"Le prospettive per la pace e i diritti umani dei popoli dipendono da un insieme di fattori: il riconoscimento della pace come un diritto umano fondamentale e il conseguente superamento del ius ad bellum (diritto di fare la guerra), la promozione della giustizia sociale e dello sviluppo sostenibile, e la coltivazione di una cultura di pace attraverso l'educazione, il dialogo e la diplomazia. La pace è vista non solo come assenza di violenza, ma come un processo positivo per costruire società più giuste e inclusive, garantendo a tutti i diritti fondamentali come il cibo, la salute e l'educazione." (Il parere di AI)
mercoledì 3 dicembre 2025
Prospettive per la pace e i diritti umani dei popoli...
Veneto. Processo agricolo di produzione biologica nei Regolamenti di Polizia Rurale (RPR) comunali...
Sono decine d’anni che la popolazione residente nelle aree agricole di varie fasce rurali del Veneto si lamentano invano perché vessati dalle derive dei pericolosi pesticidi di sintesi, in gran parte interferenti endocrini sconosciuti all’evoluzione, prodotti a tavolino per uccidere la vita, nebulizzati a milioni di tonnellate più volte all’anno, pesticidi che producono sugli esseri viventi effetti cancerogeni, teratogeni e mutageni e ben 37 di questi, autorizzati dall’UE, contengono i famigerati PFAS.
Lamentarsi solo non serve, bisogna pensare a cambi strutturali legislativi per accelerare la conversione all’agricoltura biologica dall’agricoltura che utilizza prodotti di sintesi (la cosiddetta difesa integrata). Questo è anche quello che recita la legge nazionale sul biologico che ha tra l’altro come fine “Promuovere la conversione alla produzione biologica ...” e inoltre “Gli agricoltori convenzionali adottano le pratiche necessarie per impedire l’inquinamento accidentale delle coltivazioni biologiche”.
Per entrambi i processi agricoli, difesa integrata e biologico, a livello europeo e nazionale, esistono regolamenti che però sono stati applicati dalla Regioni e dai Comuni solo per il processo di difesa integrata.
Quindi anche per il processo di agricoltura biologica le Regioni devono produrre le direttive e le linee guida per mettere in grado i RPR - Regolamenti di Polizia Rurale comunali di integrare al loro interno il processo bio col processo di difesa integrata.
Con questo inserimento si darà pari dignità ai due processi, si definirà chiaramente la responsabilità istituzionale per il controllo e la gestione dei conflitti e dei danni creati dalle derive tossiche dovute ai trattamenti dei pesticidi.
Tra l’altro questa proposta aiuterebbe la gestione ed il controllo nella conversione al biologico nei numerosi distretti biologici che stanno nascendo in Italia.
Su questo tema si invitano gli enti interessati ed anche il pubblico a due incontri programmati che si svolgeranno:
1 – MERCOLEDI’ 3 DICEMBRE 2025 ore 15.00
a Santa Lucia di Piave (TV) presso sede dell’Università delle tre età UNITRE APS, in Via Foresto Est 1/b.
2 – GIOVEDI’ 4 DICEMBRE 2025 ore 15.30
a Conegliano presso l’Università Aperta AUSER, in Via Maset 1 (1° piano).
Gianluigi Salvador - gianlu.cali@libero.it
martedì 2 dicembre 2025
...cronache dalla Terra di mezzo...
venerdì 28 novembre 2025
Aree interne. Il problema dell'abitare...
Quando si parla di diritto all’abitare il riferimento è quanto accade nelle grandi città. Ma tra le tante cause a rendere difficile il ritorno nella montagna di mezzo e nelle aree interne è proprio la disponibilità di alloggi, nonostante gli immobili vuoti e inaccessibili. Mancano i dati per comprendere l’entità del fenomeno, a cui dedica attenzione un rapporto di Oxfam Italia.
Per una famiglia italiana, ormai, quasi il 40% della spesa mensile si concentra sull’abitazione, tra affitto o mutuo e utenze. Il dibattito sul problema-casa è tornato in modo prepotente, complice la trasformazione delle aree urbane legato al fenomeno degli affitti brevi e la pubblicazione di alcuni testi divulgativi di grande impatto, come “L’Italia senza casa” di Sarah Gainsforth o “Città in affitto” di Gessi White, usciti entrambi per Laterza. C’è però, nel dibattito pubblico, uno strabismo che non permette di osservare ad oggi una parte considerevole del problema, legato all’accesso alla casa nella montagna di mezzo, in quei territori classificati come aree interne che pure potrebbero tornare ad ospitare persone espulse dalle metropoli o che in città non vogliono più stare.
Un problema che finalmente viene messo in luce nel rapporto di Oxfam Italia dedicato al tema, “Diritto alla casa. Non per tutti”. Lo fa andando a descrivere il paradosso dei “vuoti”, cioè delle case non occupate, che sono in tutta Italia ben 9.581.772 e che corrispondono al 27,2% delle abitazioni complessive. Questo dato, spiega Oxfam, sembra negare l’emergenza abitativa, ma “in realtà è il riflesso di un Paese spaccato e le cui ragioni sono principalmente individuabili nello svuotamento delle aree interne, nella crisi demografica, nella difficoltà di manutenzione e ristrutturazione di molti immobili che per essere adeguati agli standard abitativi e di efficientamento energetico attuali richiederebbero interventi molto costosi, nonché dal clima di sfiducia reciproca fra proprietà e locatari, derivante da una legislazione che non garantisce né l’una né gli altri dai comportamenti lesivi della controparte”.
“L’inutilizzo delle case, sul mercato privato, è attribuibile – spiega il rapporto – a diverse dinamiche come l’emigrazione e lo spopolamento delle aree interne, la presenza di seconde case in località turistiche e strategie di investimento anche in prospettiva di trasferimento intergenerazionale della ricchezza immobiliare.
Come fa notare Oxfam, “le conseguenze sociali ed economiche impongono una seria riflessione su come rimettere in circolo questi vuoti sia per contenere l’allarmante abbandono delle aree interne, sia per evitare l’avanzamento della cementificazione ovvero l’utilizzo di suolo per favorire nuove costruzioni, sia per valorizzare un enorme capitale attualmente immobilizzato“.
Abitare i vuoti, tornare ad occupare le case libere nell’Italia più lontana dai centri che erogano servizi, obbliga ad uno sforzo ulteriore: “il disagio abitativo – sottolinea Oxfam – è anche connesso alla mancanza di servizi essenziali in determinati contesti territoriali, come ad esempio in alcune periferie delle grandi città o nelle aree interne. Per rispondere al disagio abitativo le persone hanno cercato di farvi fronte adattandosi ad abitazioni sottodimensionate rispetto alle proprie esigenze, accettando di vivere in alloggi mancanti di adeguata manutenzione e con conseguenti inefficienze energetiche, o ubicati in zone fortemente periferiche o ancora ricorrendo ad eccessivo indebitamento.
Le indicazioni di policy che chiudono il rapporto così chiedono di “incentivare il recupero e la riconversione del patrimonio privato inutilizzato o sottoutilizzato (incluso il patrimonio in disuso degli enti religiosi) adottando ad esempio misure dissuasive nei confronti di chi lascia l’immobile inutilizzato e premianti per chi sceglie di metterli in locazione di lungo periodo“. Nel recupero di spazi per l’abitare in zone interne o periferiche, invita poi a “prevedere la riqualificazione anche dei servizi connessi che rendano possibile la pendolarità con centri nevralgici per l’attività economica e produttiva”. È un altro modo di intendere l’abitare che Mauro Varotto definisce “appenninismo” nel suo intervento nel libro “Montagna a bassa definizione” (Donzelli, 2025), invitando a considerare l’abitare un verbo di moto, cioè collegato alla mobilità e capace di superare “quelle riduzioni dell’abitare all’oggetto edificio e alla permanenza in un solo luogo”, un’idea di casa e dell’abitare storicamente molto poco montanaro.
Resta in ogni caso evidente che per ri-abitare la montagna servono case a disposizione. E i pochi dati a disposizione confermano che non è l’esperienza di una singola famiglia quella racconta da Emiliano Cribari nel libro “Soltanto d’Estate” (Bottega Errante edizioni). Il tema poco a poco sta entrando anche nel dibattito pubblico: la casa in Appennino è stata, ad esempio, al centro della riflessione della Scuola di ecologia politica di montagna, organizzata dal 10 al 12 ottobre a Castiglione dei Pepoli (BO). Sarebbe così fondamentale, per il futuro prossimo, che le istituzioni responsabili raccolgano e garantiscano l’accesso a dati statistici puntuali che permettano di cogliere il fenomeno. Non è così, ad esempio, per gli ultimi report Istat dedicati al tema dell’abitazione, come quelle sulla spesa per consumi delle famiglie, sui prezzi delle abitazioni e sul numero delle compravendite, le cui tavole si limitano ad offrire dati aggregati a livello regionale o, al più, scorporando quelli che riguardano tutte le città e i Comuni sotto i 50mila abitanti.
Luca Martinelli
Articolo pubblicato su l’Altramontagna ripreso da Salviamo il Paesaggio
giovedì 27 novembre 2025
Treia: “Operare in modo disinteressato per il bene comune”...
Noi cittadini di Treia di buona volontà stiamo tutti lavorando, sia pure in modo disgiunto e differenziato, ad un cambiamento della società, a favore del bene comune.
In generale, per come capisco dalle situazioni in cui mi vengo a trovare qui a Treia, è talvolta difficile poter trovare sinergie d’intenti e collaborazione disinteressata. Ciò è dovuto al fatto che ognuno di noi si è fatto un’idea precisa di quelle che debbono essere le priorità per attuare questo “cambiamento”.
Spesso prevalgono i punti di vista personali e magari le “associazioni” si rompono o la fiducia reciproca si inquina a causa di dubbi e sospetti. Credo che, per evitare queste cadute, occorra esser pronti a rinunciare a qualsiasi aggregazione strutturata operando in termini di piccole azioni di rete seminativa, sperando che nel tempo e con la maturazione della coscienza collettiva possano manifestarsi le condizioni adatte ad un cambiamento non “indirizzato” ma spontaneo.
L’importante è non demordere e proseguire nell’azione disinteressata, nei limiti del possibile, lasciando che in ogni situazione si creino i presupposti per una collaborazione elettiva, nella consapevolezza del fine comune, ed allo stesso tempo sapendo che ogni “associazione” dura il tempo limitato del compimento dell’azione in corso.
Ma da questa riflessione desidero trarre alcune considerazioni su alcuni aspetti della società in cui viviamo: “solo una personalità debole ha bisogno di simulacri in cui identificarsi”, e questo è proprio ciò che avviene in quelli che, speranzosi, si rispecchiano solo nell’ideale specifico e limitato che essi amano! Tale atteggiamento, spesso, è passivamente e acriticamente imitativo, e può attecchire in uomini di spirito debole, con vocazione forte all’identificazione esteriore, che vogliono realizzare un proprio disegno.
E l’interesse collettivo? Dal punto di vista della sintesi dovrebbe trovarsi nell’adesione al concetto di “bene collettivo”. A questo proposito mi sovviene il pensiero di Goethe da Dio e Mondo: “Per orientarsi nell’Infinito / distinguer devi e poscia unire”.
E’ vero che la mente dell’uomo capace, in tempi simili, anela ad uscire dalla solitudine ed a produrre risultati positivi. Ma è altresì importante avere la grandezza interiore che consente di sopportare anche le persone imperfette. Se si tentasse di opporsi al male con i mezzi abituali il crollo che ne risulterebbe sarebbe rovinoso con conseguente umiliazione.
Per meglio chiarire il significato di questo “momento storico” (che non appartiene solo alla stagione ma anche alla maturazione morale dell’uomo), riporto qui un insegnamento del saggio Ramana Maharshi relativo all’armonia sociale.
“Una società è l’organismo; i suoi membri costituenti sono gli arti che svolgono le sue funzioni. Un membro prospera quando è leale nel servizio alla società come un organo ben coordinato funziona nell’organismo. Mentre sta fedelmente servendo la comunità, in pensieri, parole ed opere, un membro di essa dovrebbe promuoverne la causa presso gli altri membri della comunità, rendendoli coscienti ed inducendoli ad essere fedeli alla società, come forma di progresso per quest’ultima.”.
Paolo D’Arpini - Rete Bioregionale Italiana
mercoledì 26 novembre 2025
Mondeggi Bene Comune ha un progetto...
È un periodo frenetico e intenso nella fattoria senza padroni.
In questi giorni è aperto il bando per avviare la coprogettazione che porterà all’assegnazione dei casali della tenuta di Mondeggi.
Dopo più di due anni di estenuanti trattative, ci siamo. Questi mesi saranno cruciali per decidere il futuro della tenuta e soprattutto della fattoria, delle sue forze produttive e della comunità che da più di undici anni le anima e le mette in moto.
In questi giorni abbiamo ancora una volta presentato pubblicamente il nostro progetto, dove la nostra comunità funge da perno di una grande e complessa rete di associazioni che da anni intessono relazioni radicate e profonde sul territorio in cui si trova la tenuta di Mondeggi.
Crediamo fermamente che questa rete di associazioni sia in perfetta continuità con ciò che Mondeggi Bene Comune è stato in questi anni.
Mondeggi ha una particolarità: si tratta dell’unica occupazione “agricola”, sicuramente la più grande d’Italia, che ha permesso una gestione collettiva delle terre e dei loro prodotti, autogestita e totalmente dal basso, che ha raggiunto una scala considerevole. Attualmente ci sono centinaia di persone che in un modo o nell’altro si occupano dei campi di Mondeggi, chi gestisce un filare di vigna, chi una particella di olivi.
L’avventura della Fattoria Senza Padroni dimostra concretamente la possibilità di organizzare dal basso le forze produttive e la gestione di grandi estensioni di terra, attraverso una distribuzione capillare delle terre e dei compiti.
Fin dall’inizio della sua storia Mondeggi Bene Comune si è battuto per l’accesso alla terra, realizzandolo in questi anni, permettendo a migliaia di persone la gestione condivisa dei terreni occupati.
Ci siamo sempre schierati contro l’agroindustria e l’organizzazione della produzione calata dall’alto, contro le monocolture e la produzione massiccia di beni alimentari di scarsa qualità, e abbiamo agito per produrre cibo sano per i tanti membri della nostra comunità allargata. .
E tutto questo sempre seguendo i criteri dell’autogestione e del forte legame col territorio, un legame personale, fatto di momenti di duro lavoro fianco a fianco e di grandi feste dove si mangia e si brinda gomito a gomito, momenti dove ci si incontra e ci si conosce, dove si impara a vivere veramente insieme.
Le associazioni che abbiamo coinvolto per prendere in mano la tenuta di Mondeggi dopo il 2026 condividono questo approccio nel loro lavoro in ambito sociale, a prescindere dal tipo di sevizi erogati e di utenti di riferimento: sono strutture che hanno sempre promosso e coltivato legami durevoli e sviluppato radici profonde nel territorio in cui operano.
Il percorso di coprogettazione riguarderà i casolari della tenuta, che il progetto di ristrutturazione in atto vuole dedicati prima di tutto ad attività sociali. Noi siamo pronti, insieme alle associazioni amiche e solidali che abbiamo al nostro fianco, a riempire la tenuta di attività e servizi che possiedono la stessa qualità con cui abbiamo custodito e lavorato la terra in questi anni.
Vogliamo che la tenuta di Mondeggi continui ad essere un bene comune, ovvero un luogo di condivisione e di sperimentazione, di autogestione e di attività che creano relazioni comunitarie forti e durature. Ci batteremo con forza affinché questo processo di ristrutturazione e di regolarizzazione non la trasformi in uno dei tanti luoghi anonimi che eroga beni e servizi calati dall’alto in cui utenti e stakeholders non hanno alcuna voce in capitolo.
Come ci opponiamo all’agroindustria e alle sue logiche che depauperano i territori e abbassano sistematicamente la qualità del cibo che consumiamo quotidianamente, allo stesso modo ci opponiamo alla logica della mera erogazione di servizi ad una cittadinanza del tutto passiva che riceve ciò di cui ha bisogno da strutture impersonali.
Siamo convinti promotori e attori della cittadinanza attiva e la vogliamo anche per il futuro di Mondeggi e delle attività che ospiterà.
Mondeggi doveva diventare una struttura manicomiale, ma la legge Basaglia l’ha impedito, trasformandola in una azienda agricola. L’azienda è fallita e l’ente pubblico che doveva gestirla l’ha abbandonata per anni. Noi l’abbiamo occupata per custodirla e darle una nuova vita, lo abbiamo fatto in questi undici anni e vogliamo continuare a farlo anche in futuro.
Fedeli all’eredità basagliana che ci ha consegnato questa terra, vogliamo impedire che Mondeggi diventi un luogo dove le alterità e le divergenze vengano trattate come un “problema” da gestire mettendole in un confortevole angolo lontano dal resto della società; al contrario, vogliamo che continui ad essere un luogo dove ogni attività, agricola, sociale o politica, è connessa alle altre, in un insieme organico che crei e rafforzi i legami, la condivisione, la partecipazione e il radicamento sul territorio.
Per questo, lo abbiamo ripetuto tante volte in questi anni di scontro-confronto con le istituzioni, ci siamo sempre opposti ad una gestione “condominiale” della tenuta, dove ogni inquilino si fa gli affari propri e si incontra solo per parlare di beghe burocratiche. Noi vogliamo esattamente il contrario. Vogliamo per Mondeggi una gestione condivisa e partecipata da tutti gli attori in gioco.
Siamo sempre stati aperti alla collaborazione con qualsiasi soggetto che condivida con noi alcuni semplici valori di fondo, come l’antifascismo, l’antirazzismo e l’antisessismo. Ma restiamo fermi sulle modalità di partecipazione attiva e di organizzazione capillare e orizzontale delle attività, di gestione dal basso. Ci batteremo perché queste modalità prevalgano all’interno del processo di coprogettazione, opponendoci alle logiche di mera erogazione di servizi da parte di grandi attori del lavoro in ambito sociale, soggetti privi di legame con il territorio che potrebbero fare quel che fanno in qualsiasi altro posto senza che vi siano differenze nel servizio. Attori che siamo certi in una forma o nell’altra si presenteranno al tavolo ora che è stato imbandito dopo undici anni di lotta, di occupazione e di duro lavoro nei campi.
Ma siamo certi che se ciò avverrà, le migliaia di persone che lavorano nelle associazioni della nostra rete o che collaborano in un modo o nell’altro con la nostra comunità e con le realtà amiche e solidali, non staranno a guardare. Noi stessi non siamo disposti a stare a guardare, e in attesa dell’avvio del tavolo lanciamo la palla al di là dello steccato, nel campo della Città Metropolitana e della sindaca Funaro. Il futuro di Mondeggi, fedelmente alla sua storia recente, può continuare ad essere scritto da realtà del territorio, piccole e radicate, senza potenti mezzi economici o entrature politiche, oppure no. Ad ognuno le proprie scelte e le conseguenti responsabilità.
Mondeggi Bene Comune – Fattoria senza padroni
martedì 25 novembre 2025
Riflessioni sul tempo che passa... e non aspetta
Caterina Regazzi: “Riflessioni che non so se voglio condividere… almeno non tutto!”
…beh, mi si dice che è ora che scriva qualcosa e me lo dico anche io. Negli ultimi tempi mi sono passate per la mente vari spunti di riflessione che, un po’ per mancanza di tempo, un po' per paura, ho fatto in fretta a scacciare.
Ma la mail di stamattina di Enzo e la sollecitazione di Paolo, assieme ad un piccolo dialogo facebookiano con Mushin Muga, forse, mi darà l’opportunità di tornarci a riflettere. Non so ancora che fine faranno queste righe che sto scrivendo, se resteranno per me, se le condividerò con Paolo o se con chi le vorrà leggere, o se finiranno nel cestino (informatico).
Gli elementi che mi sono passati per la mente sono la vita, il Sé, la solitudine (intesa come stare da soli, non come quella sensazione spiacevole che chiamiamo normalmente solitudine), la morte, la malattia. Sto leggendo il libro “Grazie, dottor Hamer” sulle teorie alquanto rivoluzionarie sul modo di interpretare e quindi di trattare le varie malattie, compresi i tumori, fino alla morte.
E’ un po’ di tempo che me ne sto alquanto da sola, il tempo passa molto velocemente, parlo di settimane, mi pare sempre lunedì e sempre domenica, siamo già alla fine di questo anno, sono già più di 15 anni che io e
Paolo stiamo assieme, sono gli stessi anni che i miei non ci sono più (ed anche di questo ogni tanto devo fare mente locale).
La mia solitudine non è scelta in particolare, sta capitando. Sono passata da anni di grande attività sociale con cene, inviti, viaggi ad oggi in cui mi muovo con sempre maggiore difficoltà e sempre meno occasioni, che comunque non cerco. Fino a qualche settimana fa o un paio di mesi fa mi crucciavo un po’ di questo fatto e mi sentivo più che sola, abbandonata. Ma oggi invece provo una gran soddisfazione a stare in questo modo, perché non mi sento più SOLA, ma mi sento con me stessa.
Non credo di essere una persona narcisista, non mi sono mai piaciuta ed amata particolarmente, anzi, ma che non sia che finalmente mi accetto e mi amo per come sono e quindi mi sta bene stare con me? Non vorrei che queste sembrassero semplici frasi fatte, non lo sono, se fossi brava con le parole ne troverei altre, ma è proprio quello che credo di sentire. A volte mi sono sentita in dovere di “dare un contributo”, mi sentivo sprecata a starmene da sola, pensavo fosse un dovere morale starmene a contatto col mondo, salvo poi ritrovarmi insoddisfatta per non aver concluso nulla e aver anche sprecato energie.
Mi piace molto il libro sulle teorie di Hamer, da qui a dire che le trovi sicuramente vere ce ne passa, ma credo che vedere la malattia secondo questa interpretazione abbia un fascino particolare. Si dice che i tumori facciano molte più vittime oggi che qualche decina di anni fa ed è sicuramente vero, è sotto gli occhi di tutti, ma è anche vero che, come diceva Sabine, una volta non venivano diagnosticati e quindi veniva a mancare l’effetto shock sulla mente umana, che provoca, secondo la teoria di Hamer, l’insorgenza di quella che viene definita metastasi. Ho l’esempio del mio cane, era una femmina non sterilizzata, quando aveva 9 anni ha sviluppato dei nodulini in varie mammelle (conflitto di maternità). Diversi colleghi mi hanno consigliato di operare, ma che trauma sarebbe stato per lei, così timida un intervento? Lasciandola in pace (come mi ha consigliato invece un altro collega) non le sarebbe successo niente di peggio, i nodulini sarebbero cresciuti un po’, magari ulcererandosi pure, e basta. Altro esempio: conosco personalmente persone che con un tumore alla mammella operato hanno superato il periodo critico, quello in cui si potrebbero presentare le metastasi. Sono persone che io definisco “indomite”, persone che non hanno subito uno shock, o che vi hanno saputo reagire grazie al loro carattere, non si spaventano di niente (o quasi).
E così penso al mio fisico ed alla mia mente: il fisico non è un granché, mi sento sempre un po’ fiacchina, devo dormire parecchie ore per stare decentemente, la mente pure è alquanto debole, faccio fatica a stare concentrata per molto tempo (non potrei mai studiare come ho fatto in gioventù), e se lo devo fare per forza, la testa mi duole. Trovo la scusa del tempo, dell’umidità, del portamento scorretto, ma è tutto un insieme di cose e la necessità di stare ferma e attenta non fa più per me.
Ascolto il mio intimo e cerco di conoscermi meglio e di preparare il mio corpo e il mio spirito a quel che mi resta da vivere.
Ieri sera Paolo mi raccontava dei vecchi calcatesi che vivendo da soli andavano avanti fino all’ultimo e quando non ce la facevano più, semplicemente morivano. Anch’io vorrei fare così. Non so però se nel momento in cui dovessi sentire che la vita se ne potrebbe andare, se sarei capace di mantenere la calma.
Perché abbiamo così paura della morte? Perché la morte non viene considerata semplicemente come la giusta conclusione del percorso terreno e come un momento di pace, finalmente ed eventualmente, di possibile rinascita? Perché quando muore qualcuno dobbiamo fare finta di essere tristi (capita spesso) oppure, al massimo dire parole di circostanza tipo: “Ha finito di soffrire”?
Beh, dopo questa fase di riflessione sulla vita e sulla morte spero comunque di aver ancora occasione di vivere, con te, Paolo, dove si potrà, nel mondo, nella natura, con gli altri esseri viventi.
Caterina Regazzi
Commenti:
“Una bella chiacchierata con te stessa ma anche con coloro che ti sono cari, in forma di immagini che hai fatto tue, sono immagini come quelle dei sogni, sono altre da te ed allo stesso tempo sei tu in quelle forme. Così fai i conti con te stessa ti guardi e ti riguardi, ti interroghi e scopri intimità e dolcezza in ogni forma. Mi piace questa tua riflessione anche perché si sente la verità di fondo che la pervade, non c’è nulla di affettato o di compiacente nel tuo scrivere.
La pulizia della descrizione risalta come una verità -magari eccessiva- ma inconfondibile della tua natura. La verità interiore. La verità che non chiede conferme.
Un simile stato merita l’attenzione totale e tu sai chiamarla anche nel lettore distratto, come me….
Ovviamente vorrei anche pubblicare questo tuo pensiero poetico, nella categoria “poems and reflections”… ma il titolo, non hai pensato al titolo? (anche se quello che hai buttato lì in oggetto
è pure significativo). Bell’Amore”
Paolo D'Arpini
Replica di Caterina: “Grazie, caro…. a te!
Un altro titolo sarebbe per forza affettato, come dici tu!”
.......................
Commento di Lunaspina Di Avalon: “E grazie per aver condiviso queste tue riflessioni con noi. Grazie perché sono anche le mie riflessioni. 48 anni e il tempo vola, quel tempo che prima non passava mai nonostante gli
impegni mondani, le cene con amici. Non so dirti bene quando ma a un certo punto della vita, un bel po’ di anni fa, mi sono fermata per guardarmi dentro e mi sono trovata. Ho smesso gli impegni mondani che non mi davano nulla e sono tornata ad essere la selvatica che sono.
La mia solitudine è sorrisi ed è pienezza perché intorno a me sento l’amore di Madre Natura e di tutte le sue creature. L’essere umano mi deprime ancora un po’ e faccio assai fatica ad accettare certe dinamiche che, con un po’ di superficialità, chiamo cattiveria. Sono stanca delle ipocrisie, delle invidie, dell’aggressività anche se mi rendo conto che sono solo manifestazioni di infelicità e disperazione.
Allora mi sono raccolta nel mio mondo, nel contatto con la natura e con i miei compagni pelosi. Ho iniziato a vedere e non solo guardare, ad ascoltare e non solo sentire e un mondo fatato si è aperto nel mio cuore e tutto intorno a me. Non ho molto o almeno non in apparenza ma sento di avere tutto: quell’intima gioia nel cuore, quel languore fatto di felicità, ho imparato a godere appieno di queste meraviglie.
Madre Natura rende ciò che l’umana “follia” toglie. E la morte, la morte non mi fa più paura. Ho perso i miei genitori, non ho parenti, sono sola. Ho avuto da giovane un cancro ma ho vinto io. Dalla malattia ho imparato la gratitudine per la vita. Quando è morto mio padre ero arrabbiata e non volevo accettare il dolore della perdita, poi è toccato a mia nonna (che viveva con me e mi ha fatto da seconda mamma) e ho iniziato ad elaborare il lutto.
Infine è toccato alla mia mamma e l’ho accompagnata, come potevo, con certo il dolore nel cuore ma l’intima convinzione che fosse giusto lasciarla andare. Ho fatto pace con la morte e riconosco in essa la vita in un ciclo continuo di trasformazione dove nulla esiste inerentemente ma tutto è interconnesso. A volte al bosco mi appoggio alla mia quercia preferita e mi perdo: mi sento foglia e alito di vento, radice e fronda, mi specchio nella goccia di rugiada per diventare io stessa quella goccia.
A volte penso di essere diventata completamente matta, specie quando nella vita di tutti i giorni, mi confronto con i colleghi di lavoro o con le persone che incontro. Ho imparato a non dire, a sorridere in silenzio. Nel silenzio ho imparato ad essere anziché apparire.
E allora pazienza se mi considerano una donna stravagante. Hanno ragione loro, sono diversamente adattata e va bene così. Ti abbraccio forte forte.”
……….......
Commento di S.E.: “ciao Caterina belle le tue riflessioni
sincere
umili
vere
le ho assimilate molto volentieri mentre leggevo mi è venuto un lampo; ma la parola solo fa tanta vicinanza con il sole! non ci avevo mai pensato quindi si potrebbe forse dire che mentre una persona sta bene da sola può diventare come il sole … che esiste semplicemente e dà se stessa senza chieder indietro nulla proprio questo w-end ho parlato con diverse persone sulla morte pare che molti-perfino molto anziani non hanno alcuna voglia di morire… nel senso che sono pieni di paura dobbiamo pensarci ogni giorno penso sia importante celebrarla in qualche modo credo sia importante quanto “il punto” alla fine di un romanzo”
…………………………
Commento di Devachen M. P. “E’ un passaggio inevitabile per incontrare se stessi, in genere succede ,non e’ cercato, in inglese ci sono due termini diversi, lonely e alone, per indicare, il primo una solitudine di separazione, il secondo ’stare con se stessi. Credo di aver riportato una lecture di Osho su questo argomento- mai tanto in amore mai tanto solo. Eccola. Turya chiese ad Osho: mi sta accadendo questo: mai mi sono sentito tanto in amore, e mai mi sono sentito tanto solo, mi puoi chiarire, per favore ti ringrazio. Osho rispose: Turya , tu hai compreso un punto così importante e mi ringrazi ma io sono felice che tu abbia realizzato questo, è fondamentale, tu hai compreso la connessione: in solitudine puoi andare così in profondo che poi non può traboccare che amore dalla profondità del tuo essere.
Ma attenzione questa non è la solitudine del sentirsi misero, separato: è la solitudine dell’ entrare dentro di sé, da questo non può scaturire che amore; questa solitudine è interiorità che diviene esteriorità nell’amore: ci vogliono entrambi, chi va solo dentro se stesso diviene misero, disconnesso. Chi va solo nell’esteriorità diviene misero anch’egli, superficiale, ci vogliono entrambi. Turya , una cosa bellissima ti sta succedendo, vai in questa direzione, ma ti prego non scegliere mai perché se scegli una cosa sola , entrambi muoiono. Buddha rimase in silenzio tanto tempo sotto quell’albero e quando si risvegliò aveva accumulato così tanta energia e comprensione che a un certo punto questa traboccò e sentì la necessità di condividere per 42 anni quello che aveva realizzato, 42 anni, e poi esaurita quella lunga condivisione d’amore, maturò le cause per ritirarsi dalla vita stessa. Turya non c’ è nessuno più solo e nessuno così in amore come un Maestro, tu hai capito questo e mi ringrazi , io ti ringrazio, ma non scegliere mai nessuno stato dei due, ricordati senza andare in profondo l’amore diviene debole, superficiale, annacquato, e senza condividere tu divieni arido…ci vogliono entrambi… muoviti da dentro fuori, è così freddo li dentro, adesso vai fuori e quando fuori diventa per te troppo superficiale ritorna dentro… ci vogliono entrambi.. sono intimamente connessi.. ciò che appare è la manifestazione del profondo. (Osho – abstract da ‘discorsi sull’amore’)”
…………………….
Post Scriptum di Caterina Regazzi: “Con questo scritto non volevo dire però che la solitudine sia l’ unica via, anzi, aspiro ad un mondo dove ogni essere umano abbia pari valore agli occhi e al cuore degli altri, ma per poter partire devi prima di tutto sapere chi sei tu, e stare bene con te stesso/a. La vita non ha bisogno di essere riempita da cose o persone, ma se ci sono si concorre a sviluppare una rete di sinergia per una crescita collettiva (ho dovuto usare per forza questo termine che può apparire presuntuoso) per quelle che sono le nostre tendenze e possibilità AD OGGI, domani si vedrà..”
lunedì 24 novembre 2025
Sia come sia...
domenica 23 novembre 2025
Alienazione direzionale...
Appunti e punti di un firmamento esiziale o verso un disperante morire.
L’autoreferenziale scala verso l’alto, simbolica rappresentazione della modernità e del suo culmine detto post-modernità, può stare nella seguente sintesi: anima razionalista, cuore meccanico, spirito positivista, corpo industriale, valori egoici, fine materiale, progresso opulente, benessere apparente, profondi effetti collaterali, sottrazione delle identità, crescita sconsiderata, controllo capillare, avidità legittimata, fideismo digitale, esaltazione per l’intelligenza artificiale, ebbrezza post-umanista.
Una scala verso l’alto sotto l’egida della tecnologia, del capitalismo finanziario e della digitalizzazione, trinità fautrice del “migliore dei mondi possibili”. Uno slogan del razionalismo di Leibnitz, da lunga data plagiato da certi economisti-illusionisti, sempre estratto alla bisogna dal cilindro per imbambolare ancora, buona parte di noi, con la sua promessa di elargizione di benessere, di pace e di felicità.
Quelli in cima alla scala, ciechi al crollo che li attende, seguitano nella propria autoesaltazione. Un’euforia che coinvolge però anche buona parte della moltitudine più in basso. Gente comune che li sostiene, in equilibrio sul filo ancorato al niente, inconsapevole del vuoto nichilistico d’intorno, disposta – o predisposta – alla guerra tra poveri, pur di strappare al proprio pari le briciole che cadono dall’alto.
Per i critici dello spirito di questo tempo, la scala è destinata a precipitare. In esso vi vedono con chiarezza la cesura dell’uomo dal cosmo. Un’implicita conseguenza della suggestione antropocentrica, del mito della propria indipendenza. Le cui conseguenze sconvenienti sono sempre più somatizzate. Si possono infatti osservare nella metastasica, multiforme e crescente sofferenza cancerogena del mondo, conclamata anche nella sconsiderata politica, monca di qualsivoglia suffragio popolare, in mano a entità autoreferenziali al guinzaglio di potentati privati con il monopolio della comunicazione. Sfacciati affabulatori che ci costringono a considerare l’opera di Orwell e non solo la sua, non più distopica ma realistica. Ma anche e soprattutto nella inquieta infelicità degli individui, nei loro conseguenti violenti scoppi di collera nefasta, dei quali sarebbe opportuno diffondere il piano cartesiano che ne segni l’andamento. Progresso sull’ordinata e calendario sull’ascissa. Forse anche qualche benpensante agnostico soldatino in tweed, velluto a righe e Clarks, potrebbe divenire revisionista del proprio progressismo, potrebbe rinsavire dal proprio inconsapevole ideologismo.
In questo contesto culturale, il libro aperto sull’intera verità della natura, di noi, della vita, come in Fahrenaheit 451, è mandato al rogo dagli ideologisti più temibili, gli scientisti-progressisti. Una specie di individuo che ritiene di poter scomporre la realtà per conoscerla, che crede che la realtà esista indipendentemente da qualcuno che la concepisca, che considera il tempo un viaggio verso il futuro, che pensa di poter svelare il mistero a colpi di speronate razional-materialiste, che non si avvede d’essere espressione, come ogni suo simile ed ogni altra creatura e creazione, di una sola matrice.
Così procedendo non si avvede del ciclo perpetuo con il quale la natura mantiene se stessa, dunque neppure dell’evidenza che la morte fisica è il sistema, l’escamotage, il picco di autoconservazione della vita.
Sebbene si possa fare una strutturale analogia con i mercati che, sotto la tempesta di comunicazioni celebrative della rottamazione, sono tenuti in vita dalla programmata obsolescenza delle merci, non v’è punto di contatto tra i due sistemi né conoscenza per l’uomo, ma solo l’interesse personale. Un culto ontologicamente destinato a figliare ed allattare ad oltranza il lato Caino della storia.
Come una segnaletica o una opportuna lettura del terreno necessarie per superare ostacoli e giungere a destinazione, la morte informa la vita affinché questa possa correggere il proprio procedere e mantenere la via aggiornando se stessa nei confronti di nuovi attacchi e nemici.
Tutte le sostanze materiali e spirituali – alimentazione, respirazione, attività motoria (come conoscenza, non come esecuzione), pensieri, sentimenti, contemplazione, meditazione, preghiera (come diffusione d’amore, non come pretesa) – permettono o impediscono il riconoscimento e il mantenimento dell’appartenenza alla natura.
Se la consapevolezza del potere dell’accettazione è una delle chiavi che apre la porta verso la miglior condizione terrena, a mezzo di essa si può riconoscere che la ricerca del bene presuntuosamente implicata nella modalità scientista ha, invece, importanti e nocivi effetti collaterali.
Questi si mostrano con imperturbabile ed ininterrotta continuità seguendo la via dei valori egoici e materiali, considerati inalienabili diritti, superiori ad ogni altro. Ma è nei momenti delle morti spirituali lungo il corso dell’esistenza e in quello della fine della dimensione fisica che avvertiamo l’alienazione, la distanza incolmabile con i ragionamenti e con l’erudizione nei confronti di noi stessi in quei momenti, se siamo stati protagonisti di una condotta senza spessore.
Una morte aliena corre il rischio d’essere l’apice di un’esistenza creduta nostra, votata ad inseguire l’effimero dell’apparenza, sottomessa alla superficiale conoscenza dei saperi intellettuali, riempita di vanità e di buone maniere, comprese quelle utili per giudicare dall’alto chi non ne ha.
In quei saperi, in quell’esistenza, in quella via marcata da scelte aliene alla natura – in una parola scientiste, per fideismo più o meno consapevole – attaccano e indeboliscono l’energia stessa della vita che si esprime in noi.
In quei saperi generati da un’arroganza ben mascherata c’è la macchia indelebile di un attacco alla conoscenza profonda, la sola che permetterebbe una politica di bellezza e soddisfazione, di emancipazione da quella di abbruttimento e perdizione.
E allora energeticamente e simbolicamente – se non direttamente – è rispettabile prospettare il prosperare dei tumori e delle malattie esiziali quali espressioni, rigurgiti, nodi che la nostra condotta, antropocentrica razional-scientista-materialista, ha provocato alla rete della vita che tutto unisce, alla rotta naturale della conoscenza. Un sapere inquinante – quindi sconveniente se e quando considerato come conoscenza – che possiamo osservare anche nel comportamento dei cetacei, dei pesci, degli animali e degli insetti che perdono la rotta, deviati dalla innocua – così la definiscono – corruzione magnetica provocata dalla rete di elettrosmog che impregna l’atmosfera, la terra e i corpi degli esseri viventi. Campi elettromagnetici considerati indiscussi altari antropico-tecnologici simbiotici al progresso, ma estranei alla natura che, come una qualunque sostanza tossica, ci impone dipendenza e ci allontana dalla purezza. Naturalmente, sotto l’egida di una promessa, anzi garanzia, di elevazione della condizione umana, che occulta però un biglietto per l’inferno.
Il culto dei vaccini, la profusa assunzione delle medicine allopatiche, la presunta innocuità delle trasfusioni, l’indiscusso valore assoluto dei trapianti e della chirurgia gratuita costituiscono anch’essi altri nodi che disorientano e inceppano lo scorrimento dell’energia necessaria all’equilibrio della natura e alla conoscenza dell’uomo, ormai dimentico della propria origine, della propria madre, della propria ragione d’esistenza, salvo quella concepita ed elaborata dal suo pulcioso io.
Tutto ciò è una schiatta d’invasione analitico-vandalico del campo olistico della natura. Le malattie, infettive in particolare, ma tutte in generale, sono informazioni per e del sistema immunitario nostro e della vita.
In questa ottica le grandi epidemie sono per la vita una necessità e un’informazione, affinché si realizzi in essa un sistema di autosostentamento. Un po’ come la segnaletica delle stelle permetteva ai naviganti di giungere a terra. Sottrarre ai marinai il firmamento era destinarli a cattiva sorte. Fornirgli un gps è condannarli a morte in caso di avaria dello strumento. La forza di un marinaio è nella cultura del mare, del vento e del cielo, tutto il resto lo porta all’ignoranza o allo sport.
Dunque tutta la medicina allopatica accanita ed esaurita sui sintomi, incapace di vedere in questi sia la vita sia l’uomo, non fa che alzare il livello di incompatibilità con la salute stessa.
Medicina che, esaltata dalla cultura egocentrica ed egoistica, è obbligata a concepire un uomo meccanicistico e monadico, non quale espressione e portatore di un disegno più ampio di se stesso, di una umanità e di una sacralità.
I mattoni dell’epigenetica individuale costituiscono l’edificio della genetica generale. Un processo nei confronti del quale il singolo individuo individualista, materialista e positivista si sente estraneo e senza responsabilità. La sua misera unità di misura, con la quale riduce il mondo a dati e concetti, in cui crede fino a esaltarsi, uccidere e morire, è il primo impedimento per la sua maturità. Nonché la prima condizione per poter bellamente e scientificamente sbarazzarsi dei tempi della genetica, dei processi evolutivi, della propria partecipazione ad essi. Autopresunto re miope del mondo, su misura per non vedere l’integrità della natura di cui è emanazione e quindi procedere spaccandola a suon di saperi analitici e autoreferenziali.
Il criterio culturale in corso non ha i mezzi per formare persone e medici idonei a distinguere la natura dei loro interlocutori e dei loro pazienti.
Protocolli uniformati, ogm, cloni, a breve, incroci artefatti di specie e/o di razze di mammiferi, microchip incorporati, sono un viaggio siderale a cavallo della tecnologia con destinazione sempre più lontana dal cuore naturale. Ne sono argomento gli allevamenti intensivi, l’agricoltura chimica, gli antibiotici e le proteine animali per gli erbivori, il cibo umano iper-trattato, l’impiego deliberato di conservanti, il mito della crescita costante, il suicidio assistito come prodotto acquisibile e come progresso politico-sociale, l’offesa pubblicitaria, l’arte mortificata.
Abbiamo a che fare con una scienza tanto declinata ad evolvere ed evolversi in tecnologia quanto destinata a nascondere la via alla conoscenza, che non sta nell’erudizione.
L’ormai plurisecolare relazione delle classi dominanti con la macchina e con l’industria ha stravolto il registro precedente dal carattere artigianale, nei confronti della concezione di sé e del mondo.
La separazione cartesiana del pensiero dal corpo ha germinato un sistema prospettico che a breve a generato l’illuminismo e la conseguente supremazia della ragione, non a caso apparso in corrispondenza con l’avvento della macchina.
Quindi di un’idea di progresso in cui la tecnologia dovesse, senza dubbio alcuno, sostituire la tecnica, che il digitale fosse preferibile all’analogico, che l’artigianale potesse essere tralasciato a favore dell’industriale, che l’alieno dimostrasse un miglioramento dell’umano. Che la voce sintetica di un disco fosse all’altezza della carezza di una ninna nanna della madre.
In tale precipitare, festoso per alcuni, indifferente per la moltitudine, penoso per qualcun altro è praticamente inutile lamentare che la corsa verso le comodità ha cancellato il valore della frugalità, delle difficoltà della salita, della semantica spirituale delle due opposte vie: una che nel portare abbondanza, porta con sé anche oblio di se stessi, alienazione, frustrazione e nichilismo, l’altro, che conduce invece verso la scoperta e la presa di coscienza di sé, dell’altro e del benessere.
Lungo quale via sarà disperante morire?
Lorenzo Merlo
