In linea generale, quando si parla di tecnologia, l’opinione condivisa è che essa non sia di per sé positiva o negativa, ma “dipende dall’uso che se ne fa”. Non è assolutamente vero.
Ora, è evidente che della tecnologia se ne possa fare un uso più o meno idiota, più o meno distruttivo e via dicendo.
Un’ambulanza non è una bomba ovviamente. Se non altro ci sono delle buone intenzioni (anche se pure le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni). La questione non è però questa. Quando si muovono critiche alla tecnologia è tutto un levate di scudi per difenderla, e questa difesa passa per l’evidenziazione dei suoi lati “positivi”; lati “positivi” che ci sono ovviamente.
Dal momento infatti che non esistono nulla al mondo totalmente positivo o totalmente negativo, così anche la tecnologia ha i suoi aspetti positivi. Il punto però non è questo. Se si vuole fare una critica seria e radicale (nel senso letterale del termine di andare alla radice) della tecnologia, la questione non sarà evidenziarne gli aspetti positivi o negativi, ma analizzarla per capirla, indagarla per comprendere da cosa muove, coglierne le sue dinamiche, sviscerarne gli aspetti più reconditi e magari apparentemente innocenti, e infine cogliere il perché delle sue inevitabili conseguenze.
Dopodiché si potrà procedere a una valutazione il più oggettiva possibile dei suoi pro e dei suoi contro e “decidere” se la tecnologia è positiva o negativa; intendo dire la tecnologia in sé e non le sue infinite applicazioni prese singolarmente (“l’ambulanza è bene, la bomba è male”).
La questione di fondo a questo punto non sarà più affermare che l’auto a gasolio è negativa ma quella elettrica positiva (che comunque è negativa quanto quella a gasolio). La questione di fondo diventerà un’altra: il prezzo che paghiamo alla tecnologia (così come all’economia e a tutto il resto) è un prezzo accettabile oppure no? Il gioco vale la candela oppure no? Secondo me assolutamente no.
Il primo, vero problema della tecnologia è che essa crea un mondo dal quale noi dipendiamo sempre più passivamente, e più andiamo avanti più ne dipendiamo. La tecnologia, così come l’economia, così come la medicina, ecc. prima “crea” il problema, poi ci vende i suoi rimedi. Per intenderci, questo mondo ha creato una dipendenza pressoché assoluta dall’automobile. Il problema non è però produrre automobili che inquinano di meno (a parte il fatto che non esiste assolutamente nulla che inquina “di meno”, perché l’entropia generata dall’utilizzo di energiasi manifesta sempre e comunque generando nel sistema-Terra quello che la fisica chiama “disordine”) ma “inventarsi” o “ritornare” a stili di vita che ci permettano di condurre esistenze più sane, senza essere imbottigliati e stressati in traffico, senza dover guidare per lavoro 8 ore al giorno ecc.
Le caratteristiche della tecnologia sono diametralmente opposte a quelle dell’essere umano. Una tra le tante è ad esempio la velocità. Ogni innovazione tecnologica ci promette di regalarci tempo (l’unica, vera ricchezza. E difatti nel mondo moderno nessuno ha tempo da scialare, a certificare che siamo dei poveracci) ma nella realtà si risolve nel suo esatto contrario. Siamo noi umani a doverci adattare alla velocità a cui la tecnologia ci costringe, e non il contrario.
Sintetizza con efficacia il filosofo Umberto Galimberti: “Un mondo tecnologico crea un mondo con determinate caratteristiche, mondo che non possiamo evitare di abitare e che inevitabilmente ci cambia”. Il fatto che la tecnologia ci abbia ridotto otto ore al giorno (per lavoro) più altre ore (per “svago”) con il culo attaccato ad una sedia e dietro ad uno schermo (poi ci si sorprende che siamo sempre più grassi, con problemi agli occhi, alla schiena, di concentrazione, di riposo ecc.), dovrebbe rendere la questione abbastanza chiaramente.
Ma la cosa non vale solo da un punto di vista fisico quanto soprattutto mentale. Non ce ne rendiamo conto ma oramai pensiamo e agiamo tutti come delle macchine. Ci baciamo, tocchiamo, accarezziamo, guardiamo, ascoltiamo sempre meno. E’ gravissimo ma non lo capiamo. La tecnologia è di per sé è un’astrazione e più prende il sopravvento nel mondo che viviamo, più ci costringe a diventare come lei (astratti) e più ci espelle da noi stessi. Per questo, tra le altre cose, stiamo male. Bisognerà pur domandarsi perché da noi abbondano suicidi, stress, depressione, mentre queste cose tra i popoli della Natura (che non hanno alcuna tecnologia) non esistono? O no? O vogliamo far finta che va tutto bene?
C’è dell’altro. La tecnologia (macchine, computer, you name it) ci fa disimparare a fare le cose con le nostre mani e con la nostra testa rendendoci con ciò progressivamente sempre più dipendenti da essa. La tecnologia ci espropria delle nostre qualità e capacità. Noi oggi dipendiamo totalmente da quell’universo tecnologico di cui siamo così entusiasti. Se qualcuno stacca la spina di “qualcosa”, di “qualunque cosa”, siamo tutti morti.
Quindi, esattamente come l’economia ci ha reso totalmente dipendenti da essa e in tempi di “crisi” ci ritroviamo alla sua mercé (o meglio alla mercé di chi la controlla), la stessa cosa succede con la tecnologia. Per questo siamo sempre più deboli, sempre più insicuri, sempre più impauriti; perché intimamente sappiamo perfettamente che le nostre vite non dipendono più da noi stessi, dalle nostre capacità, dai rapporti che abbiamo creato con gli altri, bensì da un universo economico e tecnologico di cui in realtà non sappiamo assolutamente nulla e soprattutto sul quale non abbiamo alcun controllo. E’ davvero un ottimo motivo per avere paura, altroché la “crisi”.
Andiamo avanti. Di questi tempi non si fa altro che parlare di crescita per uscire dalla “crisi”. Come sostengo oramai da tempo, la tecnologia è responsabile, quantomeno in parte, della perdita di lavoro occupazionale, ragion per cui gridare alla crescita economica per far riprendere il ciclo lavorativo è completamente insensato. Il progresso tecnologico in generale e la rivoluzione digitale in particolare, tolgono posti di lavoro, e questo dovrebbe essere assolutamente ovvio anche se nessuno o quasi sembra rendersene conto.
Eppure lo avevano capito benissimo già i luddisti che rompevano le macchine ai tempi della Rivoluzione Industriale. Un libro uscito recentemente negli stati Uniti, “The second machine age” (La seconda età delle macchine, autori Erik Bryniolfsson e Andrew McAfee), sostiene esattamente questa tesi. I due portano ad esempio il caso della Kodak, azienda fondata nel 1880 e in grado di dare lavoro, nel suo momento di massimo splendore, a 150.000 persone (più tutti i lavoratori dell’indotto esterno). Per contro, dicono i due accademici, Instagram (un’invenzione idiota come tutto quello che gli sta vicino e che certifica che questa umanità non merita nemmeno di essere salvata), nata nel 2010 e lanciata da solo 4 persone, è stata venduta a Facebook appena due anni dopo per 1 miliardo di dollari. E Facebook (non Instagram), pur avendo un valore infinitamente superiore a quello di Kodak, impiega solo 5000 persone.
Ma non c’è bisogno dei due accademici per arrivare a capire ciò che è assolutamente intuitivo e cioè che la tecnologia toglie posti di lavoro e non li crea (o più precisamente, ne toglie molti di più di quanti ne crea). Quindi la tecnologia, rappresenta uno, certamente non il solo, dei problemi della “crisi”. L’economia del resto, e la cosa è anche ovvia, usa la tecnologia per l’eliminazione dei posti di lavoro (che è una delle strade più sicure per generare utili), il che dimostra ancora una volta che l’economia non è al nostro servizio ma noi al suo.
Esempi banalissimi, già vecchi di vent’anni, sono l’automazione delle casse al supermercato o ai caselli autostradali. E domani succederà al commercialista, al notaio, all’avvocato, al farmacista, all’impiegato di banca (tanto per citare occupazioni ancora al riparo dello tsunamitecnologico-economico). Che ne è stato della promessa che la tecnologia avrebbe liberato l’essere umano dal lavoro e dalla fatica e al tempo stesso gli avrebbe dato ricchezza?
Come conseguenza di quanto sopra la tecnologia concorre inevitabilmente a generare diseguaglianza sociale, accentrando “ricchezza” nelle mani di pochi e lasciando contestualmente i molti in braghe di tela. Pochi programmatori possono creare aziende in grado di fatturare cifre astronomiche, cifre che però vengono drenate da altri settori molto più vitali e necessari per l’esistenza umana.
Come conseguenza di quanto sopra la tecnologia concorre inevitabilmente a generare diseguaglianza sociale, accentrando “ricchezza” nelle mani di pochi e lasciando contestualmente i molti in braghe di tela. Pochi programmatori possono creare aziende in grado di fatturare cifre astronomiche, cifre che però vengono drenate da altri settori molto più vitali e necessari per l’esistenza umana.
Stanno scomparendo a spron battuto mestieri “reali” (che in quanto tali avevano anche un senso esistenziale, e non mi pare poco) e li abbiamo sostituiti con delle macchine prima e con i computer poi (la “rivoluzione digitale”). Certo, è molto possibile e direi anzi probabile, che una manovalanza di basso livello come quella che ci fa comodo sfruttare oggi in Cina (o nel sud-est asiatico o dove), sarà necessaria anche da noi, il che significa che a breve ci sostituiremo ai cinesi o a chi per loro, direttamente qua a casa nostra.
Nonostante quanto sopra c’è l’illusione generalizzata secondo cui, addirittura e nientepopodimeno che, la tecnologia ci “salverà”. Una tecnologia “sostenibile”, s’intende. Scrive l’amico Enrico Manicardi: “Sostenibile per chi? Non certo per le migliaia di persone del terzo mondo che vengono costrette a lavorare 16/18 ore al giorno nelle miniere di silicio, coltan, bauxite, terre rare, ecc. La questione è molto semplice: per far funzionare un pannello solare, ad esempio, ci vuole (tra l’altro) il silicio, e per fare incetta di questo metalloide occorre estrarlo a forza dalla Terra; migliaia di uomini, donne, bambini ricattati dai meccanismi impietosi dell’economia vengono ancora oggi schiavizzati a questo scopo e la Terra viene martoriata da questi scavi e da queste estrazioni. Allora, mi chiedo: che tipo di mondo vogliamo con le nostre rivendicazioni ecologiste? Vogliamo un mondo in cui poche centinaia di migliaia di Occidentali possano far mostra del loro finto ambientalismo da réclame basato sulla presenza di innovazioni costruite sulla pelle di migliaia di poveri lavoratori e bambini schiavizzati? Se è questo il “nuovo” mondo che vogliamo, io non ci sto! Questo mondo “verde” è assolutamente identico a quello grigio in cui già vivo”. Il tutto per non parlare della devastazione di territori per estrarre le materie prima necessarie a qualunque produzione, alla conseguente perdita di biodiversità, ai trasporti, alle lavorazioni, agli scarti di lavorazione, ai consumi di energia e acqua, al fatto che qualunque “prodotto” a fine ciclo diventa un rifiuto che inquina terra, aria, mari, fiumi, laghi. Abbiamo letteralmente distrutto il mondo, lo abbiamo reso invivibile, eppure lo vogliamo salvare con quegli stessi strumenti, con quello stesso schema di pensiero (perché prima di tutto la tecnologia è uno schema di pensiero) con cui lo abbiamo distrutto. Ditemi voi se di questo schema di pensiero non siamo vittime?
Ma il vero dramma non è tutto ciò. Davvero non lo è. Il dramma non è la tecnologia in sé. Il dramma è che pensiamo sia essa a poterci “salvare”, il dramma è l’entusiasmo con cui la abbracciamo, il dramma è che gli diciamo “grazie”. Noi non viviamo grazie alla tecnologia ma nonostante questa (e nonostante tutto il resto, tra cui in primis l’economia, che è un’altra astrazione, esattamente come la tecnologia). Capirlo, e quindi smettere di ringraziarla, è il primo indispensabile passo per imboccare la direzione giusta. E questo dipende da noi, non dalla tecnologia. Bisogna convincersene.
PS: Spegnere il computer dopo aver letto questo articolo e andare a fare una passeggiata, da soli o mano nella mano con la persona a cui vogliamo bene, con un amico con il quale possiamo parlare guardandolo negli occhi e non attraverso lo schermo di un qualunque tecnogingillo idiota, rappresenta già un cambio di direzione. Da qualche parte bisognerà pur iniziare.
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