ENERGIE RINNOVABILI
suggerimenti e proposte
a cura del Prof Roberto Minervini, docente Universitario della Tuscia e
responsabile scientifico di Accademia Kronos
Premessa
In considerazione del travagliato sviluppo delle
energie rinnovali nel nostro Paese, dei forti interessi che hanno generato ed
attualmente continuano a generare fra gli imprenditori, dei contrasti che sempre più spesso si verificano
con le popolazioni residenti e dei frequenti interventi correttivi sul piano
legislativo del settore si è ritenuto opportuno realizzare, anche se parziale,
questa breve nota sulle energie rinnovabili è rivolta soprattutto agli amministratori pubblici.
Il presente
documento vuole essere uno strumento informativo che deve tenere conto del
continuo evolversi sia della materia “rinnovabili” che della relativa normativa, va considerato
quindi “in progress” e potrebbe essere
sostituito in qualsiasi momento da una sua versione più aggiornata.
LE SOLUZIONI
ENERGETICHE
Sulle soluzioni energetiche, come
spesso è accaduto nel nostro Paese e nonostante le importanti disponibilità
finanziarie messe in campo da vari governi, si è purtroppo clamorosamente
sbagliato. Gli interventi legislativi, e soprattutto i loro regolamenti di
attuazione, evidentemente suggeriti da alcuni centri di potere, hanno fatto sì
che si sia avviata nel nostro Paese una campagna delle rinnovabili, e soprattutto del
fotovoltaico, quando in Italia non esisteva un solo stabilimento che costruisse
pannelli solari o gli inverter o le pale eoliche per l’eolico.
Questo ha comportato un facile arricchimento di
imprese produttrici straniere (soprattutto da Germania e Cina) che in molti
casi sono venute esse stesse a realizzare impianti sul suolo italiano per godere appieno dei benefici offerti dal
nostro generoso “conto energia”. “Conto”
che oggi vale circa 13 miliardi per il 2014 ripartiti sulle bollette delle
famiglie italiane di cui una parte certamente interessante (l’esatta
quantificazione economica è complessa) è andato e va all’estero fra acquisto
dell’attrezzatura ed incentivi. Questo stato di cose ha comunque generato una
produzione nazionale di elettricità da rinnovabili che, per il mese di Gennaio
2015, è stata già del 36,9% a fronte del 20% previsto entro il 2020 dagli
accordi europei. Va inoltre considerato che la potenza elettrica installata nel
nostro Paese è pressoché doppia rispetto alle esigenze nazionali. Ma vale la
pena di analizzare i vari settori al fine di individuare le varie soluzioni al
momento possibili per un loro più corretto utilizzo nel comprensorio orvietano.
L’IDROELETTRICO (1° produttore da rinnovabili italiano
con 3.121 MW prodotti nel mese di
Genn.2015. Fonte: Terna)
L’idroelettrico è, e da tempo, ampiamente sfruttato in
Italia per la produzione di energia elettrica che era, in regime di monopolio
ENEL, sostanzialmente concentrata in centri di produzione di grandi dimensioni
(soprattutto laghi artificiali e condotte forzate), ma, con la liberalizzazione
dal monopolio e l’introduzione degli incentivi, si è giunti a prendere in
considerazione anche “interventi” di modeste dimensioni su sorgenti e corsi
d’acqua in grado di generare, se inglobati in condotte, solo alcune decine di
Kwh. Rese queste però di un qualche interesse per alcuni investitori in
considerazione del contributo aggiuntivo, al valore del Kw prodotto, elargibile
dallo Stato. Questo aspetto ha comportato, in particolare in alcune regioni
d’Italia, l’interesse a mettere in sfruttamento ambienti idrici spesso preziosi
sul piano idrobiologico poiché aree di riproduzione degli ultimi anfibi
nazionali (salamandre, tritoni, ululoni, ecc), sempre più rari a causa della
scomparsa degli habitat idonei , oltre a costituire aree di approvvigionamento
idrico, in particolare nei mesi estivi, per una vastissima gamma di specie
animali.
Suggerimenti
Interventi per l’installazione di nuovi
impianti per la produzione di energia idroelettrica dovrebbero quindi essere
consentiti solo laddove non vi siano ambienti idrici di particolare pregio
naturalistico, le installazioni non dovrebbero comunque racchiudere il corpo
idrico in condotte forzate che impedirebbero la risalita delle specie ittiche
(ad es. le anguille o le trote), la deposizione delle uova da parte degli
anfibi, e l’abbeverata di un’infinità di organismi animali, ma dovrebbero essere
eventualmente installati generatori “ad immersione” nel corso idrico e senza
che queste installazioni comportino la realizzazione di apposite strade in
ambiente naturale, palificazioni imponenti per il trasporto dell’energia e
quant’altro possa sottrarre appeal naturalistico al comprensorio.
L’EOLICO (2°
produttore di rinnovabile in Italia con 1.876 MW a Genn. 2015. Fonte: Terna)
In Germania è stato calcolato che ci sono
mediamente oltre 3.000 ore l’anno di vento di una potenza tale da far girare
eologeneratori di media e grande dimensione. In Italia, con esclusione della
Sardegna e non di tutta, le ore valutate si aggirano, sui siti più predisposti,
intorno alle 1.600 l’anno. In Danimarca si superano anche le quantità della
Germania e questo forse spiega perché questo paese abbia installato
eologeneratori già a partire dagli anni ’60.
Con
questi dati dovremmo quindi escludere l’eolico di grandi dimensioni dalle
soluzioni energetiche italiane?
La risposta è semplice: sì, poiché nessuno realizzerebbe in Italia impianti così costosi ed impattanti su ambiente e paesaggio senza le sovvenzioni del conto energia; no per gli impianti domestici, condominiali ed aziendali.
La risposta è semplice: sì, poiché nessuno realizzerebbe in Italia impianti così costosi ed impattanti su ambiente e paesaggio senza le sovvenzioni del conto energia; no per gli impianti domestici, condominiali ed aziendali.
In buona sostanza c’è un eolico, giustamente
dimensionato, che può essere utile in quei contesti in cui il vento, anche se
poco, è in grado di far girare piccoli generatori. Si tratta di dimensionare il
generatore (tipologia delle pale) alla quantità di vento disponibile: con poco
vento pale più lunghe in grado di raccoglierlo, al contrario con venti più
consistenti.
Queste applicazioni sono possibili
soprattutto con il cosiddetto”minieolico”, pressoché sconosciuto da noi, già in
uso in larga parte del mondo e specialmente nelle campagne, così come da noi
erano frequenti le “ventole” della Vivarelli di Siena montate su tralicci di
ferro per pompare acqua dai pozzi. Le ventole della Vivarelli erano così
diffuse in Italia da essere entrate a far parte del paesaggio agrario italiano.
Suggerimenti
Qualcosa di simile è probabilmente
riproducibile nell’attuale contesto italiano con il minieolico, anche se,
purtroppo, anche in questo comparto, la produzione nazionale è penalizzata dal
ritardo con cui il nostro Paese si è avvicinato a queste tematiche. Nel
minieolico però sono molte le imprese italiane che si stanno affacciando al
settore, anche se ancora in troppi non credono che possa costituire una delle
alternative al fotovoltaico.
L’eolico nazionale, tutto di
dimensioni industriali, è concentrato soprattutto al Sud (Calabria e Puglia)
dove spesso hanno completamente trasfigurato il paesaggio e dove, ormai troppo
tardi, ci si chiede se ne valeva la pena considerando le scarse rese
energetiche, le frequenti infiltrazioni della malavita organizzata, le
difficoltà delle manutenzioni ed il costo che grava sulla bolletta elettrica di
tutti gli Italiani. Interessante potrebbe essere invece un avvio del minieolico
anche nel nostro Paese, specie se di macchinari italiani. La dimensione fino ai
5 Kw potrebbe essere considerata compatibile (senza il solito “trucco” di
installare più generatori nella stessa area, ogni impianto dovrebbe vere una
distanza dall’altro di almeno 1 Km) con il paesaggio agrario, avendo sempre
cura e rispetto, nell’installazione, di avere il consenso di altri residenti
presenti in almeno trecento metri di distanza.
IL FOTOVOLTAICO (3° produttore di rinnovabile con
1.130 Kw nel Genn. 2015. Fonte: Terna)
Questo tipo
di produttore di energia è forse quello che, a seguito del cattivo utilizzo che
ne è stato fatto, ha impattato maggiormente sul nostro Paese.
Nel caso dell’Orvietano solo grazie
al grande impegno delle associazioni di cittadini si è riusciti ad impedire
disastrose distese di pannelli in particolare sull’Altopiano dell’Alfina
(Comune di Castel Giorgio).
Il solare è una tecnica energetica
interessante anche se già ritenuta obsoleta e prossima ad essere sostituita con
soluzioni tecnologiche molto più economiche, più produttive e meno impattanti
sul territorio.
Suggerimenti
Nel mentre che le nuove tecnologie
in corso diventino una realtà, anche in termini di economia, si consiglia
l’installazione dei tradizionali pannelli su edifici pubblici e privati, nelle
aree fortemente compromesse sul piano urbanistico e paesaggistico, nelle aree
industriali e sui capannoni. Mentre sarebbero assolutamente da evitare tali
installazioni sugli edifici ed i complessi storici, sui terreni agricoli e
comunque laddove l’impatto visivo alteri il Paesaggio.
Da alcuni anni un ravvedimento
governativo, fortemente sollecitato “dal basso”, ha abolito l’incentivo alla
realizzazione di parchi fotovoltaici sui terreni agricoli. Da quella data non
si sono praticamente più avute installazioni sui terreni agricoli nazionali. A
conferma, qualora ve ne fosse ancora bisogno, della forte dipendenza del
settore dal contributo pubblico.
LA GEOTERMIA (4° produttore di rinnovabili con 499KWh a Gennaio 2015. Fonte: Terna)
Se nel caso delle soluzioni
energetiche fino ad ora trattate l’eventuale danno nel loro cattivo o
inadeguato uso poteva limitarsi al danno economia ed alla perdita del
Paesaggio, nel caso della geotermia si può fare di molto peggio. Quella che
sembrava infatti una risorsa spesso abbondante, di grande potenzialità e
talvolta pulita sta mostrando invece il suo volto più oscuro. Sono infatti
sempre più frequenti le correlazioni fra la geotermia profonda, le
perturbazioni del suolo di origine sismica e l’inquinamento irreversibile delle
falde acquifere. E’ opportuno pertanto distinguere fra due tipologie diverse di
geotermia: quella “di superficie” e quella profonda.
La geotermia di superficie è quella
che sfrutta le differenze di calore, dell’ordine anche solo di pochi gradi
(bassa entalpia), fra il sottosuolo e la superficie, magari anche solo
semplicemente tramite l’uso di pompe di calore.
Questo tipo di utilizzo, a parte
capire la natura del refluo eventualmente utilizzato, la sua qualità dal punto
di vista chimico-fisico e dove e come va a finire (se nell’ambiente, in un
depuratore o altro), non genera solitamente grosse problematiche e sarebbe
auspicabile il suo utilizzo soprattutto per il riscaldamento degli edifici
pubblici.
Discorso diverso meritano invece gli
interventi geotermici profondi finalizzati alla produzione di energia
elettrica. In questi casi il refluo che si ricerca è almeno di media entalpia,
generalmente non superiore ai 150° C, e lo si trova di solito nel comprensorio
vulsino oltre i 1000 m di profondità.
Il Ministero dello Sviluppo
Economico ha varato un piano atto a consentire ricerche minerarie profonde per
una produzione di non oltre 50MW (1 Megawatt = 1000 KW) su tutto il territorio
nazionale. Questo piano, per la realizzazione di “impianti pilota” è ulteriormente
sovvenzionato fino alla cospicua cifra di ben 200 € per MWh prodotto.
Approfittando di questa
“opportunità,” come spesso accade nel nostro Paese, alcuni si sono mossi prima
degli altri in quanto depositari di conoscenze specifiche, maturate magari in
ambito di società o enti di stato presso cui hanno avuto accesso ad
informazioni utili in questo contesto.
Alcune società si sono quindi
attivate, anche sotto forma di vere e proprie “cordate”, in considerazione
degli ingenti investimenti da sostenere in caso di intervento geotermico per la
produzione di energia. Altre, la maggior parte, tendono solo ad acquisire le
licenze di perforazione per rivenderle, come già è avvenuto per l’eolico ed il
fotovoltaico, al migliore offerente.
Interessante a questo proposito è
rilevare che molti degli interventi esplorativi previsti dallo Stato sono stati
localizzati nel complesso vulsino a cavallo tra Umbria e Lazio.
Il tipo di intervento proposto è di
tipo ”binario”, cioè con perforazione profonda, di solito tra 1500 e 3000
metri, per ricercare un refluo abbastanza caldo sotto forma di vapore (ma misto
a molte componenti chimiche tossiche). Questo refluo viene portato in
superficie (di solito viene in superficie a pressione elevata oppure viene
pompato), scalda un altro refluo tramite scambiatore, il refluo scaldato porta in pressione un liquido che aziona una
turbina che genera elettricità. Dopo aver ceduto calore il refluo primario
viene reimmesso nel sottosuolo a circa 2-3000 metri.
Questo tipo di intervento,
apparentemente innocuo e pulito anche se si intravede un grande impegno
tecnologico, mostra degli aspetti preoccupanti se non inquietanti. Il primo è
che prendendo il refluo gassoso da una parte per reimmetterlo dopo l’uso, e
quindi più freddo, da un’altra altera gli stati di pressurizzazione delle
grandi profondità. Gli squilibri che
determina possono generare, così come sostenuto da molti geologi ricercatori,
ma anche da un importante documento di una grande società italiana del settore,
dei sismi fino al 3° grado della scala Rikter, a condizione però che la
quantità di refluo utilizzato sia entro limiti prestabiliti. Eccedendo tali
limiti gli squilibri nelle pressioni possono generare fenomeni sismici imprevedibili.
Non solo, le perforazioni profonde
possono anche mettere in comunicazione le falde idriche con il refluo profondo
inquinandole irrimediabilmente, mentre, nel corso delle trivellazioni, l’uso di
paste speciali per fluidificare l’ambiente attorno alle punte di trivellazione
possono inquinare permanentemente le falde in quanto altamente tossiche per la
presenza massiccia di Bario ed altri composti velenosi,
Se questo non bastasse, per raffreddare il refluo gassoso prima
di ripomparlo a grandi profondità è necessario allestire un enorme capannone,
alto come un palazzo di quattro piani e rumorosamente iperventilato da un
complesso di decine di ventole per il ricambio dell’aria.
Impianti di questa tecnologia
sarebbero impattanti anche in territori poco popolati, è semplicemente assurdo
che vi sia una legge dello stato che consenta di fare simili impianti, seppur
di tipo sperimentale, sul territorio italiano. Come purtroppo è regola nel
nostro Paese si tratta probabilmente di un altro caso in cui la politica prende
ordini da specifici centri di potere. Il caso di Castel Giorgio è emblematico
(ancora Castel Giorgio!) dove è in corso di autorizzazione un progetto,
richiesto alcuni anni fa, per la realizzazione di un impianto geotermico
binario alle porte del paese.
Per questo settore, dove la contrapposizione con le
popolazioni locali è totale, le Amministrazioni pubbliche sono tenute a
frapporre una forte resistenza istituzionale nei confronti di scelte
aprioristiche, tecnicamente confutabili e distorsive del sano rapporto
democratico fra le Istituzioni e le popolazioni residenti. Per queste ultime
infatti non solo può essere messa a rischio la stessa sicurezza dei cittadini,
ma spesso anche le economie delle loro attività produttive e, per dirla in due
parole, soprattutto la loro qualità della vita. Questi impianti inoltre
generano bassissima occupazione.
Suggerimenti
Con queste
premesse ed in attesa che sorgano regole nuove ed atte a tutelare le
popolazioni residenti dai tanti guasti che la geotermia mal fatta può generare
si sollecita a non autorizzare impianti di media ed alta entalpia.
IL BIOGAS
Questa soluzione energetica è una
delle più “antiche” fra quelle oggi disponibili. I famosi Totem per produrre
biogas sono stati realizzati già trent’anni fa in varie parti d’Italia,
soprattutto laddove l’industria degli allevamenti, in particolare di suini,
metteva a disposizione grandi quantità di liquami. La tecnologia è chiaramente
notevolmente progredita, ma nonostante queste acquisizioni le conversioni
energetiche sono tutt’ora molto basse non superando il 7%.
Suggerimenti
Con queste premesse non ha
chiaramente senso pensare di realizzare “centrali a biogas” se non laddove si
renda necessario lo smaltimento dei liquami e cioè all’interno stesso dello
stabilimento che produce le deiezioni. Ipotesi di realizzazione di impianti in
località avulse dal contesto in cui si producono gli scarti da cui produrre poi
il biogas sono da considerarsi meramente speculative e soprattutto foriere di
contrasti con i residenti ed altri operatori. Senza sottovalutare poi i rischi
sanitari, per uomini ed animali, connessi con la ingente e continua
movimentazione per le strade italiane di camion cisterna carichi di liquami.
Questo settore diventa però
particolarmente interessante quando abbinato “in loco” all’allevamento animale.
Le deiezioni animali infatti, sempre grazie al conto energia, creano un “valore
aggiunto” alla produzione in quanto sinergico all’attività esistente senza
praticamente costi aggiuntivi essendo la “materia prima” (le deiezioni animali)
direttamente prodotta in azienda. A mero titolo di esempio basti citare il
fatto che una vaccheria per la produzione di latte di circa 1.500 capi può
generare metano (50-60%) per produrre circa 1 MW/h di energia elettrica.
Alla fine del processo di metanizzazione inoltre i
liquami “esauriti” si sono fortemente ridotti di volume e ben si prestano, in
quanto “maturi”, ad essere utilizzati in agricoltura come concimi, anziché
rischiare di finire, per vie traverse, nell’ambiente.
Importante è però prevedere che i “digestori” preposti
alla metanizzazione non vengano realizzati su pendii, o comunque su piani
inclinati, o in località soggette ad allagamenti in caso di fenomeni meteo
particolarmente avversi che possano quindi smottare o essere allagati e
riversare il loro contenuto all’esterno.
Tali impianti, quando ben fatti e se ben
gestiti, non creano eccessi di odori sgradevoli, anzi, almeno in teoria, il
surplus finanziario che generano, dovrebbe consentire (e si può pretenderlo!)
che la pulizia delle stalle o comunque dei luoghi di allevamento, sia più
attenta e frequente riducendo così l’impatto olfattivo dell’intero stabilimento
nel comprensorio.
Altrettanto dicasi della gestione dei
digestori, mentre per i motori che generano elettricità direttamente dal biogas,
devono essere contenuti in ambienti insonorizzati .
Tali considerazioni quindi relegano le centrali a
biogas nell’ambito in cui sono originariamente nate: all’interno e a valle
degli stabilimenti che producono deiezioni ed altro materiale biologico utile a
produrre gas metano. In questa tipologia, anche se con modalità di utilizzo
completamente differenti, rientrano
anche le produzioni di biogas all’interno delle discariche.
LE BIOMASSE
Generare energia bruciando
combustibile non fossile significa sostanzialmente non aumentare di un grammo
la CO2 della nostra atmosfera. Se i combustibili fossili sono di fatto una
risorsa energetica appartenente ad un passato remoto e sottratta per tempi
geologici al bilancio della CO2 del pianeta, la combustione delle biomasse di
origine recente (cippato, scarti di vegetazione, sottoprodotti agricoli, scarti
di lavorazioni industriali di prodotti vegetali, ecc.) restituisce
all’atmosfera solo quella CO2 che le piante da bruciare hanno sottratto alla
stessa durante il loro periodo di vita.
Le biomasse quindi sembrano poter
costituire anche un utile matrimonio tra produzione agricola ed energia. Questo
binomio, tanto temuto dagli economisti globali poiché rischierebbe di
compromettere la produzione agricola finalizzata all’alimentazione umana, è
stata solo effetto di valutazioni teoriche e merita quindi di essere meglio
analizzato. Basti pensare infatti che negli ultimi cinquant’anni le superfici
coltivate del nostro Paese si sono dimezzate mentre la produzione agricola è
più che raddoppiata. Ma non solo, il patrimonio boschivo italiano si è
raddoppiato dal dopoguerra ad oggi a seguito dell’abbandono delle terre
marginali, soprattutto montane, pedemontane ed anche collinari, poiché meno
redditizie rispetto ai terreni di pianura.
Limiti importanti a questa
tecnologia possono venire invece da altre problematiche, in primis le basse
rese generate dalle combustioni di questi prodotti vegetali. Il loro potere
calorico infatti è infinitamente più basso di quello del petrolio e quindi
necessitano di enormi quantità di materiale combustibile con onerosi costi di
trasporto, stoccaggio e movimentazione sia sui luoghi di produzione che di
utilizzo. Tenendo anche presente che lo stoccaggio di grandi quantità di
biomasse comporta la produzione di forti odori e di ingenti quantità di spore
fungine anche allergeniche.
Questo per rientrare nel concetto di “biomassa” in
senso stretto, ma, attraverso una interessante alchimia
burocratico-legislativa, all’interno delle biomasse sono recentemente rientrati
anche i Combustibili Solidi Secondari (CSS), sostanzialmente una frazione della
spazzatura (prevalentemente plastica ed altri derivati del petrolio).
Problematiche
degli impianti a biomasse
Un primo aspetto rilevante di questi impianti è che possono
essere basati sostanzialmente su due diversi approcci tecnologici: il primo è
costituito da una comune caldaia dove ad aria forzata viene bruciato il
combustibile, un sistema di filtraggio dei fumi (non sempre obbligatorio), una
turbina per la produzione di energia elettrica attivata da un fluido
surriscaldato ed un sistema di rimozione periodica delle ceneri.
Il secondo (Pirolisi) è costituito da un gassificatore
che “gassifica” legna o altri materiali in una camera chiusa portata a 400° C
in assenza totale di ossigeno e senza la tipica turbolenza di un bruciatore
tradizionale. Il gas (gas di sintesi: syngas) che si produce dalla
“sublimazione” dei materiali da gassificare viene quindi bruciato con irrisoria
produzione di residui (polveri sottili, nano-particelle, diossinosimili ecc.)
per far girare una turbina.
In caso dell’utilizzo di legna come biomassa il syngas
ottenuto può essere invece utilizzato direttamente in un motore per generare
elettricità. Altrimenti il calore prodotto bruciando il syngas viene utilizzato
per portare un liquido in ebollizione e far girare la turbina.
Il sistema della gassificazione è quindi il più pulito
fra i trasformatori di biomasse, unico inconveniente della pirolisi è la
formazione di concrezioni catramose all’interno della camera di gassificazione
che necessita quindi di periodiche manutenzioni. Il catrame prodotto è poi un
rifiuto speciale e deve essere smaltito in discarica, ma in parte può essere
riutilizzato nel processo successivo.
L’avvio del procedimento di gassificazione ha
necessità di un “innesco” tradizionale con gasolio o altro combustibile che non
può superare, per legge, il 5% della biomassa utilizzata.
Un terzo sistema, appena uscito dalla fase
sperimentale e che si avvale di un complesso software di controllo e
regolazione, prevede invece la presenza di moderate quantità di ossigeno
durante la formazione del syngas al fine di ottenere una trasformazione
completa della biomassa in syngas, con produzione finale solo di cenere senza
residui catramosi.
I vantaggi delle gassificazione rispetto alla
combustione tradizionale sono evidenti: poiché sono praticamente assenti
polveri sottili, diossine, fumi o residui di combustione e soprattutto la
qualità degli scarichi cambia poco se ad esempio si passasse dalla legna al
CSS, in entrambi i casi ciò che si brucerebbe non sarebbe mai il materiale “tal
quale”, come nei bruciatori tradizionali, ma sempre e solo il syngas in cui si
sono trasformate le due biomasse.
Questi gli inquadramenti tecnici, diverse sono invece
le valutazioni ambientali, tutte a favore della gassificazione sul piano
dell’impatto ambientale dei residui di combustione, anche se sorge spontanea la
domanda: ma la legna dove si prende? C’è stato un gran fiorire in questi ultimi
mesi di proposte d’impianti a biomasse, ma non si è mai identificato con
precisione dove s’intenda procurarla, solo in caso di ammissione a VIA (anche
d’impianti di dimensione inferiori ai 200 Kw) bisogna fornire più dettagliate
informazioni sugli approvvigionamenti. Allo stato attuale va ricordato che
questi ultimi, anche in caso di bruciatori tradizionali, non sempre sono
obbligati a dotarsi di impianti per il trattamento dei fumi se bruciano
cippato, cosa quest’ultima che li rende particolarmente invisi alla popolazione
residente. Non va dimenticato infatti che un impianto di “soli” 200KW consuma
dalle 6 alle 8 tonnellate di legna al giorno (quando è legna!) con una
produzione di polveri sottili ed inquinanti non indifferente. Senza ignorare
inoltre che i fumi di tali impianti possono cambiare il microclima locale
favorendo la formazione delle nebbie nelle giornate umide e prive di vento.
A queste considerazioni va anche aggiunto che i limiti
di polveri sottili e nano particelle prodotte dai fumi previsti nella
legislazione italiana sono ben al di sopra di quanto raccomandato dall’OMS. Se
consideriamo poi la diffusissima pratica in Italia di avere “aree industriali
(o artigianali)” alle porte di paesi anche con meno di mille abitanti e quindi
spesso consentendo che tali installazioni, ma anche di dimensioni maggiori,
possano essere posizionate alle porte dei centri abitati.
Suggerimenti
Gli impianti a biomasse dovrebbero essere quindi
localizzati, specie se di tipo tradizionale, cioè a combustione diretta e non
tramite la produzione di syngas, o in ambiti strettamente connessi alle
attività produttive che generano rifiuti utilizzabili quali “biomasse”
(segherie) e quindi di modeste o
modestissime dimensioni (50-100 KWh), tenendo conto della loro incompatibilità
con abitazioni o attività lavorative limitrofe. Alcuni comuni italiani hanno
deliberato a tale proposito di prevedere tali impianti solo a distanze
superiori a qualche chilometro da insediamenti abitativi.
Interessante sarebbe comunque una loro applicazione,
specie da parte di enti pubblici, “in sostituzione” di impianti tradizionali a
gas o a gasolio per la produzione di energia o di calore. Ferme restando
comunque tutte le considerazioni fatte sulla necessità di tutelarsi comunque
dalle emissioni per ragioni di salute pubblica.
Vanno inoltre chiarite le fonti degli
approvvigionamenti delle materie prime, spesso si è tentato in un recente
passato di “puntare” al disboscamento di aree demaniali se non addirittura
protette proponendo improbabili “ripuliture” dei boschi o degli argini
fluviali.
IL RISPARMIO ENERGETICO
Relativamente al risparmio non c’è
molto da dire, ma tutto da fare. Quello del risparmio energetico deve essere,
per le Amministrazioni e per il cittadino, soprattutto una forma mentale, una
pratica quotidiana che deve diventare spontanea non tanto e non solo fra le
mura domestiche, ma sempre, soprattutto sui luoghi di lavoro dove maggiore è il
danno dovuto all’indifferenza e quindi allo spreco. Per risparmio energetico
bisogna comunque ricordare che non si tratta solo di energia elettrica, ma
anche e più spesso di risparmio di calore. Si sottovaluta infatti che il
deficit energetico nazionale è dovuto, soprattutto nei mesi invernali, ai costi
del riscaldamento degli spazi abitativi e lavorativi.
L’energia elettrica in Italia costa
circa un terzo in più della Germania ed ancora più rispetto alla Francia.
Questa situazione, com’è noto, è dovuta anche alla scelta, certamente
condivisibile, di non avere centrali nucleari nel nostro Paese, ma anche al
fatto che per troppi anni si è consentito che il monopolio energetico esistente
non attivasse concorrenza e non stimolasse la ricerca e la produzione di
soluzioni energetiche differenti da quelle tradizionali.
In questa situazione, di forte
dipendenza energetica dall’estero, ed anche del grande costo della medesima nel
nostro Paese, non è possibile che si sprechi energia. Come sappiamo però sono
soprattutto le industrie le grandi divoratrici di energia ed in questo il
nostro Paese è penalizzato un’altra volta a causa della “forbice” in cui viene
a trovarsi fra impianti industriali non moderni, e quindi dispendiosi di
energia, ed una classe industriale, ormai ridotta all’osso, che in questi
ultimi decenni si è fatta troppo spesso affascinare più dalla finanza che dalla
produzione.
Nel caso dei comuni minori, il
risparmio energetico, nella piccola dimensione del comprensorio, avendone le
risorse, può essere affrontato promuovendo, per le vecchie costruzioni, il
miglioramento della tenuta degli edifici con un contributo elargito ad hoc, ma,
nell’attuale situazione, si possono solo promuovere regole edilizie più
restrittive sull’efficienza energetica delle nuove costruzioni e buone pratiche
del risparmio a cominciare dalle scuole con dei tour d’informazione,
comprendendo anche tutte le strutture pubbliche.
sono alla ricerca di prestito da molti mesi ma ho mai avuto quello. Se avete bisogno di prestito di denaro o contattato signora CINZIA Milani, poiché j hanno quindi ottenere il mio prestito di 45.000€ la settimana passata per signora CINZIA Milani. All'inizio io n non hanno creduto che lo aiuterà ma è l'opposto. Ho visto una prova su lui non fare il sig. Charles Héros; La Sig.ra Muller Edwige Mme e Bernice julien così io laico contattato ed ho trovato soddisfazione esistono molti prestatori particolari. Voi che siete in situazioni difficile
RispondiEliminaIndirizzo mail: cinziamilani62@gmail.com