Quanti secoli ci son voluti per passare dall’olivastro, la pianta selvatica originaria, e giungere sino all’olivo, ricco di baccelli gonfi di liquido benefico?
Forse se l’Italia non fosse stata ricca di olio, vino e farro non sarebbe mai sorta la civiltà latina e Roma non avrebbe mai illuminato il resto del Mediterraneo con la sua luce di giustizia e civiltà. Noi siamo tutti debitori alla cultura/coltura dell’olivo, simbolo di ogni bene. Basti pensare alle parabole di Cristo e prima di lui ai riti dell’antica mitologia pagana in cui l’olio e l’unzione erano il simbolo di guarigione spirituale e di consacrazione regale. “Unto” era un titolo ambito e denotante nobiltà in tutti i sensi…
Non come oggi che si pensa subito all’unto, sporco e sgradevole, appiccicatosi sugli abiti e da lavare al più presto con il detersivo chimico… dal profumo di varechina, non certo con il sapone naturale poiché il sapone “vero” è fatto appunto con l’olio d’oliva!
Ma andiamo per ordine…
Quest’anno a Treia la produzione di olio è calata per la siccità ed inoltre le olive sono bacate. In questi ultimi anni abbiamo seguito con crescente apprensione la sorte degli olivi pugliesi anch’essi “malati” e condannati alla eradicazione dallo stato e dalla UE. Eppure si sono manifestate diverse “guarigioni” in cui le piante hanno dimostrato di saper reagire, producendo nuovi germogli sani. Ma la coltura dell’olivo non è minacciata solo da “pests” e dalla UE, soprattutto è minacciata dalla incuria e dall’abbandono dell’agricoltura contadina.
In effetti la decadenza della cultura olearia in Italia era iniziata con la decadenza dell’impero romano… poiché l’olio arrivava dalle province imperiali… poi riprese un po’ dal Rinascimento sino all’800/900.
Ma la raccolta delle olive è oggi una tradizione che scompare. Fino ad un po’ di tempo fa era evidente che queste raccolte stagionali avessero un valore enorme per la comunità, e mica solo le olive… anche l’uva, le castagne, etc. In ogni paese c’era uno o più frantoi. Ricordo ancora la fila dei carri carichi di olive che stazionavano davanti alle mole, aspettando il turno, e poi la festa dell’olio nuovo in cui tutti decantavano il proprio prodotto come il migliore… facendolo assaggiare sul pane, annaffiato dai primi vinelli di torchiatura, quelli che si facevano mescolando il vino vecchio con il mosto e che perciò maturavano prima…
A partire da settembre sino a dicembre era tutto un andirivieni di carri, trattori ed ancora radi asini con le gerle addosso con l’uva ed infine il Re olio, che garantiva la sopravvivenza familiare per tutto l’anno. I vigneti venivano curati e corteggiati ma soprattutto gli oliveti erano le vere sedi della ricchezza e della sicurezza alimentare.
Ma oggi mi accorgo come tutta l’atmosfera sia cambiata, improvvisamente mi rendo conto di non aver sentito in giro odore di mosto, anche qui a Treia, un paese rurale delle Marche, quasi tutte le cantine vuote e silenti, appena appena qui a fianco del nostro Circolo vegetariano di Treia ne resiste una, quella dell’anziano prete Don Vittorio, dove si osservano ancora cumuli di vinacce fresche. Ma quest’anno in giro per il paese non si vede alcun trattore con sacchi di olive, sarà anche che a curare la terra son rimasti solo anziani, e pian piano con la vecchiaia incipiente sempre più sento dire “Oh quest’anno le olive sono poche e brutte e malate, non le ho nemmeno raccolte…” – “Oh, la vigna l’ho tagliata, non c’era più nessuno che se ne prendesse cura…”… Persino gli alveari che sino a vent’anni fa erano il modo più facile per ricavare un dolce frutto, senza molta fatica, vengono dismessi…
Quanti anni ancora ci restano prima della definitiva fine di questo mondo? E Poi?
Paolo D’Arpini - Rete Bioregionale Italiana
Pane bruscato, una sfregata d'aglio, una presa di sale, e olio
Quanti secoli ci son voluti per passare dall’olivastro, la pianta selvatica originaria, e giungere sino all’olivo, ricco di baccelli gonfi di liquido benefico?
Forse se l’Italia non fosse stata ricca di olio, vino e farro non sarebbe mai sorta la civiltà latina e Roma non avrebbe mai illuminato il resto del Mediterraneo con la sua luce di giustizia e civiltà. Noi siamo tutti debitori alla cultura/coltura dell’olivo, simbolo di ogni bene. Basti pensare alle parabole di Cristo e prima di lui ai riti dell’antica mitologia pagana in cui l’olio e l’unzione erano il simbolo di guarigione spirituale e di consacrazione regale. “Unto” era un titolo ambito e denotante nobiltà in tutti i sensi…
Non come oggi che si pensa subito all’unto, sporco e sgradevole, appiccicatosi sugli abiti e da lavare al più presto con il detersivo chimico… dal profumo di varechina, non certo con il sapone naturale poiché il sapone “vero” è fatto appunto con l’olio d’oliva!
Ma andiamo per ordine…
Quest’anno a Treia la produzione di olio è calata per la siccità ed inoltre le olive sono bacate. In questi ultimi anni abbiamo seguito con crescente apprensione la sorte degli olivi pugliesi anch’essi “malati” e condannati alla eradicazione dallo stato e dalla UE. Eppure si sono manifestate diverse “guarigioni” in cui le piante hanno dimostrato di saper reagire, producendo nuovi germogli sani. Ma la coltura dell’olivo non è minacciata solo da “pests” e dalla UE, soprattutto è minacciata dalla incuria e dall’abbandono dell’agricoltura contadina.
In effetti la decadenza della cultura olearia in Italia era iniziata con la decadenza dell’impero romano… poiché l’olio arrivava dalle province imperiali… poi riprese un po’ dal Rinascimento sino all’800/900.
Ma la raccolta delle olive è oggi una tradizione che scompare. Fino ad un po’ di tempo fa era evidente che queste raccolte stagionali avessero un valore enorme per la comunità, e mica solo le olive… anche l’uva, le castagne, etc. In ogni paese c’era uno o più frantoi. Ricordo ancora la fila dei carri carichi di olive che stazionavano davanti alle mole, aspettando il turno, e poi la festa dell’olio nuovo in cui tutti decantavano il proprio prodotto come il migliore… facendolo assaggiare sul pane, annaffiato dai primi vinelli di torchiatura, quelli che si facevano mescolando il vino vecchio con il mosto e che perciò maturavano prima…
A partire da settembre sino a dicembre era tutto un andirivieni di carri, trattori ed ancora radi asini con le gerle addosso con l’uva ed infine il Re olio, che garantiva la sopravvivenza familiare per tutto l’anno. I vigneti venivano curati e corteggiati ma soprattutto gli oliveti erano le vere sedi della ricchezza e della sicurezza alimentare.
Ma oggi mi accorgo come tutta l’atmosfera sia cambiata, improvvisamente mi rendo conto di non aver sentito in giro odore di mosto, anche qui a Treia, un paese rurale delle Marche, quasi tutte le cantine vuote e silenti, appena appena qui a fianco del nostro Circolo vegetariano di Treia ne resiste una, quella dell’anziano prete Don Vittorio, dove si osservano ancora cumuli di vinacce fresche. Ma quest’anno in giro per il paese non si vede alcun trattore con sacchi di olive, sarà anche che a curare la terra son rimasti solo anziani, e pian piano con la vecchiaia incipiente sempre più sento dire “Oh quest’anno le olive sono poche e brutte e malate, non le ho nemmeno raccolte…” – “Oh, la vigna l’ho tagliata, non c’era più nessuno che se ne prendesse cura…”… Persino gli alveari che sino a vent’anni fa erano il modo più facile per ricavare un dolce frutto, senza molta fatica, vengono dismessi…
Quanti anni ancora ci restano prima della definitiva fine di questo mondo? E Poi?
Paolo D’Arpini - Rete Bioregionale Italiana
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