione. La legge vietava rigorosamente ai
musulmani il commercio di alcol, ma era più indulgente con i musulmani
che si limitavano a consumarlo. Schiavi intraprendenti organizzarono
delle taverne nei bagni e alcuni facevano la bella vita servendo i
bevitori musulmani.
Un modo per alleggerire il peso della schiavitù era «prendere il
turbante» e convertirsi all’islam. Questo esentava dal servizio nelle
galere, dai lavori faticosi e qualche altra vessazione indegna di un
figlio del Profeta, ma non faceva cessare la condizione di schiavo.
Uno dei compiti dei sacerdoti dei bagni era quello di impedire agli
uomini disperati di convertirsi, ma la maggior parte degli schiavi non
sembrano aver bisogno di consiglio religioso. I cristiani pensavano
che la conversione avrebbe messo in pericolo la loro anima, e
significava anche lo sgradevole rituale della circoncisione in età
adulta. Molti schiavi sembravano sopportare gli orrori della schiavitù
considerandoli come una punizione per i loro peccati e come una prova
per la loro fede. I padroni scoraggiavano le conversioni perché
limitavano il ricorso ai maltrattamenti e abbassavano il valore di
rivendita di uno schiavo.
Riscatto e redenzione degli schiavi bianchi
Per gli schiavi, la fuga era impossibile. Erano troppo lontani da
casa, spesso erano incatenati ed erano immediatamente identificabili
dai loro tratti europei. L’unica speranza era il riscatto.
A volte la salvezza arrivava in fretta. Se un gruppo di pirati aveva
già catturato tanti uomini che non c’era più abbastanza spazio sotto
il ponte, poteva fare un’incursione in una città e poi tornare qualche
giorno più tardi per rivendere i prigionieri alle loro famiglie. Era
di solito ad un prezzo notevolmente inferiore a quello del riscatto di
chi si trovava nell’Africa del Nord, ma era molto di più di quanto i
contadini potessero permettersi. Gli agricoltori normalmente non
avevano denaro in contanti e non avevano altri beni che la casa e la
terra. Un mercante era generalmente disposto ad acquistarlo a modico
prezzo, ma ciò significava che un prigioniero tornava in una famiglia
completamente rovinata.
La maggior parte degli schiavi potevano prospettarsi il ritorno solo
dopo essere passati attraverso il calvario del passaggio in un paese
del Nordafrica e la vendita a uno speculatore. I prigionieri ricchi
generalmente potevano trovare un riscatto sufficiente, ma la maggior
parte dei schiavi non potevano. I contadini analfabeti non potevano
scrivere a casa e anche se lo avessero fatto, non c’erano soldi per un
riscatto.
La maggior parte degli schiavi dipendeva dall’opera caritatevole dei
Trinitari (fondata in Italia nel 1193) e dei Mercedari (fondata in
Spagna nel 1203). Questi gli ordini religiosi erano stati fondati per
liberare i crociati detenuti dai musulmani, ma ben presto passarono a
dedicarsi all’opera di riscatto degli schiavi detenuti dai
barbareschi, raccogliendo denaro appositamente per questo scopo.
Spesso mettevano davanti alle chiese delle cassette con la scritta
«per il recupero dei poveri schiavi», e il clero invitava i cristiani
ricchi a lasciare soldi per l’esaudimento dei loro voti. I due ordini
divennero abili negoziatori e riuscivano a riscattare gli schiavi a
prezzi migliori di quelli ottenuti da liberatori inesperti. Tuttavia
non c’era mai abbastanza denaro per liberare molti prigionieri, e il
Professor Davis ha stimato che in un anno venivano riscattati non più
del 3 o 4% degli schiavi. Questo significa che la maggior parte hanno
lasciato le loro ossa nelle tombe cristiane senza un contrassegno
fuori dalle mura delle città.
Gli ordini religiosi tenevano conti precisi dei risultati conseguiti.
I Trinitari spagnoli, per esempio, hanno effettuato 72 spedizioni di
riscatto nel Seicento, con una media di 220 liberazioni ciascuna. Era
consuetudine portare gli schiavi liberati nelle loro case e farli
passare per le strade delle città in grandi celebrazioni. Queste
parate divennero uno degli spettacoli urbani più caratteristici del
tempo e avevano un forte orientamento religioso. A volte gli schiavi
camminavano con i loro vecchi stracci di schiavi per evidenziare i
tormenti che avevano sofferto; talvolta indossavano speciali costumi
bianchi per simboleggiare la rinascita. Secondo i registri del tempo,
molti schiavi liberati non si ristabilirono mai completamente dopo il
loro calvario, soprattutto se essi aveva trascorso molti anni in
cattività.
Quanti schiavi?
Il Professor Davis nota che sono state fatte enormi ricerche per
calcolare il più precisamente possibile il numero di neri trasportati
attraverso l’Atlantico, ma che non c’è stato uno sforzo analogo per
conoscere l’estensione della schiavitù nel Mediterraneo. Non è facile
ottenere dati affidabili, anche gli arabi generalmente non
conservavano archivi. Ma nel corso di oltre dieci anni di ricerca il
Professor Davis ha sviluppato un metodo di calcolo.
Ad esempio, gli archivi suggeriscono che dal 1580 al 1680 c’è stata
una media di circa 35.000 schiavi nei paesi di Barberia. C’era una
perdita costante per morti e riscatti, così se la popolazione rimaneva
costante, il tasso di cattura di nuovi schiavi da parte dei pirati
doveva essere tale da pareggiare le perdite. C’è una buona base per
stimare il numero dei decessi. Per esempio, sappiamo che dei quasi 400
islandesi catturati nel 1627, solo 70 erano ancora vivi otto anni più
tardi. Oltre alla malnutrizione, al sovraffollamento, all’eccesso di
lavoro e alle punizioni brutali, gli schiavi subivano delle epidemie
di peste, che eliminavano solitamente il 20 o 30% degli schiavi
bianchi.
In base a un certo numero di fonti, il Professor Davis calcola
pertanto che il tasso di mortalità era circa il 20% all’anno. Gli
schiavi non avevano accesso alle donne, quindi la sostituzione
avveniva esclusivamente per mezzo delle catture.
La sua conclusione: Tra il 1530 e il 1780, quasi certamente 1 milione
e probabilmente fino a 1 milione e un quarto di cristiani europei
bianchi sono stati ridotti in schiavitù dai musulmani della Costa dei
Barbari.
Questo supera notevolmente la cifra generalmente accettata di 800.000
africani trasportati nelle colonie del Nord America e successivamente
negli Stati Uniti.
Le potenze europee non furono in grado di porre fine a questo traffico.
Il Professor Davis spiega che alla fine del Settecento controllavano
meglio questo commercio, ma ci fu una ripresa della schiavitù dei
bianchi durante il caos delle guerre napoleoniche.
Neppure la navigazione americana si salvava dalla predazione. Fu solo
nel 1815, dopo due guerre contro di loro, che i marinai americani
riuscirono a liberarsi dei pirati barbareschi. Queste guerre furono
operazioni importanti per la giovane Repubblica; una campagna è
ricordata dalle parole «verso le coste di Tripoli» nell’inno della
marina.
Quando i francesi presero Algeri nel 1830, c’erano ancora 120 schiavi
bianchi nel bagno.
Perché c’è così poco interesse per la schiavitù nel Mediterraneo a
fronte di un’infinità di studi e riflessioni sulla schiavitù dei neri?
Come spiega il Professor Davis, schiavi bianchi con padroni non
bianchi non si inquadrano nella «narrativa dominante dell’imperialismo
europeo». Gli schemi di vittimizzazione tanto cari agli intellettuali
richiedono malvagità bianca, non sofferenze bianche.
Il Professor Davis osserva anche che l’esperienza europea della
schiavitù su larga scala rende evidente la falsità di un altro tema
favorito della sinistra: che la schiavitù dei neri sarebbe stata un
passo fondamentale nella creazione di concetti europei di razza e
gerarchia razziale.
Non è il vero; per secoli, gli stessi europei sono vissuti nella paura
della frusta, e molti hanno partecipato alle parate della redenzione
degli schiavi liberati, che erano tutti bianchi. La schiavitù era un
destino più facilmente immaginabile per se stessi che per i remoti
africani.
Con un piccolo sforzo, è possibile immaginare gli europei preoccupati
per schiavitù tanto quanto i neri. Se per gli schiavi delle galere gli
europei avessero nutrito lo stesso risentimento dei neri per i
lavoratori nei campi, la politica europea sarebbe stata sicuramente
diversa. Non ci sarebbe la continua richiesta di scuse per le
crociate, l’immigrazione musulmana in Europa sarebbe più modesta, non
spunterebbero minareti per tutta l’Europa e la Turchia non sognerebbe
di entrare nell’Unione europea. Il passato non può essere cambiato e
può essere esagerato coltivare rimpianti, ma chi dimentica si ritrova
a pagare un prezzo elevato.
Fonti librarie: Robert C. Davis, Christian Slaves, Muslim Masters-
White Slavery in the Mediterranean, The Barbary Coast, and Italy,
1500-1800(Palgrave Macmillan 2003).
Un commercio all’ingrosso:
La Costa Barbaresca, che si estende dal Marocco fino all’attuale Libia, fu sede di una fiorente industria del rapimento di esseri umani dal 1500 fino al 1800 circa. Le grandi capitali del traffico di
schiavi furono Salé in Marocco, Tunisi, Algeri e Tripoli, e durante la
maggior parte di questo periodo le marine europee erano troppo deboli per opporre più che una resistenza simbolica.
Il traffico transatlantico dei neri era puramente commerciale, ma per
gli arabi, i ricordi delle crociate e la rabbia per essere stati
espulsi dalla Spagna nel 1492 sembrano aver determinato una campagna
di rapimenti dei cristiani, quasi simile ad una Jihad.
«È stato forse questo pungolo della vendetta, contrapposto alle
amichevoli contrattazioni della piazza del mercato, che ha reso gli
schiavisti islamici tanto più aggressivi e inizialmente (potremmo
dire) più prosperi nel loro lavoro rispetto ai loro omologhi
cristiani», scrive il professor Davis.
Durante i secoli XVI e XVII furono condotti più schiavi verso sud
attraverso il Mediterraneo che verso ovest attraverso l’Atlantico.
Alcuni furono restituiti alle loro famiglie in cambio di un riscatto,
alcuni furono utilizzati per lavoro forzato in Africa del Nord e i
meno fortunati morirono di fatica come schiavi nelle galere.
Ciò che più colpisce circa le razzie barbaresche è la loro ampiezza e
la loro portata. I pirati rapivano la maggior parte dei loro schiavi
intercettando imbarcazioni, ma organizzavano anche enormi assalti
anfibi che praticamente spopolavano parti della costa italiana.
L’Italia è il bersaglio più apprezzato, in parte perché la Sicilia è
solo a 200 km da Tunisi, ma anche perché non aveva un governo centrale
forte che potesse resistere all’invasione.
Grandi incursioni spesso non incontrarono alcuna resistenza
Quando i pirati hanno saccheggiato Vieste nell’Italia meridionale nel
1554, ad esempio, rapirono uno stupefacente totale di 6.000
prigionieri. Gli algerini presero7.000 schiavi nel Golfo di Napoli nel
1544, un raid che fece crollare il prezzo degli schiavi a tal punto
che si diceva che si poteva «scambiare un cristiano per una cipolla».
Anche la Spagna subì attacchi su larga scala. Dopo un raid su Grenada
nel 1556, che fruttò 4.000 uomini, donne e bambini, si diceva che
«piovevano cristiani su Algeri». Si può calcolare che per ognuno di
questi grandi raid ce ne siano stati dozzine di minori.
La comparsa di una grande flotta poteva far fuggire l’intera
popolazione nell’entroterra, svuotando le regioni costiere.
Nel 1566, un gruppo di 6.000 turchi e corsari attraversarono il mare
Adriatico e sbarcarono a Francavilla. Le autorità non erano in grado
di fare nulla e raccomandarono l’evacuazione completa, lasciando ai
turchi il controllo di più di 1300 chilometri quadrati di villaggi
abbandonati fino a Serracapriola.
Quando apparivano i pirati, la gente spesso fuggiva dalla costa per
andare alla città più vicina, ma il Professor Davis spiega che questa
non era sempre una buona strategia: «più di una città di medie
dimensioni, affollata di profughi, si trovò nell’impossibilità di
sostenere un assalto frontale di molte centinaia di corsari e reis
[capitano dei corsari] che altrimenti avrebbero dovuto cercare schiavi
a poche dozzine per volta lungo le spiagge e sulle colline, potevano
trovare un migliaio o più di prigionieri comodamente raccolti in un
unico luogo per essere presi.»
I pirati tornavano continuamente a saccheggiare lo stesso territorio.
Oltre a un numero molto maggiore di piccole incursioni, la costa
calabra subì le seguenti depredazioni, sempre più gravi in meno di
dieci anni: 700 persone catturate in un singolo raid nel 1636, un
migliaio nel 1639 e 4.000 nel 1644.
Durante il XVI e XVII secolo, i pirati installarono basi
semi-permanenti sulle isole di Ischia e Procida, quasi all’imboccatura
del Golfo di Napoli, da cui organizzavano il loro traffico
commerciale.
Quando sbarcavano sulla riva, i corsari musulmani non mancavano di
profanare le chiese. Spesso rubavano le campane, non solo perché il
metallo aveva valore, ma anche per ridurre al silenzio la voce
inconfondibile del cristianesimo.
Nelle più frequenti piccole incursioni, un piccolo numero di barche
operavano furtivamente, piombando sugli insediamenti costieri nel
cuore della notte per catturare gli uomini «tranquilli e ancora nudi
nel loro letto». Questa pratica diede origine alla moderna espressione
siciliana, pigliato dai turchi, [in italiano nel testo], che significa
essere colto di sorpresa, addormentato o sconvolto.
La predazione costante provocava un terribile numero di vittime
Le donne erano più facili da catturare degli uomini, e le regioni
costiere potevano perdere rapidamente tutte le loro donne in età
fertile. I pescatori avevano paura di uscire, e si prendeva il mare
solo in convogli. Infine, gli italiani abbandonarono gran parte delle
loro coste. Come ha spiegato il Professor Davis, alla fine del XVII
secolo «la penisola italiana era preda dei corsari di Barberia da più
di due secoli, e le popolazioni costiere si erano ritirate in gran
parte nei villaggi fortificati sulle colline o in città più grandi
come Rimini, abbandonando chilometri di coste, una volta popolate, a
vagabondi e filibustieri.
È solo verso il 1700 che gli italiani riuscirono a impedire le
imponenti incursioni di terra, anche se la pirateria sui mari continuò
senza ostacoli.
La pirateria indusse la Spagna e soprattutto l’Italia ad allontanarsi
dal mare e perdere la loro tradizione di commercio e di navigazione,
con effetti devastanti: «Almeno per l’Iberia e l’Italia, il XVII
secolo ha rappresentato un periodo oscuro in cui le società spagnola e
italiana non erano più che l’ombra di quello che erano state durante
le epoche d’oro precedenti».
Alcuni pirati arabi erano abili navigatori d’alto mare e
terrorizzavano i cristiani fino ad una distanza di 1600 km. Uno
spettacolare raid in Islanda nel 1627 fruttò quasi400 prigionieri.
L’Inghilterra era stata una formidabile potenza di mare dal tempo di
Francis Drake, ma per tutto il XVII secolo, i pirati arabi operarono
liberamente nelle acque britanniche, entrando persino nell’estuario
del Tamigi a fare catture e incursioni sulle città costiere. In soli
tre anni, dal 1606 al 1609, la Marina britannica ha riconosciuto di
aver perso non meno di 466 navi mercantili inglesi e scozzesi a causa
dei corsari algerini. Nel metà del Seicento, gli inglesi erano
impegnati in un attivo traffico trans-atlantico dei neri, ma molti
equipaggi inglesi divennero proprietà dei pirati arabi.
Vita sotto la frusta
Gli attacchi di terra potevano essere molto fruttuosi, ma erano più
rischiosi delle catture in mare. Le navi erano quindi la principale
fonte di schiavi bianchi. A differenza delle loro vittime, le navi dei
corsari avevano due mezzi di propulsione: gli schiavi delle galee
oltre alle vele. Ciò significava che potevano avanzare a remi verso
un’imbarcazione ferma per la bonaccia e attaccarla quando volevano.
Avevano molte bandiere diverse, così quando navigavano potevano issare
quella che meglio poteva ingannare le prede.
Una nave mercantile di buone dimensioni poteva trasportare circa 20
marinai abbastanza sani da poter sopportare qualche anno nelle galere,
e i passeggeri erano generalmente buoni per ottenere un riscatto. I
nobili e i ricchi mercanti erano prede allettanti, così come gli
ebrei, che potevano generalmente fornire un forte riscatto da parte
dei loro correligionari. Anche alti dignitari del clero erano preziosi
perché il Vaticano era solito pagare qualsiasi prezzo per sottrarli
alle mani degli infedeli.
All’arrivo di pirati, spesso i passeggeri si toglievano i vestiti
belli e tentavano di vestirsi il più poveramente possibile, nella
speranza che loro rapitori li restituissero alla loro famiglia per un
riscatto modesto. Lo sforzo era inutile se i pirati torturavano il
capitano per avere informazioni sui passeggeri. Era inoltre
consuetudine far spogliare gli uomini, sia per cercare oggetti di
valore cuciti nei vestiti, sia per verificare che non ci fossero ebrei
circoncisi travestiti da cristiani.
Se i pirati erano a corto di schiavi per le galee, potevano mettere
immediatamente al lavoro alcuni dei loro prigionieri, ma i prigionieri
erano solitamente messi nella stiva per il viaggio di ritorno. Erano
ammassati, potevano a malapena muoversi in mezzo a sporcizia, fetore e
parassiti, e molti morivano prima di raggiungere il porto.
All’arrivo in Nord Africa, era d’uso far sfilare per le strade i
cristiani appena catturati, affinché la gente potesse schernirli e i
bambini coprirli di immondizia.
Al mercato degli schiavi, gli uomini erano costretti a saltellare per
dimostrare che non erano zoppi, e gli acquirenti spesso li volevano
far mettere nudi per vedere se erano in buona salute. Ciò permetteva
anche di valutare il valore sessuale di uomini e donne; le concubine
bianche avevano grande valore, e tutte le capitali dello schiavismo
avevano una fiorente rete omosessuale. Gli acquirenti che speravano di
fare rapidi guadagni con un forte riscatto, esaminavano lobi delle
orecchie per trovare segni di piercing, che era un’indicazione della
ricchezza. Inoltre si usava guardare i denti per vedere se fossero in
grado di sopportare un duro regime di schiavo.
Il Pasha, cioè il governatore della regione, riceveva una certa
percentuale di schiavi come una forma di imposta sul reddito. Questi
erano quasi sempre uomini e diventavano proprietà del governo,
piuttosto che proprietà privata. A differenza degli schiavi privati
che solitamente si imbarcavano con il loro padrone, questi vivevano
nei «bagni», come erano chiamati i negozi di schiavi del Pascià. Agli
schiavi pubblici venivano solitamente rase la testa e la barba come
ulteriore umiliazione, in un tempo in cui la capigliatura e la barba
erano una parte importante dell’identità maschile.
La maggior parte di questi schiavi pubblici trascorrevano il resto
della propria vita come schiavi sulle galee, ed è difficile immaginare
un’esistenza più miserabile. Gli uomini erano incatenati tre, quattro
o cinque ad ogni remo, e anche le loro caviglie erano incatenate
insieme. I rematori non lasciavano mai il loro remo, e quando veniva
loro concesso di dormire, dormivano sul loro banco. Gli schiavi
avrebbero potuto spingersi a vicenda per defecare in un’apertura dello
scafo, ma spesso erano troppo esausti o scoraggiati per muoversi e si
liberavano sul posto. Non avevano alcuna protezione contro il sole
cocente del Mediterraneo, e il loro padrone sfregiava le schiene già
provate con lo strumento di incoraggiamento preferito del padrone di
schiavi: un pene di bue allungato o “nerbo di bue”. Non c’era quasi
nessuna speranza di fuga o di aiuto; il compito dello schiavo era
quello di ammazzarsi di fatica – principalmente in incursioni per
catturare altri disgraziati come lui – e suo padrone lo gettava in
mare al primo segno di malattia grave.
Quando la flotta pirata era in porto, gli schiavi vivevano nel “bagno”
e facevano tutti i lavori sporchi, pericolosi o estenuanti che il
Pasha ordinava. Lavori consueti erano tagliare e trascinare pietre,
dragare il porto, o lavori dolorosi. Gli schiavi che si trovavano
nella flotta del sultano turco non avevano nemmeno quella scelta.
Erano spesso in mare per mesi di fila e restavano incatenati a loro
remi anche al porto. Le loro barche erano prigioni a vita.
Altri schiavi sulla Costa dei Barbari avevano i lavori più vari.
Spesso svolgevano lavori domestici o agricoli del genere che noi
associamo alla schiavitù in America, ma quelli che avevano qualche
competenza venivano spesso affittati dai loro proprietari. Alcuni
proprietari mandavano in giro i loro schiavi durante il giorno con
l’ordine di tornare la sera con una certa quantità di soldi, sotto
pena di essere duramente picchiati. I padroni sembravano aspettarsi un
profitto di circa il 20% sul prezzo di acquisto. Qualunque cosa
facessero, a Tunisi e Tripoli, gli schiavi dovevano tenere un anello
di ferro attorno a una caviglia e una catena di 11 o 14 kg di peso.
Alcuni proprietari mettevano i loro schiavi bianchi a lavorare in
fattorie lontane verso l’interno, dove correvano un altro rischio: la
cattura e una nuova schiavitù dalle incursioni berbere. Questi
infelici probabilmente non avrebbero mai più visto un altro europeo
per il resto della loro breve vita.
Il Professor Davis osserva che non c’era nessun ostacolo alla
crudeltà: «Non c’era alcuna forza equivalente per proteggere lo
schiavo dalla violenza del suo padrone: nessuna legge locale contro
la crudeltà, nessuna opinione pubblica benevola e raramente pressioni
efficaci da parte di stati stranieri».
Gli schiavi bianchi non erano solo merci, erano infedeli e meritavano
tutte le sofferenze che il padrone infliggeva loro.
Il Professor Davis osserva che «tutti gli schiavi vissuti nei “bagni”
e sopravvissuti per scrivere le loro esperienze, hanno sottolineato la
crudeltà e la violenza endemica che vi venivano praticate». La
punizione preferita era fustigazione, in cui un uomo veniva messo
sulla schiena con le caviglie legate per essere battuto a lungo sulle
piante dei piedi.
Uno schiavo poteva ricevere fino a 150 o 200 colpi, che potevano
lasciarlo storpiato. La violenza sistematica trasformava molti uomini
in automi.
Gli schiavi cristiani erano spesso così numerosi e così a buon mercato
che non c’era alcun interesse ad occuparsene; molti proprietari li
facevano lavorare fino alla morte e poi li rimpiazzavano.
Gli schiavi pubblici contribuivano anche ad un fondo per mantenere i
sacerdoti del bagno. Era un’epoca molto religiosa e anche nelle
condizioni più terribili gli uomini volevano avere la possibilità di
confessarsi e, soprattutto, di ricevere l’estrema unzione. C’era quasi
sempre un sacerdote prigioniero o due nel bagno, ma perché fosse
disponibile per i suoi compiti religiosi, gli altri schiavi dovevano
contribuire e riscattare il suo tempo al pasha. Alcuni schiavi di
galee dunque non avevano più niente per comprare cibo o vestiti,
sebbene in certi periodi degli europei liberi che vivevano nelle città
della Costa dei Barbari contribuissero al mantenimento dei sacerdoti.
Per alcuni la schiavitù diventava più che sopportabile. Alcuni
mestieri, in particolare quello del costruttore di navi, erano così
ricercati che un proprietario poteva premiare il suo schiavo con una
villa privata e delle amanti. Anche alcuni residenti del bagno
riuscivano a sfruttare l’ipocrisia della società islamica e a
migliorare la propria condizione. La legge vietava rigorosamente ai
musulmani il commercio di alcol, ma era più indulgente con i musulmani
che si limitavano a consumarlo. Schiavi intraprendenti organizzarono
delle taverne nei bagni e alcuni facevano la bella vita servendo i
bevitori musulmani.
Un modo per alleggerire il peso della schiavitù era «prendere il
turbante» e convertirsi all’islam. Questo esentava dal servizio nelle
galere, dai lavori faticosi e qualche altra vessazione indegna di un
figlio del Profeta, ma non faceva cessare la condizione di schiavo.
Uno dei compiti dei sacerdoti dei bagni era quello di impedire agli
uomini disperati di convertirsi, ma la maggior parte degli schiavi non
sembrano aver bisogno di consiglio religioso. I cristiani pensavano
che la conversione avrebbe messo in pericolo la loro anima, e
significava anche lo sgradevole rituale della circoncisione in età
adulta. Molti schiavi sembravano sopportare gli orrori della schiavitù
considerandoli come una punizione per i loro peccati e come una prova
per la loro fede. I padroni scoraggiavano le conversioni perché
limitavano il ricorso ai maltrattamenti e abbassavano il valore di
rivendita di uno schiavo.
Riscatto e redenzione degli schiavi bianchi
Per gli schiavi, la fuga era impossibile. Erano troppo lontani da
casa, spesso erano incatenati ed erano immediatamente identificabili
dai loro tratti europei. L’unica speranza era il riscatto.
A volte la salvezza arrivava in fretta. Se un gruppo di pirati aveva
già catturato tanti uomini che non c’era più abbastanza spazio sotto
il ponte, poteva fare un’incursione in una città e poi tornare qualche
giorno più tardi per rivendere i prigionieri alle loro famiglie. Era
di solito ad un prezzo notevolmente inferiore a quello del riscatto di
chi si trovava nell’Africa del Nord, ma era molto di più di quanto i
contadini potessero permettersi. Gli agricoltori normalmente non
avevano denaro in contanti e non avevano altri beni che la casa e la
terra. Un mercante era generalmente disposto ad acquistarlo a modico
prezzo, ma ciò significava che un prigioniero tornava in una famiglia
completamente rovinata.
La maggior parte degli schiavi potevano prospettarsi il ritorno solo
dopo essere passati attraverso il calvario del passaggio in un paese
del Nordafrica e la vendita a uno speculatore. I prigionieri ricchi
generalmente potevano trovare un riscatto sufficiente, ma la maggior
parte dei schiavi non potevano. I contadini analfabeti non potevano
scrivere a casa e anche se lo avessero fatto, non c’erano soldi per un
riscatto.
La maggior parte degli schiavi dipendeva dall’opera caritatevole dei
Trinitari (fondata in Italia nel 1193) e dei Mercedari (fondata in
Spagna nel 1203). Questi gli ordini religiosi erano stati fondati per
liberare i crociati detenuti dai musulmani, ma ben presto passarono a
dedicarsi all’opera di riscatto degli schiavi detenuti dai
barbareschi, raccogliendo denaro appositamente per questo scopo.
Spesso mettevano davanti alle chiese delle cassette con la scritta
«per il recupero dei poveri schiavi», e il clero invitava i cristiani
ricchi a lasciare soldi per l’esaudimento dei loro voti. I due ordini
divennero abili negoziatori e riuscivano a riscattare gli schiavi a
prezzi migliori di quelli ottenuti da liberatori inesperti. Tuttavia
non c’era mai abbastanza denaro per liberare molti prigionieri, e il
Professor Davis ha stimato che in un anno venivano riscattati non più
del 3 o 4% degli schiavi. Questo significa che la maggior parte hanno
lasciato le loro ossa nelle tombe cristiane senza un contrassegno
fuori dalle mura delle città.
Gli ordini religiosi tenevano conti precisi dei risultati conseguiti.
I Trinitari spagnoli, per esempio, hanno effettuato 72 spedizioni di
riscatto nel Seicento, con una media di 220 liberazioni ciascuna. Era
consuetudine portare gli schiavi liberati nelle loro case e farli
passare per le strade delle città in grandi celebrazioni. Queste
parate divennero uno degli spettacoli urbani più caratteristici del
tempo e avevano un forte orientamento religioso. A volte gli schiavi
camminavano con i loro vecchi stracci di schiavi per evidenziare i
tormenti che avevano sofferto; talvolta indossavano speciali costumi
bianchi per simboleggiare la rinascita. Secondo i registri del tempo,
molti schiavi liberati non si ristabilirono mai completamente dopo il
loro calvario, soprattutto se essi aveva trascorso molti anni in
cattività.
Quanti schiavi?
Il Professor Davis nota che sono state fatte enormi ricerche per
calcolare il più precisamente possibile il numero di neri trasportati
attraverso l’Atlantico, ma che non c’è stato uno sforzo analogo per
conoscere l’estensione della schiavitù nel Mediterraneo. Non è facile
ottenere dati affidabili, anche gli arabi generalmente non
conservavano archivi. Ma nel corso di oltre dieci anni di ricerca il
Professor Davis ha sviluppato un metodo di calcolo.
Ad esempio, gli archivi suggeriscono che dal 1580 al 1680 c’è stata
una media di circa 35.000 schiavi nei paesi di Barberia. C’era una
perdita costante per morti e riscatti, così se la popolazione rimaneva
costante, il tasso di cattura di nuovi schiavi da parte dei pirati
doveva essere tale da pareggiare le perdite. C’è una buona base per
stimare il numero dei decessi. Per esempio, sappiamo che dei quasi 400
islandesi catturati nel 1627, solo 70 erano ancora vivi otto anni più
tardi. Oltre alla malnutrizione, al sovraffollamento, all’eccesso di
lavoro e alle punizioni brutali, gli schiavi subivano delle epidemie
di peste, che eliminavano solitamente il 20 o 30% degli schiavi
bianchi.
In base a un certo numero di fonti, il Professor Davis calcola
pertanto che il tasso di mortalità era circa il 20% all’anno. Gli
schiavi non avevano accesso alle donne, quindi la sostituzione
avveniva esclusivamente per mezzo delle catture.
La sua conclusione: Tra il 1530 e il 1780, quasi certamente 1 milione
e probabilmente fino a 1 milione e un quarto di cristiani europei
bianchi sono stati ridotti in schiavitù dai musulmani della Costa dei
Barbari.
Questo supera notevolmente la cifra generalmente accettata di 800.000
africani trasportati nelle colonie del Nord America e successivamente
negli Stati Uniti.
Le potenze europee non furono in grado di porre fine a questo traffico.
Il Professor Davis spiega che alla fine del Settecento controllavano
meglio questo commercio, ma ci fu una ripresa della schiavitù dei
bianchi durante il caos delle guerre napoleoniche.
Neppure la navigazione americana si salvava dalla predazione. Fu solo
nel 1815, dopo due guerre contro di loro, che i marinai americani
riuscirono a liberarsi dei pirati barbareschi. Queste guerre furono
operazioni importanti per la giovane Repubblica; una campagna è
ricordata dalle parole «verso le coste di Tripoli» nell’inno della
marina.
Quando i francesi presero Algeri nel 1830, c’erano ancora 120 schiavi
bianchi nel bagno.
Perché c’è così poco interesse per la schiavitù nel Mediterraneo a
fronte di un’infinità di studi e riflessioni sulla schiavitù dei neri?
Come spiega il Professor Davis, schiavi bianchi con padroni non
bianchi non si inquadrano nella «narrativa dominante dell’imperialismo
europeo». Gli schemi di vittimizzazione tanto cari agli intellettuali
richiedono malvagità bianca, non sofferenze bianche.
Il Professor Davis osserva anche che l’esperienza europea della
schiavitù su larga scala rende evidente la falsità di un altro tema
favorito della sinistra: che la schiavitù dei neri sarebbe stata un
passo fondamentale nella creazione di concetti europei di razza e
gerarchia razziale.
Non è il vero; per secoli, gli stessi europei sono vissuti nella paura
della frusta, e molti hanno partecipato alle parate della redenzione
degli schiavi liberati, che erano tutti bianchi. La schiavitù era un
destino più facilmente immaginabile per se stessi che per i remoti
africani.
Con un piccolo sforzo, è possibile immaginare gli europei preoccupati
per schiavitù tanto quanto i neri. Se per gli schiavi delle galere gli
europei avessero nutrito lo stesso risentimento dei neri per i
lavoratori nei campi, la politica europea sarebbe stata sicuramente
diversa. Non ci sarebbe la continua richiesta di scuse per le
crociate, l’immigrazione musulmana in Europa sarebbe più modesta, non
spunterebbero minareti per tutta l’Europa e la Turchia non sognerebbe
di entrare nell’Unione europea. Il passato non può essere cambiato e
può essere esagerato coltivare rimpianti, ma chi dimentica si ritrova
a pagare un prezzo elevato.
Fonti librarie: Robert C. Davis, Christian Slaves, Muslim Masters-
White Slavery in the Mediterranean, The Barbary Coast, and Italy,
1500-1800(Palgrave Macmillan 2003).