venerdì 28 novembre 2025

Aree interne. Il problema dell'abitare...

 


Quando si parla di diritto all’abitare il riferimento è quanto accade nelle grandi città. Ma tra le tante cause a rendere difficile il ritorno nella montagna di mezzo e nelle aree interne è proprio la disponibilità di alloggi, nonostante gli immobili vuoti e inaccessibili. Mancano i dati per comprendere l’entità del fenomeno, a cui dedica attenzione un rapporto di Oxfam Italia.

Per una famiglia italiana, ormai, quasi il 40% della spesa mensile si concentra sull’abitazione, tra affitto o mutuo e utenze. Il dibattito sul problema-casa è tornato in modo prepotente, complice la trasformazione delle aree urbane legato al fenomeno degli affitti brevi e la pubblicazione di alcuni testi divulgativi di grande impatto, come “L’Italia senza casa” di Sarah Gainsforth o “Città in affitto” di Gessi White, usciti entrambi per Laterza. C’è però, nel dibattito pubblico, uno strabismo che non permette di osservare ad oggi una parte considerevole del problema, legato all’accesso alla casa nella montagna di mezzoin quei territori classificati come aree interne che pure potrebbero tornare ad ospitare persone espulse dalle metropoli o che in città non vogliono più stare
 

Un problema che finalmente viene messo in luce nel rapporto di Oxfam Italia dedicato al tema, “Diritto alla casa. Non per tutti”. Lo fa andando a descrivere il paradosso dei “vuoti”, cioè delle case non occupate, che sono in tutta Italia ben 9.581.772 e che corrispondono al 27,2% delle abitazioni complessive. Questo dato, spiega Oxfam, sembra negare l’emergenza abitativa, ma “in realtà è il riflesso di un Paese spaccato e le cui ragioni sono principalmente individuabili nello svuotamento delle aree interne, nella crisi demografica, nella difficoltà di manutenzione e ristrutturazione di molti immobili che per essere adeguati agli standard abitativi e di efficientamento energetico attuali richiederebbero interventi molto costosi, nonché dal clima di sfiducia reciproca fra proprietà e locatari, derivante da una legislazione che non garantisce né l’una né gli altri dai comportamenti lesivi della controparte”.

“L’inutilizzo delle case, sul mercato privato, è attribuibile – spiega il rapporto – a diverse dinamiche come l’emigrazione e lo spopolamento delle aree interne, la presenza di seconde case in località turistiche e strategie di investimento anche in prospettiva di trasferimento intergenerazionale della ricchezza immobiliare.

Come fa notare Oxfam, “le conseguenze sociali ed economiche impongono una seria riflessione su come rimettere in circolo questi vuoti sia per contenere l’allarmante abbandono delle aree interne, sia per evitare l’avanzamento della cementificazione ovvero l’utilizzo di suolo per favorire nuove costruzioni, sia per valorizzare un enorme capitale attualmente immobilizzato“.

Abitare i vuoti, tornare ad occupare le case libere nell’Italia più lontana dai centri che erogano servizi, obbliga ad uno sforzo ulteriore: “il disagio abitativo – sottolinea Oxfam – è anche connesso alla mancanza di servizi essenziali in determinati contesti territoriali, come ad esempio in alcune periferie delle grandi città o nelle aree interne. Per rispondere al disagio abitativo le persone hanno cercato di farvi fronte adattandosi ad abitazioni sottodimensionate rispetto alle proprie esigenze, accettando di vivere in alloggi mancanti di adeguata manutenzione e con conseguenti inefficienze energetiche, o ubicati in zone fortemente periferiche o ancora ricorrendo ad eccessivo indebitamento.

Le indicazioni di policy che chiudono il rapporto così chiedono di “incentivare il recupero e la riconversione del patrimonio privato inutilizzato o sottoutilizzato (incluso il patrimonio in disuso degli enti religiosi) adottando ad esempio misure dissuasive nei confronti di chi lascia l’immobile inutilizzato e premianti per chi sceglie di metterli in locazione di lungo periodo“. Nel recupero di spazi per l’abitare in zone interne o periferiche, invita poi a “prevedere la riqualificazione anche dei servizi connessi che rendano possibile la pendolarità con centri nevralgici per l’attività economica e produttiva”. È un altro modo di intendere l’abitare che Mauro Varotto definisce “appenninismo” nel suo intervento nel libro “Montagna a bassa definizione” (Donzelli, 2025), invitando a considerare l’abitare un verbo di moto, cioè collegato alla mobilità e capace di superare “quelle riduzioni dell’abitare all’oggetto edificio e alla permanenza in un solo luogo”, un’idea di casa e dell’abitare storicamente molto poco montanaro.

Resta in ogni caso evidente che per ri-abitare la montagna servono case a disposizione. E i pochi dati a disposizione confermano che non è l’esperienza di una singola famiglia quella racconta da Emiliano Cribari nel libro “Soltanto d’Estate” (Bottega Errante edizioni). Il tema poco a poco sta entrando anche nel dibattito pubblico: la casa in Appennino è stata, ad esempio, al centro della riflessione della Scuola di ecologia politica di montagna, organizzata dal 10 al 12 ottobre a Castiglione dei Pepoli (BO). Sarebbe così fondamentale, per il futuro prossimo, che le istituzioni responsabili raccolgano e garantiscano l’accesso a dati statistici puntuali che permettano di cogliere il fenomeno. Non è così, ad esempio, per gli ultimi report Istat dedicati al tema dell’abitazione, come quelle sulla spesa per consumi delle famiglie, sui prezzi delle abitazioni e sul numero delle compravendite, le cui tavole si limitano ad offrire dati aggregati a livello regionale o, al più, scorporando quelli che riguardano tutte le città e i Comuni sotto i 50mila abitanti.

Luca Martinelli

Articolo pubblicato su l’Altramontagna ripreso da Salviamo il Paesaggio




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