Nella comunicazione è da tenere presente un rischio di perdita di relazione con il nostro interlocutore.
Può accadere infatti che sentendo pronunciare una formula, concetto, termine, allocuzione che - qualunque ne sia il motivo - non sia già presente nella nostra privata realtà dialettica, lessicale, intellettuale, verbale, filosofica e pratica si perda immediatamente la relazione con il nostro interlocutore. A volte, proprio quel vuoto, può costituire stimolo, ma soltanto nel caso sussista un grande credito verso l'emissario e una grande motivazione propria. Diversamente, si cambia canale. Cioè l'attenzione e il credito tendono a cadere.
Per dire che anche il linguaggio ha da essere preso in considerazione per cercare di riconoscere quali passaggi possono provocare quell'interruzione e quindi provvedere all'uopo. Senza credere però che giocare d'anticipo permetta effettivamente di evitare l'equivoco, una eventualità che costituisce il vero standard della comunicazione. Una evoluzione sorprendente se facciamo riferimento alla bontà, genuinità, sincerità e buona fede della nostra emissione, ma che si mostra invece quasi lapalissianamente se riconosciamo e accreditiamo l'eventualità di essere di fronte ad una biografia la cui architettura può far risuonare le nostre intenzione in modo totalmente imprevisto.
"Identità bioregionale", per quanto contenitore di meravigliose dimensioni umane, diviene formula voluta, solo se ricreata. Diversamente, se come detto, non evoca in chi la sente proprio ciò che vorremmo evocasse, può provocare disorientamento, alienazione, paura, distanza, separazione, insoddisfazione. Può ridurre la stima di sé o dell'altro.
È anche in merito a questo tipo di dinamiche che nelle mie considerazioni non manco di accennare alla verità che l'esperienza non è trasmissibile, che la ri-creazione è processo necessario in sede della comprensione.
Peraltro, sono consapevole di essere il primo - nel mio dire e scrivere - a gettare in giro innumerevoli vuoti. Ma ne sono appunto più consapevole che no. Così, si può strumentalizzare a strategia quelle spagliate seminature per riconoscere alcune dimensioni dell'interlocutore, come procedere. Ma questa è altra questione.
Questo stesso testo è solo un tentativo di provocare comunicazione in sede di equivoco, soprattutto riguardo la mia identità, prospettiva.
In condizioni di ricezione e trasmissione non possiamo rinunciare a noi stessi. Diversamente non saremmo noi a trasmettere e recepire. Non solo. Anche in occasione di partecipazione all'Uno, ogni flusso che può scorrere in noi - quando la separazione ha ripreso posizione in noi - è poi tradotto attraverso la nostra identità, natura, biografia.
In questa misura non possiamo andare oltre la storia, oltre la nostra stessa biografia, natura, verità.
Anche in questa accezione, tende ad essere confermata l'ipotesi che nessuna verità è raggiungibile senza la nostra ricreazione, esigenza, sentimento. Ciò include altresì che nessuna verità può essere trasmessa. Forse con una sola eccezione. Quella che prevede che tra destinatario e emissario la differenza consista proprio in un solo ultimo gradino. Una specie di parola sulla punta della lingua. In quel caso il consiglio, il decalogo, l'ammonimento, realizzano se stessi. Come se il destinatario avesse proprio fame di quel cibo lì.
Se questa osservazione appare vera ed evidente in ambito contemplativo, cioè in quell'ambiente ove "tutto" si mostra lucidamente e convincentemente, tende a perdere di potenza man mano che le circostanze ci inducono ad una condizione di affermazione prima e di sopraffazione poi. È la condizione della passione.
Possiamo concepire un uomo spassionato? A parer mio, no. Dunque non possiamo essere in ascolto permanente. Non possiamo "sempre" essere disponibili ad attuare una comunicazione capace di modularsi permanentemente sui feedback degli interlocutori.
In questa misura colui che compie azioni diverse dalle nostre ha pari dignità.
In questa misura le azioni che compiamo, le verità che riteniamo non sono che dovute a circostanze dalle quali poi ce ne usciamo ritenendo di esserne stati protagonisti attraverso una logica da libero arbitrio, di perspicacia individuale. Da qui alla classificazione tra ciò che è bene e ciò che è male il passo, non solo è breve, ma è garantito. E rieccoci nella storia che vorremmo sublimare.
Se non possiamo dunque - se non arbitrariamente - ritenerci nel vero, possiamo quindi accreditare colui che apertamente si pone a favore di un aspetto della storia stessa. Non possiamo quindi non accreditare colui che si muove con stile e ordini del tutto lontani dal nostro.
Si apre forse allora la posizione del mistico eremitico. Quella che prende chi si trova inetto ad abbracciare un solo aspetto. Quella che avviene con l'intendimento di abbracciare il Tutto. Tuttavia anch'essa ha necessità di sopravvivenza. Ha perciò bisogno del dono di altri. Una condizione di dipendenza alimentata proprio da coloro per i quali aveva preso le distanze.
Allora è inopportuno concludere che ogni direzione di ricerca è nulla se non accompagnata da uno stato di serenità. Ovvero, uno stato di serenità non dipende da alcuna ricerca. A questo punto, non ti sembra che bene e male svaniscono? Non ti sembra che torni la storia come sola verità? Dunque che chi arriva ad imbracciare il fucile per modificarne la linea ne abbia diritto? Pari a colui che crede nell'amore?
Lorenzo Merlo
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Commento ricevuto:
HO LETTO L'ARTICOLO DI LORENZO MERLO.
DICIAMO CHE SE NON MI AVESSE PORTATO CURIOSITA', SICURAMENTE NON L'AVREI LETTO TUTTO.
E' SCRITTO IN MODO DIFFICILE, NON IMMEDIATO, OCCORRE UN ALTO GRADO DI ATTENZIONE E CONCENTRAZIONE PER SEGUIRE
IL SUO RAGIONAMENTO, PARI ALLA LETTURA DELLA LEGISLAZIONE ITALIANA, COMUNQUE IO,
CI SONO ABITUATA PER LAVORO, COSI' RILEGGENDO
QUA E LA QUALCHE FRASE E QUALCHE PASSO L'HO CAPITO
ANCHE SE NON LO SAPREI RIPETERE.
MI LASCIA COMUNQUE SCONCERTATA LA SUA CONCLUSIONE ....
"Dunque che chi arriva ad imbracciare il fucile per modificarne la linea ne abbia diritto? Pari a colui che crede nell'amore?"
E' ARRIVATO ALLE STESSE CONCLUSIONI DEL LIBRO CHE STO LEGGENDO, PERCORRENDO UNA STRADA INASPETTATA.
E ANCHE UN PO' .. TROPPO FORTE ... COME CONCETTO.
SICURAMENTE IL SUO GRADINO NON E' ALLA MIA ALTEZZA,
SE LUI SENTE IL BISOGNO DI ESPRIMERSI IN QUESTO MODO FORBITO PERCHE' COSI' SI SENTE REALIZZATO
"Non possiamo "sempre" essere disponibili ad attuare una comunicazione capace di modularsi permanentemente sui feedback degli interlocutori"
SONO D'ACCORDO, IL SE' VA REALIZZATO.
PERO' PENSAVO ..... SICCOME L'UNO ALLA FINE SONO ANCHE IO,
SICCOME LA MIA VERITA' E' ALLA FINE UNICA COME LA SUA .
CREDO CHE DIRE CHE:
SE ESISTE IL BUONO DEVE ESISTERE ANCHE IL CATTIVO
CHE QUELLO CHE E' AMORE PER ME E' ODIO PER UN'ALTRO
CHE OGGI IO VIVO IL GIUSTO E NELLA PROSSIMA VITA VIVRO' L'INGIUSTO
CHE QUELLO CHE ODIO OGGI DOMANI LO INCARNO
SI RITORNA SEMPRE ALL'UNO CHE DIVIDE PER POI TORNARE UNO
SONO RIMASTA COLPITA DALLE PAROLE imbracciare il fucile ..... !!!!!
LA STORIA CI INSEGNA CHE E' UN GIRONE INFERNALE ...... ED INUTILE.......
SOLO COMUNICANDO CON CHI CI STA VICINO
"la ri-creazione è processo necessario in sede della comprensione."
TUTTI INSIEME POSSIAMO RICREARE UN NUOVO MODO DI VIVERE IN UNA SOCIETA' FUTURA.
PECCATO CHE NELLA DUALITA' DEL NOSTRO SISTEMA.....
LA CONVIVENZA .. ossia comprensione ed amore per gli altri ..... SIA UN PASSO ANCORA DIFFICILE
PER UN GRAN NUMERO DI PERSONE ..... ME COMPRESA :-)
GRAZIE PER LE ORE CHE DEDICHI AL TUO GIORNALETTO.
RITENGO SIA UN ATTO D'AMORE PER I TUOI UTENTI ;-)
NELLY
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Risposta e precisazione di Lorenzo Merlo:
Grazie Nelly per le tue spontanee note. Le prendo a prestito per il prosieguo del discorso.
Effettivamente mi sento realizzato nello scrivere così, come si può osservare. Ma con un'accezione da precisare. Così come Nelly non avrebbe tendenzialmente letto righe di quel tipo, non risonanti con Nelly stessa, a lei estranee, alienanti, incapaci di provocarle un senso di realizzazione di sé - per via della stessa dinamica - ho potuto scrivere solo in quel modo. Cioè solo attraverso la realizzazione di me in quel modo, e non in altri. In altri modi non ne sarei capace e nonostante sia consapevole delle difficoltà che implica l'attuale mio modo di esprimermi. Se da un lato la realizzazione di sé implica una specie di cappio, vincolo, obbligo o necessità, dall'altro fa da premessa al principio che l'esperienza non è trasmissibile. Se non senti il "tè" giocando a calcio, girando intorno al fuoco, parlando inglese, semplicemente tendi a non farlo. Diversamente, si fa proprio ciò che tende a farci essere. Chi non segue il tracciato indicato dal proprio sé, tende a vivere situazioni di stress. Un territorio tendenzialmente privo di creatività e leggerezza.
Secondo la prospettiva che vorrei proporre, tutto ciò sta nell'affermazione che la "storia è l'unica verità". Come dice Nelly, si può riconoscere come arrivare ad affermare che "la storia ci insegna tanto". A mio parere è però da tenere presente che l'insegnamento, il sapere, non ha quasi peso rispetto al sentimento. Anche sapendo "tutto", agiremo secondo un solo sentimento, quello che staremo vivendo. Per questa semplice osservazione si può riconoscere perché la storia tende a ripetersi e il suo insegnamento tende a non poter essere sfruttato (se non per quanto riguarda i suoi aspetti tecnici). Sennò, come spiegarsi che la storia ci insegna tutto da sempre ma siamo ancora qui a dibatterci in dinamiche dalle quali si può facilmente osservare che è proprio quell'insegnamento l'assente principale?
Già Nietzsche aveva fatto presente che il sapere non ha alcun peso rispetto al sentire. Il sapere è relativo alle dimensione della realtà parcellizzata, il sentire all'Uno. Perciò, alla fine, "la storia ci insegna" è locuzione priva di peso e colma di retorica. È un luogo comune che, appunto la cultura del sapere, razionale, analitica, ha elevato a verbo e mito. Ma a ben guardare è opportuno aggiornarne il senso. Riconoscerne il contesto che l'ha generato. Viverne il suo significato storico, per potersene emanciparcene.
Ma chi lo farà, chi potrà farlo? Soltanto coloro che attraverso quel processo si sentiranno realizzati. Coloro che attraverso quel processo riterranno di proseguire la propria ricerca. L'unica nostra direzione, verità. Qualsivoglia cambiamenti, aggiornamenti, le si voglia innestare. Qualsivoglia cosa la storia voglia insegnarci.
Se la nostra verità o storia, ci induce in una certa direzione e se vogliamo eleggere a criterio superiore il rispetto dell'altro, l'ascolto, l'amore, mettere sullo stesso piano fucile e amore, non dovrebbe, teoreticamente, fare scalpore. Lo fa invece storicamente. Ogni biografia reagisce secondo le proprie possibilità, verità. Sconcerto nel caso di Nelly.
Non solo. Nelly è d'accordo nel ritenere prioritaria la realizzazione del sé. Penso si possa concludere che voglia offrire e garantire pari diritto a tutti. Vogliamo sospettare che una parte di questi "tutti" possa entrare in conflitto con Nelly? Personalmente tendo a ritenerlo fisiologico. La domanda è, quando Nelly vedrà minacciata la sua intima verità, identità, sopravvivenza, tenderà a prendere in esame il fucile? Personalmente tendo a ritenerlo fisiologico. L'alternativa del martirio tende anch'essa ad essere fisiologicamente presente. Cioè non potrà riguardare tutti. È la natura che ce lo impedisce. Per la sua stessa tenzone alla sopravvivenza.
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Per ri-creazione, mi riferisco alla non trasmissibilità dell'esperienza, ovvero alla limitatezza della gamma di sentimenti disponibili.
Per cultura siamo indotti a credere che pensare e concentrarsi siano sinonimi. Così pure per capire e sentire. Tecnica e didattica. Cioè siamo culturalmente sospinti a prediligere la dimensione intellettuale, cognitiva a spese di quella estetica, dei sensi. È per questa induzione che elaboriamo un linguaggio dove è facile riconoscere che diamo per scontato (non messo in discussione) un altro interessante argomento sul quale possiamo compiere un percorso di emancipazione, cioè che l'esperienza sia trasmissibile. È da questa scontata premessa che riteniamo che capire significa conoscere. Che riteniamo che capire sia il massimo che possiamo permetterci. È qui che nascono alcune trappole della comunicazione-equivoco.
Ri-creare, allude perciò alla necessità di compiere un percorso individuale che conduca proprio a quella verità, comportamento, espressione, storia che vorremmo modificare, che non condividiamo, che ci fa paura, dalla quale tendiamo a fuggire. Senza quella ri-creazione potremo sì aver capito, potremo sì ritenere di aver fatto il massimo, ma non potremo certo condividere un sentimento, una storia, una verità e quindi porci nella posizione più vantaggiosa per aggiornarla con amore. L'alternativa c'è. Si chiama fucile.
Non penso perciò che tutto ciò debba sussistere solo in occasione del nostro prossimo vicino, come mi pare indichi Nelly. Credo invece sia da prendere in considerazione affinché la consapevolezza della non trasmissibilità dell'esperienza e perciò la necessità della ri-creazione divengano elementi presenti nella cultura che vorremmo. Riferibili quindi a tutti, capaci di diffondere il potere del rispetto e dell'ascolto ascolto. Si potrà così arrivare a poter eludere la verità del conflitto come esigenza naturale dell'equilibrio? Si si sospetta di no, abbiamo aperto fin d'ora - con consapevolezza o meno - l'opzione del fucile... per costringere tutti ad amare.
Per tutto ciò il vero insegnamento della storia non è dedicato al bene come vorremmo quando osserviamo che "nonostante la storia ci abbia insegnato, ancora commettiamo certi errori", piuttosto, che ciò che essa mostra, tende ad essere ripetuto. Lo si può riconoscere anche individualmente, cioè nella sua misura minima, ogni volta che ci ritroviamo a compiere scelte, azioni ed espressioni che non avremmo voluto. Quella commiserazione di noi stessi che ne scaturisce è come fondata sull'idea di progresso che la cultura ci ha bene insegnato: una retta obliqua tendente verso l'alto. Insieme a quell'idea c'è quella del tempo lineare. Progresso e tempo lineare sono altri due momenti culturali e storici e naturali, nei confronti dei quali è possibile avviare qualche processo di emancipazione. Per vederne le ragioni storiche, sentimentali e per riconoscerne perciò necessarietà e limiti. Quindi per riconoscere - ri-creare - la verità della circolarità del tempo. Un modo essenziale per vedere garantito che accadrà proprio ciò che è accaduto.
Come accennato, c'è anche un'altra prospettiva o piano di lettura dove si può osservare che la storia è l'unica verità. È quello sentimentale. I nostri sentimenti sono di numero limitato. Siccome sono loro il motore del nostro comportamento, quando siamo un certo sentimento abbiamo uno spettro di scelte diverso da quello disponibile quando siamo il sentimento opposto. L'essere quel sentimento implica certe direzioni e verità. Implica la realizzazione di sé in modi che quel nostro essere riconosce assai bene tanto, appunto, da utilizzarli come timone della nostra storia. Se a ciò si aggiunge che la permanenza non è umana, che l'oscillazione invece ci rappresenta meglio, possiamo ulteriormente riconoscere che il nostro vagare da un sentimento ad un altro è del tutto compatibile con la nostra natura e che quindi necessariamente la storia tenderà a ripetersi. E a dirci perciò, che il conflitto è ineludibile, un fatto già contabile nel rapporto tra due individui. Tanto più lapalissiano quanto più si allarghi il numero di protagonisti/individui.
Grazie per l'attenzione
Lorenzo Merlo
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