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domenica 16 settembre 2012

Beatrice Polidori: "Cogliere l'opportunità al momento giusto è tutto quel che possiamo fare... per crescere!"

Ananda Moy Ma 


Tutti quelli che si incamminano sul sentiero spirituale seguendo le istruzioni delle dottrine, le parole dei maestri, le pratiche tramandate, sono ammoniti che il cammino è irto di pericoli e che nessuno o solo pochissimi sono riusciti a compierlo senza l’ausilio di supporti e di istruzioni. In tutto questo c’è una buona parte di verità.

Però, se questo atteggiamento si fa preponderante, mettendo in ombra il ruolo fondamentale del ricercatore e del suo impegno, il risultato sarà quello di piegare la coscienza alla paura o alla dipendenza da figure esterne che ne produrrà l’insuccesso, anche con le migliori intenzioni. In realtà ciò che più di ogni altro elemento vincola la coscienza allo stato di nescienza è la paura.

E’ questo il sentimento con cui possiamo calcolare la profondità dei nostri attaccamenti, la potenza dei nostri fantasmi mentali, la debolezza delle nostre intenzioni. Se la paura diventa principio discriminante, lentamente ci troveremo in ostaggio della paura e lo spirito di ricerca soffrirà di irrigidimento, di chiusura e di senso di fragilità. Accanto ai continui inviti che dai testi dottrinari e dai discorsi dei santi invitano ad accostarsi solo a persone sante e sagge, meglio ancora a un maestro realizzato, una considerazione enigmatica rompe il convenzionalismo e indica una verità rischiosa: si può ottenere la realizzazione spirituale anche servendo un falso maestro, un truffatore. Così come un detto popolare recita: non esistono cattive madri, ci sono però cattivi figli. Queste parole sconvolgono la mentalità convenzionale dell’occidentale, che non si accorge di candidarsi ad una eterna dipendenza dalla “bontà” altrui.

Il solo luogo possibile della conoscenza spirituale è Dio – quell’Assoluto, indiviso, onni-pervadente, senza secondo; non vi è altri che Lui, che è l’Unità di tutto, Non-dualità. La coscienza di questa Unità è inizialmente una battaglia di principio che probabilmente è più feroce dentro la coscienza di un occidentale, che a qualsiasi principio accetti troverà una contrapposizione, cioè automaticamente disporrà il proprio orizzonte mentale a eleggere un principio a ideologia e disporre il resto in conflitto.

Perciò, se è vero l’assunto con cui siamo partiti, è ancora più vero che senza una presa di coscienza personale e trasformativa, cioè che scardini il principio duale della nostra mente, non è possibile parlare di alcun sostanziale conseguimento spirituale.

Se ci fosse possibile percorrere il camino senza sostegni ci troveremmo, come cantava Ashtavakra, a vivere semplicemente ogni cosa senza esserne scossi, a conoscerci già come puro conoscitore-inconoscibile e guardare la vita, gli dei, il cosmo e le istruzioni spirituali come uno spettacolo gioioso e tragico, fatto per essere ammirato, sofferto e dimenticato subito dopo.

La coscienza del ricercatore, invece, raramente parte da questo orizzonte, di più, solitamente è una coscienza contaminata dall’angoscia e dalla paura; quando ad angoscia e paura non si riesce più a dare un nome e una causa, finalmente si comincia a pensare che l’origine risieda dentro di noi e si stabilisce di lavorare con se stessi. Di fronte a questa radicale disfatta dell’io sul suo terreno è naturale che si prenda la decisione di affidarsi, di scegliere volontariamente che qualcuno ci possa manipolare e orientare.

Che cosa vince, in questo frangente, il bisogno di trovare una soluzione efficace ai nostri problemi o la paura di abbandonarci all’alto? Nel caso in cui la paura vinca sull’abbandono possiamo inferire che si abbia ancora troppo da perdere, o una valutazione di valore personale spropositata, cioè una tremenda fragilità dell’io.
Un io sano si fida. Per affrontare una istruzione nuova, un nuovo passaggio della propria vicenda spirituale occorre un io sano. In che senso si è sani abbastanza e di che cosa o di chi ci si fida propriamente? Un io sano è immediatamente quello che sa prendere le distanze da una mente malata, la propria, e che decide con freddezza e con serenità di aggiustare ciò che si è spezzato, inquinato o fermato.


Questa presa di distanza, che è la sola con cui si può prendere una decisione, è anche l’assicurazione di cui possiamo godere per il resto del cammino e la pratica che facilmente possiamo sviluppare nel tempo: la capacità di osservare le attività e le reazioni della mente con distacco, la pratica dell’Osservatore.

A questo punto sembrerà che inizio e fine coincidano: che importanza ha quello che mi accade se io sono già stabilizzato nella posizione dell’osservatore? Il problema sta nel fare in modo che si passi definitivamente e spontaneamente dall’osservatore di cose, fatti e misfatti, all’osservatore puro: alla contemplazione di Dio o alla pura consapevolezza di Sé. Cioè all’annullamento di qualsiasi differenza di io e tu e di qualsiasi diffidenza o paura che ne deriva.

Occorre perciò che la nostra pratica spirituale sia fonte di coraggio, non di ulteriori timori. Il coraggio sublime è la fiducia, non negli altri, non in qualcuno, non in una idea, non in un modello: la fiducia deve provenire dalla costante meditazione dell’Unità del divino, dell’unità tra Realtà e Dio, in cui l’unica componente estranea sono le divisioni e le paure sovrapposte dal comune pensare. Chi ha Dio nel cuore non cade. Ecco perchè un cattivo maestro vale come uno buono, se la coscienza è saldamente concentrata sulla Realtà Divina, se si è totalmente innamorati di essa.

E’ impossibile, si dice, truffare un uomo onesto. Perchè la coscienza sia così saldamente protetta e inattaccabile dalle malvagità che irrompono nel mondo della vita religiosa, come in ogni altra iniziativa umana, la sola difesa certa è la purezza. Non precipitate nella fretta di raggiungere degli obiettivi; una purezza superiore, dove decadano anche i gradi di discriminazione tra puro e impuro verrà a suo tempo e con i costi esistenziali relativi. Probabilmente c’è tempo e ci sarà modo. Osservate attentamente le piccole incrinature del vetro della mente da cui potrebbe penetrare l’inganno, ovvero l’auto-inganno. Si identificano in due grandi gruppi: la paura di soffrire e il desiderio di soddisfazione.

Queste sono le battaglie da vincere per raggiungere una coscienza davvero limpida, capace di contemplare Dio in ogni frangente della vita, persona o cosa. In questo momento storico è particolarmente difficile combattere le istanze della paura e del desiderio, per le sollecitazioni continue a desiderare e a temere.

Ma forse la saturazione che alcuni provano, il desiderio di vivere diversamente, possono guidare fino ad un certo punto, almeno oltre la paranoia e il superfluo. Poi occorre sciogliere quelle convinzioni che ci fanno credere di essere soggetti di un diritto/dovere alla paura e al desiderio – così che si possa cominciare a guardare la propria vita liberamente, cioè con vero distacco dai frutti, dal bene e dal male che ne ricaviamo.

Se c’è un pericolo nella nostra storia spirituale è costituito dalla debolezza e dal menefreghismo con cui ci trattiamo, trattiamo noi stessi, inettitudine che ci porta a ritrovarci “vittime” di circostanze avverse, persone o fatti. Ci sono dei prerequisiti, ben noti, che Shankara indicò per stabilire chi è idoneo a sostenere un cammino spirituale, senza mettere nei guai se stessi e gli altri, e sono: discriminazione tra reale e irreale, distacco dai frutti, possesso delle seguenti qualità: mente calma (sama), autodominio (dama), raccoglimento interiore (uparati), perseveranza (titksa) fede (sraddha), stabilità mentale (samadhana), aspirazione alla Liberazione.

Questi principi si devono considerare con la massima attenzione e impegno. Con il possesso di questi criteri si può affrontare molto, o tutto, restando sostanzialmente indipendenti, cioè non-dipendenti psicologicamente e moralmente, perfino servendo nelle condizioni più umili, anche nelle circostanze più difficili da controllare. Il conseguimento di questi requisiti occupa una parte prevalente del cammino spirituale.

Si cade in inganno quando si crede di potersi permettere un condono sul proprio impegno, dove si vuole avere tutto subito a basso costo o a costo zero. Come nella vita, qui scatta il pericolo della truffa.

Ma tutto ciò che sentiamo necessario va sperimentato con fiducia.

La strada non è razionale, non percorre i limiti del perbenismo e del dualismo.

Quando un’istanza si presenta, se ne colga l’opportunità, finché anche questa si riesca ad integrare nella Unità del Reale, nel suo continuo discorso, nella istruzione ininterrotta che ci rivolge e che qualcuno ha giustamente definito Amore. Si può cogliere l’opportunità di imparare e di liberare energie in qualsiasi circostanza – il centro e il perno del gioco siamo noi, è la coscienza che ci anima- e perciò diciamo che qualsiasi cosa può essere uno strumento di Dio.

Si tema solo la propria incertezza, la pigrizia mentale, il disimpegno, questi sono i veri truffatori dello spirito. Qualsiasi cosa ci dia l’opportunità di recuperare una parte del nostro sapere, dell’energia spirituale che normalmente rimane assopita a macerare nell’ombra, apprezziamo e ringraziamo questo evento, sotto qualsiasi nome o forma si presenti.

Beatrice Polidori



(Fonte: Turya - http://blog.visionaire.org/)


giovedì 17 maggio 2012

Spirituali​tà Laica: "Il credere è statico lo sperimentare è dinamico"

Entrata in scena di Paolo D'Arpini con figlia e nipoti


Il linguaggio non è solo semantica. Eppure c’è già all’interno della mente un “seme” che consente la comprensione di concetti sottili, che non hanno corrispondenza nel mondo materiale.

Ad esempio quando un bambino apprende a parlare ed a scrivere, non segue solo esempi concreti: tavolo, cibo, cane, etc. Vi sono pure i concetti e sentimenti che vengono “riconosciuti” intuitivamente, per una sorta di ammissione interna che va aldilà dell’esempio. In questo caso si presuppone che vi sia già una pre-conoscenza innata di tali concetti, il linguaggio insomma non è altro che descrizione di un qualcosa che abbiamo già dentro. La stessa cosa si può dire della conoscenza di vita.

La vita nasce dall’inorganico ma se non fosse già presente nella materia in forma germinale come potrebbe sorgere e trasformarsi in intelligenza e coscienza? Da ciò se ne deduce che la coscienza e l’intelligenza sono come una “fragranza” della materia e quindi non vi è reale separazione. La differenza è solo nella fase…. La vita è un’espressione manifestativa della materia.

Partendo da questa considerazione generale osserviamo che la spinta evolutiva di questa intelligenza/vita si evolve attraverso stati diversi di consapevolezza. Nelle forme pensiero esistono gradi descrittivi della maturità assunta da questa intelligenza. Tralasciamo per il momento gli aspetti più vicini all’animalità, all’istinto, e prendiamo in considerazione solo gli aspetti “filosofici” del pensiero umano.

Osserviamo che sia in occidente che in oriente vengono descritti gli aspetti separativi e unificativi del processo mentale (solve et coagula ovvero: “il credere è statico lo sperimentare è dinamico”).
In Grecia come in India si è parlato di pensiero duale e pensiero non-duale.

Nel pensiero duale (dvaita) viene inserita ogni forma cristallizzata separativa, come il teismo e l’ateismo. Queste due categorie infatti sono viste come sfaccettature della stessa conformazione separativa. Il teista è colui che crede in un dio separato da sé, lo immagina in veste di essere superiore e dotato di immensi poteri e vede se stesso come creatura alla sua mercé .

Il teista crede che la sua propria esistenza è consequenziale e secondaria al dio. L’ateo parimenti, crede di non credere, ovvero nega ogni sostanza all’ipotetico dio basando il suo credo sul relativismo materialista. Il teista e l’ateo sono arroganti affermativi della propria “verità” (presunta od immaginata). Ovviamente entrambe queste fedi si basano sulla piccolezza e separatezza dell’io ed abbisognano di uno sforzo continuo e costante per affermare o negare, un tentativo frustrante che comunque non prende in considerazione l’agente primo, l’io, se non in forma passiva e marginale. Questo modo di pensare duale è lo stesso sia per il religioso che per l’ateo materialista che crede in causa-effetto o nella fortuità del caso. E’ un percorso puramente speculativo, basato comunque sul credere, sul ritenersi piccoli elementi separati di un qualcosa che magari pian piano la scienza (o la religione) corroborerà.

Ma sappiamo che l’orizzonte è sempre più avanti… mai raggiungibile, insomma siamo persi nel nulla…. Nel vuoto.


La fase successiva dell’auto-conoscenza si definisce non-duale (advaita), in questo caso si inizia a tener conto del soggetto, della coscienza attraverso la quale ogni percezione e sentimento sono possibili, si riconosce nella consapevolezza la matrice della propria esistenza. In questa categoria si pongono l’agnostico e lo gnostico.

Alla base della ricerca dell’agnostico si pone l’esperienza diretta ed il superamento della concettualizzazione descrittiva. L’esperienza empirica viene portata alle sue estreme conseguenze con il riconoscimento della costante presenza dell’io nel processo implicato. Viene superato così il modello del credere in verità precostituite accettando la realtà intrinseca dello sperimentatore che esperimenta. Per cui non si affermata assolutezza, l’agnostico esprime sostanzialmente una spiritualità laica.

L’agnostico sa che non può esserci altra certezza che quella dell’esperimentatore ma allo stesso tempo non vi è ancora realizzazione definitiva. La coscienza individuale non si è fusa nella coscienza universale benché permanga l’intuizione dell’unità primigenia del tutto. Stando così le cose egli non può affermare, egli dice di non sapere, la sua è una saggezza in fieri, in maturazione.

L’agnostico non può più identificarsi con un nome forma specifica ed allo stesso tempo manca della pienezza e quindi resta equanime, non afferma e non nega. Ma il suo costante e continuo discernimento giunge infine ad una inaspettata e spontanea fioritura, e qui l’intelligenza individuale si scioglie, si ottiene la conoscenza di sé, la gnosi (jnana).

Lo gnostico (il conoscitore del Sè) non ha assolutamente bisogno di dichiarare alcunché, la sua realizzazione è totale e definitiva, la sua presenza non è limitata ad un nome forma, egli conosce se stesso come il tutto inscindibile dal quale ognuno di noi proviene e risiede.

Lo gnostico né sente il bisogno né ha mezzi per esprimere la sua esperienza, giacché il linguaggio umano è molto distante dall’esperienza diretta del sé. Infatti prima c’è la consapevolezza del sé, poi la coscienza dell’io individuale che assume una forma nello specchio della mente, quindi la riflessione del pensiero ed infine la descrizione del linguaggio parlato o scritto.

Il saggio non vede differenza alcuna, sa che la base è la stessa per ognuno (materia-spirito in continua trasformazione), egli “conosce” che la coscienza e l’esistenza sono inscindibili nell’assoluta unità (uno senza due). Ma la sua esperienza -che è la comune natura di tutti- può essere riconosciuta e percepita per spontanea simpatia dallo spirito maturo.

In questo processo a quattro fasi, fra dualismo e non-dualismo, si manifesta tutto il gioco della vita e della coscienza.

Paolo D'Arpini

domenica 18 marzo 2012

Lao Tze, Tao-te-king ed il Ritorno.... – La verità é una cosa molto semplice….

Canto in grotta - Paolo D'Arpini


“La verità non può essere perseguita, è sempre presente e manifesta, altrimenti non sarebbe verità ma semplice descrizione. E la descrizione non é mai la sostanza…” (Saul Arpino)

L’idea del “ritorno”, che costituisce uno degli elementi di primaria importanza nel Tao-te-king, affiora già nel Libro dei Mutamenti (I Ching).

Sotto l’esagramma Fu si legge: “Ritornare é pervenire al Tao..”.

Un commento attribuito a Confucio dice: “La ragione del Cielo é abbagliante e si abbassa sino alla terra. La ragione della Terra é umile e si eleva al Cielo. La ragione del Cielo diminuisce ciò che é elevato ed aumenta ciò che é basso. Gli spiriti nuocciono a ciò che é pieno e fanno del bene a ciò che è vuoto. La ragione del Cielo detesta ciò che é pieno di sé ed ama colui che é umile. L’umiltà é onorata e splendente: essa si abbassa e non può essere sormontata, essa é il fine del saggio!”

L’esaltazione della semplicità, descritta nel Tao-te-king preesisteva a Lao Tze. Un moderno filosofo cinese, Lang-si-ciao ritiene che il “non agire” taoista corrisponda alla “semplicità” dell’I Ching.

Se Lao Tze rielaborò alcuni pensieri già esistenti nella Cina antica e si valse di essi come pietre per edificare la montagna di Golconda del suo sistema filosofico, non é però detto -come alcuni studiosi sostengono- che tali concetti provenissero dall’antica India… E’ vero che la filosofia Vedica  sembrerebbe la più antica elaborata dall’uomo, e le sue implicazioni influenzarono il pensiero metafisico del mondo conosciuto. Ma questo é ciò che appare in quanto tale ricerca del vero risulta “codificata” nella memoria e quindi si fa riferimento ad essa come ad una “fonte”. Personalmente sono dell’opinione che sia il Taoismo che il Vedanta, entrambi di natura non-dualistica, fiorirono spontaneamente per logica propria.  Simili sistemi trovarono luce non solo in Cina ed in India ma pure in Europa, in Asia minore, in Africa e nelle Americhe. Tutto avvenne  a partire da quel periodo di “Fioritura Culturale” che potrebbe essere indicato nella fine del neolitico, con la scoperta dell’agricoltura e quindi dell’aumento delle risorse alimentari disponibili, che facilitarono lo sviluppo del pensiero  analitico concettuale ed artistico, ed è contemporaneo alla scoperta della scrittura. Alcune immagini non dualistiche sono riconoscibili, ad esempio,  nel pensiero ebraico  con “Io sono quell’Io sono” o nella filosofia presocratica…. con il concetto del “Tutto” che continuamente si svolge in se stesso.

Insomma inutile cercare ove il pensiero originale dell’Assoluto, “che tutto comprende e da cui tutto é originato ed a cui tutto ritorna” (inteso come superamento del teismo personale), sia apparso per la prima volta… si può invece supporre che tale filosofia sorga all’interno di varie famiglie umane, nel momento in cui la raffinatezza del pensiero raggiunge un culmine.

“Tutto é Uno e perfetto in se stesso”, affermano le Upanishad dell’India ed il perseguire il “perfezionamento” é solo la proiezione di un  concetto basato su un altro concetto… la verità é qualcosa di molto semplice….
 
E per finire un’invocazione di Chuang-tze: “Mio Maestro, mio Maestro, tu che distruggi senza essere cattivo! Tu che edifichi senza essere buono! Tu che fosti prima dei tempi e che non sei vecchio! Tu che copri tutto come il Cielo, che porti tutto come la Terra, che sei autore di tutto senza essere abile.. Comprenderti così, ecco la gioia celeste. Sapere che io sono nato per la tua influenza, che alla mia dipartita rientrerò nella tua Via, che riposando comunico allo Yin la tua modalità passiva, che agendo comunico allo Yang la tua modalità attiva: ecco la felicità suprema… L’azione dell’Illuminato si confonde con l’azione del Cielo, il suo riposo col riposo della Terra. Il suo saldo Spirito domina il mondo!”

Paolo D’Arpini    

…………………..

Commento di Caterina Regazzi: “…per essere astratto è astratto… e non ho capito il concetto del “ritorno”, anzi, ho riletto il pensiero per la terza volta e forse ora ho capito, come, dopo la seconda volta, forse ho capito tutto il resto…… Ma perché se “La ragione del Cielo detesta ciò che é pieno di sé ed ama colui che é umile. L’umiltà é onorata e splendente: essa si abbassa e non può essere sormontata, essa é il fine del saggio!”……. voi filosofi non scrivete in modo tale che anche l’umile ed il semplice possano capirvi?”

Mia rispostina: “..sapessi come dici bene …  sei completamente nel giusto… ma le parole non possono arrivare a tanto… solo il silenzio!”


......................

..E lentamente,
anche l’ultima notte
diventa
eterna
attraverso
il solco
bagnato di pioggia
che
in silenzio
si spegne
tra la neve bianca
dei ricordi
antichi…..
Parlaci ancora
di te,
lascia
che il seme
nella terra umida
possa sempre
far fiorire
il tempo
del perdono;
possa la tua
anima
disegnare
la storia
di ogni luogo
che visiterai,
possa
la fragile
mano che ora scrive..
raccontare
Paolo D’Arpini
e la bellezza
di un canto
sciolto tra
le note
di una chitarra..
e un fiume
che ha mille anime
abbracciate
strette
al cuore
dell’amato.

Antonella Pedicelli



Alla sorgente
Dipinto di Franco Farina