domenica 3 novembre 2024

Giochiamo a carte...?

 


Con la mano giusta si può vincere la partita ovvero, le quattro consapevolezze per far saltare il banco.


Picche o realtà data

Partiamo tutti alla pari. Nel senso che impariamo e ubbidiamo all’idea che la realtà è una soltanto, che è oggettiva e certa, sulla quale si può arrivare a dire there is no alternative, senza sentirsi beoti. Con questo principio di tutto, ci scivolano giù come uno sciroppo, tutte le idee ad esso connesse. Lottare per un posto al sole o anche al cesso, se necessario fino alla sopraffazione altrui, sempre senza sentirsi beoti, fa semplicemente parte della realtà. Che altro vuoi aggiungere? Chiede, libero da incertezze, sempre il beota. Un tipo, al quale, fa meraviglia, anzi, assurdità, quando gli dici che la responsabilità di tutto è sua.

Nella realtà data, mentire diventa perfino una dote, stavolta, senza scomodare Orwell e il suo ribaltamento di significati. Darsi da fare per apparire come non si è, ma si vorrebbe, è una specialità con la quale mendicare autostima altrimenti labile e latente e, per i talenti puri, anche a gonfiare il conto in banca.

Ci si può dedicare ad allungare questo elenco proprietà picche, fino allo sfinimento, stando semplicemente al davanzale ad osservare chi viene e chi va. Un’azione semplice, ma impedita a quelli del divano, i protagonisti della realtà data. Attori ligi al copione, disinteressati alla regia e, per questa, proni a tutto. Il tipo tengo famiglia ha sempre una Oscar in mano ed è sempre da loro giubilato.

Nella realtà di tipo picche è ordinario prendere posto in treno e sorbirsi le telefonate altrui, nelle quali sentire per un’ora il giro tondo di parole, intorno a una questione già chiara fin dalla prima tornata. Lo sperpero di dedizione a futilità non è contenibile e non è scomponibile in categorie sociali, culturali, politiche, professionali, di censo, di classe, di erudizione. Ad ascoltarli così concentrati e seri, sembra davvero abbiano a che fare con il tutto.

La realtà picche ha una moltitudine di sostenitori, tra cui la scienza per la quale, solo la misurazione, la scomposizione, l’analisi, la dimostrazione, la ripetibilità sono i requisiti della conoscenza e quindi della verità. Il peso, o l’incanto, della realtà data, è tale che quando il detentore del sapere ti dice che sei depresso, vai di buon grado a farti curare. L’accesso al sospetto che chiunque ha in sé il potere di modificare la propria vita, cioè la piena responsabilità, non è nel seme picche.


Fiori o realtà molteplice

Prendere coscienza della realtà picche, della trama di narrazioni che ce la fanno sembrare autentica, inequivocabile e certa, è il percorso lungo e irto per qualcuno o, immediato, per altri, necessario per riconoscere in che termini è vero che la realtà non è lì, di fronte a noi, come lo è un posacenere. Essa, che è piuttosto come attraversare un sūq affollato, dove scegliere quale carugio imboccare o bottega per comprare. Avere fretta o tempo da perdere sono condizioni che parlano del bazaar in modo differente. Sarà quindi solo la nostra descrizione, indotta da modi e ragioni molteplici, a reificare la realtà del mercato.

Prendiamo le reazioni, i pensieri, i sentimenti e le emozioni che tutti muovono e chiunque può vivere ed esprimere davanti al medesimo fenomeno. Si tratta di matrici con le quali, inconsapevolmente, a piacere, stampiamo la realtà. Un’inconsapevolezza duplice, visto che poi il mondo ci appare effettivamente mostrare le proprietà che gli abbiamo attribuito. E anche triplice quando pretendiamo che il prossimo la condivida con noi.

Il bello della realtà fiori, è osservare che non disponiamo di una cultura che ci educhi a vedere il fenomeno prima e l’investitura di realtà con cui lo strapazziamo a nostro gusto. È come non ci fosse alcun fenomeno, ma solo le proprietà che questo riteniamo presenti e il significato che riteniamo esprima. Da qui, deriva tutto il gorgogliare della psicoanalisi, a mio parere fuorviante linea di ricerca per l’autonomia e l’evoluzione personale. Perciò se dici checca qualcuno ritiene di avere il diritto di offendersi, perché a suo giudizio, quel termine è offensivo di per sé, anche senza chi lo dice e chi lo sente. Dell’attribuzione di qualità neppure se ne accorge, ora più che mai. Un po’ come dire che la Gioconda di Leonardo è bella per tutti e adesso, coi tempi che corrono, anche per legge.

Che la realtà non sia un oggetto e non sia di fronte a noi uguale per tutti, lo si può osservare in altre innumerevoli occasioni. È esperienza comune aver preso posizioni secondo circostanza, come se cogliessimo l’occasione per riempire un vuoto ed esprimere da quella prospettiva la nostra opinione, anche contraria con quanto affermato in altra situazione. Basta andare a scavare nel proprio passato per scovare quando abbiamo detto a ciò che in altri momenti abbiamo detto no; quanto abbiamo affermato e quanto ora prendiamo le distanze da quelle nostre considerazioni. Dunque, in funzione di una posizione se ne prende l’altra, senza vedere ciò che abbiamo sostenuto in altro momento. Il punto non è moralistico – la pretesa di coerenza è disumana – non è cioè il cambio di posizione, né rinnegare se stessi, ma è farlo senza avvedersene. La cui ragione non è che un ottimo e occulto espediente affinché la nostra morale possa essere sempre forte del suo giudizio, proprio come non avessimo mai sostenuto o fatto ciò che, in altro tempo e modo, stiamo colpevolizzando. Ovvero rimanere preda inerme della realtà picche.


Quadri o realtà illuminata

Perché per noi la realtà si reifica in un certo modo e non in altro? Una risposta disponibile fa riferimento ad un minimo comun denominatore culturale che domina il nostro immaginario. Si tratta dell’egoismo e dell’importanza personale che ne segue e che, ora con l’individualismo, troviamo alla sua massima potenza. Se l’egoismo saggiamente sfruttato non ci nuoce, quello inconsapevole, ovvero quello eletto a diritto inalienabile, non è che un impedimento a comprendere il mondo. Non quello deliberato dalla scienza ma quello relazionale.

Se un deliberato egoismo, costantemente al lavoro ci agisce secondo le sue necessità e bisogni, nel dualismo – regno degli opposti e delle parti – in cui ci troviamo, possiamo riconoscere che la sua antitesi è detta amore. L’azione egoica è destinata al bene individuale, quella d’amore, a quello collettivo. L’egoismo, indipendentemente dal bisogno concreto, comporta l’accumulo o lo sperpero, il necessario per difenderlo o dilapidarlo, diffidenza e avarizia generalizzata. Al contrario l’amore implica riconoscenza per quanto sì ha, dono e condivisione.

Ciò che ci interessa qui al simbolico tavolo del poker, è che, se riconosciamo nell’egoismo e nel suo implicato egocentrismo la matrice della storia grondante di sofferenza, saremo disponibili a riconoscere che emancipandoci dalla gogna egoistica-egocentrica, possiamo lasciare spazio all’amore di permeare le relazioni, le comunità, la cultura.

La lotta egoistica, di gran lunga più subdola di quella animale, può essere mitigata dalla morale solo parzialmente e temporaneamente, ma non permanentemente. Tantomeno da quella legislativa.

È necessaria quindi un’emancipazione strutturale, carnale, cristica, non intellettual-ideologico-moralistica. Non impegnarsi in questo processo ricreativo comporta mantenere il male dal quale siamo circondati. E nel quale saremo coinvolti ancor più alla prima buona occasione, così come ora vediamo essere coinvolti altri.

La realtà quadri o illuminata è quindi riconoscere che, se la responsabilità del cambio di paradigma da egoico/antropocentrico a quella olistico-organica è nostra, così come lo era per il male, ora lo diviene per il bene. Se ci lasciavamo guidare dal male, ora lasciandoci condurre dall’amore realizzeremmo un’altra realtà.


Cuori o realtà quantica

Le tre precedenti consapevolezze di realtà non sono sufficienti per vincere la partita della conoscenza, cioè per riconoscerne la natura. Ne è richiesta un’ulteriore, che riguarda la verità delle infinite realtà emergenti dalle descrizioni che ne fanno gli uomini. Per farlo è necessario tornare alle cosiddette emozioni. Non limitando il discorso a quelle eclatanti, ma estendendolo a quelle ben più segrete che tengono sempre le redini del nostro morso. Per esempio, condividere un’ideologia è condividere un’emozione.

Diversamente dal creduto, vederle come qualcosa che insorge e si esaurisce in noi, pare non basti. Sembra più opportuno vederle e concepirle come una forza dominante, ci pilota, ci sfrutta secondo la sua stessa esigenza. Esse latitano nello spazio in attesa del nostro impatto con un evento, pensiero e fatto. In quell’istante decantano in noi, conformando una realtà che viviamo come certa, in quanto corrisponde alla nostra descrizione. Rapiti da un’emozione, obbediamo al suo volere. Il resto diviene inutile e sparisce. Nessun argomento razionale è in grado di sottrarci al giogo di un’emozione, come invece è nel potere magico dell’ascolto e dell’empatia. Modalità idonee al cambio di emozione.

Accade anche con la memoria di un evento, che due persone hanno vissuto insieme e descrivono in modo differente. Non significa soltanto che la realtà non ha a che vedere con leggi razional-meccaniche che la vorrebbero oggettiva e una, ma con quelle magico-quantiche, che invece, permettono di osservarne la dipendenza da noi, da che la osserva-concepisce. Magico-quantiche significa che la realtà, con i suoi infiniti aspetti è latentemente pronta a divenire una soltanto con una sola e precisa forma, nonché qualunque altra purché al cospetto di qualcuno, delle sue esigenze, sentimenti ed emozioni.

Così diventa comprensibile come coloro che detengono la comunicazione vogliano farci credere che il sistema è buono, che dobbiamo seguitare ad obbedire, che stanno lavorando per il nostro bene. Ovvero, che lo strapotere di ricchezza di un’esigua minoranza non solo non è realmente combattuto ma è considerato più che legittimo, come non ci fosse alternativa.


Poker d’assi

I quattro assi contemporaneamente in mano, rappresentano l’arco di consapevolezze utile per una deriva verso una vita personale e sociale profondamente differente da quella che abbiamo ereditato e che, diversamente, perpetueremmo.


Scala reale o realtà socratica

Il poker, quantomeno quello che conosco, mi è sempre sembrato interessante per la sua efficacia nel rappresentare la vita. Ha poche regole, ma la dote di contenere simbolicamente molto di quanto accade agli uomini anche lontano dal tavolo di gioco. Il bluff e l’inesistenza di una giocata definitivamente superiore a tutte le altre, ne sono una sintesi potente. Sorprese, aspettative, speranze, tradimenti, inganni, raggiri, intuizione, ascolto, strategia, vanità, voluttà, sono alcune dimensioni umane che stocasticamente, ruotano tra le carte del mazzo.

Nel nostro caso, significa che anche con i quattro assi/consapevolezze in mano, sempre di faccenda umana si tratta, quindi ontologicamente parziale, mai assoluta. Attribuire loro qualche potere definitivo e qualche certezza garantita è inopportuno. Distrarsi, e concedere ad esso pieno potere è il solo punto di vulnerabilità di tutti noi, in tutti i giochi, in tutti i mazzi. Dunque, per esempio, la realtà picche o oggettiva c’è eccome in un campo chiuso, dove l’equivoco è soffocato dalla condivisione di regole, linguaggio e significati. È il mutuarla ai campi aperti delle relazioni che genera soprusi e scompigli. È non avvedersene che mantiene alto il vessillo del male. Così è vera la realtà quantica o magica, disponibile e/o obbligata a decantare in quel, e solo in quel, modo nel rispetto delle esigenze di chi la descrive.

Non tenere conto che la sola permanenza dell’esistenza è l’oscillazione, significa sempre credere che un poker d’assi ci permetta di vincere la partita della conoscenza o, più ancora, con la scala reale, ma anch’essa oscilla in una trinità: la massima batte la media, la media batte la minima, la minima batte la massima.

Credere nella conoscenza è una suggestione da divanista, è allontanarsi dal centro e dall’origine di tutto, è aver gettato ai porci la perla di Socrate.


Lorenzo Merlo



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