sabato 23 febbraio 2013

Ecosistema coltivato: selvatico ed agricoltura bioregionale


Danza bioregionale

Ciao Paolo, ti invio il seguito del primo articolo che mi hai pubblicato. (vedi http://bioregionalismo-treia.blogspot.it/search?q=alberto+grosoli)

D’Arpini, arpini, Arpino e l’ Arpinate, mi suonava in testa come una parola già nota, chi era costui? Fantastico google, ha dissetato il mio lapsus di memoria, chi è l’Arpinate per eccellenza? È quel Marco Tullio Cicerone le cui versioni mi toccava tradurre dal latino al ginnasio, ma del  quale mi rimase impresso a vita il suo alto concetto di Agricoltura quale arte e scienza, primaria occupazione dell’uomo libero eccetera. Questo, ti dirò, diede anche forza alla mia scelta di continuare la mia tradizione di famiglia in cui l’essere agricoltori era vissuto non con la vergogna di essere zotici, villani, bifolchi e bovari, ma con un certo orgoglio …. Scusa il divago … un saluto, Alberto Grosoli




L’ECOSISTEMA COLTIVATO: SELVATICO E AGRICOLTURA  BIOREGIONALE (2° parte)

“Nella Catena Alimentare non produciamo nulla, siamo commensali, ospiti alla mensa di Madre Terra”: così ho concluso la prima parte di questo scritto, ed in sé questo era vero per i nostri antenati cacciatori e raccoglitori i quali trovarono nutrimento e materie prime rinnovabili necessarie alla loro sopravvivenza nell’ambito degli ecosistemi naturali, in particolare in quello del pascolo, nelle fasce temperate del pianeta.

Ed è vero anche oggi, in quanto non è l’uomo che crea direttamente i propri alimenti, anche se modifica batteri, piante e animali in laboratori di genetica e si crede dio in terra, ma la Natura stessa, la quale, come da sempre, vi provvede benigna: l’uomo semplicemente interviene ed assiste al processo produttivo naturale, ne asseconda le  dinamiche ed i cicli, lo dirige ai fini voluti.  Pone un seme nel terreno smosso, il quale  germina perché ogni seme germina comunque per propria funzione, venga posto da mano umana o sia caduto al suolo dalla pianta madre. Ogni  fattrice avrebbe i propri vitelli e ogni gallina farebbe comunque le uova, fossero liberi in natura, a prescindere dall’allevatore. Coltivare è un atto di cooperazione con Madre Terra, di cui siamo custodi guardiani e non padroni assoluti, che avremmo il dovere morale di consegnare alle nuove generazioni, ai nostri figli, migliore di come l’abbiamo ricevuta dai nostri padri. Così la pensava anche mio bisnonno, a cui dobbiamo, suo figlio, suo nipote ed io ultimo l’eredità delle nostra pur poca terra e della tradizione del viverci da contadini.

Riprendendo il filo del discorso precedente riguardo al terreno incolto che si rigenera a riformare tendenzialmente un ecosistema selvatico, il processo naturale prevede che sia il bosco, alla fine, a prevalere, se non viene disturbato non solo dall’uomo, ma anche da un certo tipo di animali, gli erbivori, il cui habitat non è la foresta, ma il pascolo.

Se un cervo o un capriolo frequentano quel terreno, ruminanti come la capra selvatica, o una lepre, ne provvederanno a brucare ogni germoglio di pianta o cespuglio forestale sia perché si nutrono come ogni erbivoro pure  di fogliame e cortecce tenere, ma perché questa opera di disboscamento precoce è in funzione al creare il loro ambiente ideale: la radura soleggiata in cui crescono le erbe foraggere, in cui si forma  il prato stabile naturale, ricco di essenze diverse, non solo altamente nutritizie ma anche salutari per il benessere animale.
Altro fattore del tutto naturale nella creazione di radure a pascolo è l’incendio accidentale della foresta, per fulmine, e su un terreno bruciato la prima essenza vegetale a ricrescere è un manto erboso, che attira gli erbivori.

Un pastore mi diceva che le sue pecore non rimangono pregne  se pascolano erba di sottobosco, cresciuta all’ombra, hanno bisogno di foraggi che prendano dal sole tutta l’energia diretta. Inoltre, l’humus forestale è acido, vi crescono solo funghi, fragole, sorbi, alberi da bacche e ghiande, l’erba è amara, gli zuccheri si formano meglio in piena luce.
All’analisi chimica i parametri di fertilità organica dell’humus forestale presentano un medio alto rapporto carbonio/azoto, una media capacità di scambio minerale tra suolo e radici, una mineralizzazione rapida, una umificazione completa della materia vegetale che però è più o meno stabile. Un suolo forestale messo a coltivazione può rendere qualcosa per un breve periodo, la qualità del prodotto non è eccellente, la fertilità si esaurisce in fretta anche per dilavamento ed erosione, può avere forti carenze di calcio e magnesio. D’altra parte anche un humus di sole foglie, lignine ed erba ha poco potere nutritivo, se si fa un compost di questi materiali per l’orto, un grande cumulo si riduce a meno del dieci per cento della sua massa iniziale, ha un basso coefficiente isoumico in termini tecnici, non ha un grande effetto nel suolo, è acido ed andrebbe bilanciato con cenere, alcalina.

Il terreno aperto pascolato dagli erbivori invece, la prateria, presenta altre caratteristiche biochimiche e fisiche, è armonico tra acidità ed alcalinità, ha il potere di mantenere questo equilibrio e tamponarne gli eccessi in un verso o nell’altro, il rapporto carbonio/azoto è anch’esso bilanciato, la capacità di scambio degli elementi minerali con le radici è ai massimi livelli, il complesso argilla humus è stabile, l’umificazione completa e la mineralizzazione lenta, la struttura è sciolta, è ideale per la crescita di un certo tipo di piante alimentari selvatiche per il bestiame stesso, il quale contribuisce quindi a creare il proprio habitat o ecosistema e a produrre il proprio nutrimento.

Che non consiste solo di erbe foraggere,  fogliame e cortecce tenere, ghiande, ma, attenzione, anche di cereali, di vegetali molto zuccherini nelle foglie e radici, di tuberi, leguminose, di frutti dolci: tutti, allo stato selvatico furono originariamente loro nutrimento e lo sono ancora oggi. Si provi a lasciar libero un erbivoro domestico e si vedrà che, dopo una qualche distratta boccata d’erba, punterà dritto all’orto o alla vigna o al frutteto. Quando mai la soia Monsanto della moderna dieta “unifeed” è stata alimento forzato del bestiame da 200 milioni di anni a questa parte?

E non è che la Natura  producesse spontanea questi vegetali ovunque, nei boschi, nelle pietraie o sulle spiagge del mare: questi alimenti crescevano solo ed esclusivamente nei pascoli transumanti del bestiame selvatico, nelle praterie e in particolare nelle golene fluviali, ricche di acqua, di cui anche gli animali tutti hanno un gran fabbisogno, è gratuito dono di Natura e tendono questi ad affollarsi dove ce ne sia in abbondanza, presso le rive di fiumi, laghi, stagni e paludi.

Qual è il fattore chiave della fertilità organica di questi terreni? Sono i letami degli erbivori, oltre alle loro carcasse decomposte al suolo, alle loro pelli, ossa, corna, unghie, sangue, misti a materia vegetale decaduta. Tra i concimi organici “antichi”, che ancora oggi pur a fatica si possono trovare, ci sono il cornunghia, la farina d’ossa, la farina di sangue, i cascami torrefatti di cuoio.

Gli erbivori ruminanti, attraverso il loro particolare metabolismo, trasformano la materia vegetale in humus fertile definito scientificamente anche humus delle praterie o humus agrario, sinonimi perfetti, e solo su questo tipo di humus, per le sue specifiche caratteristiche biologiche e fisiche, crescono bene, in salute e nutritivi, quelli che sono i nostri alimenti vegetali primari, oggi addomesticati, selezionati e migliorati talvolta, o peggiorati, che derivano da quelli selvatici originari: cereali, ortaggi, legumi e frutta.

Questa funzione di produttori di humus fertile è in particolare propria degli erbivori ruminanti, poligastrici, di quelli cioè che hanno tre sacche ruminali oltre allo stomaco, le corna e l’unghia bifida. Nelle tre sacche ruminali la materia vegetale viene scomposta da batteri, funghi e protozoi di ceppi che si trovano normalmente anche sul terreno, si sono adattati alle condizioni anaerobiche dei rumini, vengono ingeriti con il pascolo ed espulsi in parte con il letame. Trasferire bestiame bovino su altri terreni e pascoli lontani, nutrirlo con altri foraggi può causare problemi digestivi agli animali, se nei rumini non ci sono i batteri autoctoni adatti al processo metabolico. Il ruminante è quindi in simbiosi con il terreno che li produce, con i vegetali che vi crescono e di cui si nutre, i quali ritornano al suolo in ciclo perenne come il più potente fertilizzante naturale.

In quel terreno, i foraggi sono per questi animali non solo più appetibili ed odorosi, ma anche più nutrienti e a vantaggio della loro salute. La buona erba e il buon fieno si avvertono nel gusto e colore del latte, del burro e del formaggio, nella qualità delle carni. In quel prato rivoltato con facilità dalla zappa o dall’aratro crescono un frumento grasso che fa profumare il pane ed ortaggi, legumi, frutta, sani e ricchi di sostanza e sapore.

I letami degli altri erbivori monogastrici, mammiferi ed uccelli come gallinacei e colombi, in sinergia con quelli dei ruminanti, sono gli altri concimi organici creati da Madre Natura, ricchi di azoto, fosforo, potassio e altri elementi minerali immediatamente assimilabili dalle piante i quali nulla hanno di inferiore a quelli chimici inorganici, che non servono a nulla se non a fare i profitti delle industrie petrolchimiche che li producono, al pari di diserbanti e fitofarmaci vari, con grande spreco di energia fossile ed elettrica, nonché di risorse naturali finite come gli idrocarburi fossili.

Un terreno ben dotato di humus fertile nell’ambito di un fondo agricolo a ciclo chiuso di bestiame e rotazioni, di sementi e piante autoprodotte ed adattate al tipo di suolo, non ha bisogno di tutte queste porcherie chimiche, il letame è la medicina della terra.

Alberto Grosoli


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Di questo e simili temi se ne parlerà a Vignola (Mo) durante l'Incontro Collettivo Ecologista del 22 e 23 giugno 2013 - Vedi bozza di programma:
http://riciclaggiodellamemoria.blogspot.it/2012/12/premesse-per-lincontro-collettivo.html

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