Ci sono sempre più agricoltori che abusano sistematicamente della pratica del diserbo chimico (spesso del tutto inutile, oltre che dannosa per noi e per gli ambienti naturali), ma che utilizzano il diserbo anche al di fuori delle aree coltivate, distruggendo gli habitat erbosi delle fasce non coltivate.
Anche semplici cittadini irrorano le fasce erbose sotto casa con erbicidi per evitare lo sviluppo delle erbe "infestanti".
La pratica del diserbo, nata per il controllo delle commensali in agricoltura, erroneamente considerata come alternativa allo sfalcio, viene ora proposta da amministrazioni locali, ANAS e Società Autostrade, grazie al sostegno delle industrie chimiche che producono il diserbante più aggressivo e meno selettivo oggi sul mercato (il glyphosate), per la manutenzione sistematica delle strade pubbliche (a volte con la scusa di combattere le allergie da pol! line, ma in realtà, anziché ridurre le fonti di produzione di polline, se ne determina un aumento significativo con la proliferazione di graminacee e di neofite), ben sapendo che, una volta effettuato il primo trattamento, si dovrà continuare questa pratica anche negli anni successivi per evitare la proliferazione delle erbe più aggressive, libere di espandersi, in seguito alla scomparsa della vegetazione matura che presidiava il terreno.
Solo gli addetti ai lavori, e una minoranza di cittadini bene informati, oggi sanno che una pratica corrente dell’agricoltura del nostro tempo è il diserbo chimico. Le cosiddette erbacce non vengono più estirpate manualmente o meccanicamente, come accadeva in passato, ma la loro distruzione è affidata a molecole chimiche che si incaricano di annientare il loro sistema ormonale, lasciando in vita le colture utili.
Si tratta di una pratica che ha cominciato a diffondersi nel nostro Paese all’indomani della seconda guerra mondiale e che ! ormai è accettata universalmente come una consuetudine normale. Essa offre infatti la possibilità di risparmiare lavoro e quindi di ridurre i costi aziendali. Fa parte quindi delle innovazioni tecniche inaugurate dall’agricoltura industriale nel XX secolo, che hanno reso la nostra agricoltura sempre più competitiva ma al tempo stesso i nostri agricoltori sempre più subordinati all’industria chimica e soggetti a margini decrescenti di profitto.
Oggi, anche su piccoli appezzamenti di terreno, in ogni regione d’Italia, si pratica sistematicamente questa operazione di avvelenamento selettivo del terreno per avere campi privi di erbe indesiderate. Può capitare che persino il personale dei comuni e delle provincie, incaricato di tenere sgombri i bordi delle strade, ricorra a simili mezzi, oltre al decespugliatore meccanico.
Chi possiede gli strumenti per leggere il paesaggio e le condizioni del terreno, girando per le nostre campagne può scorgere le tracce visibili della silenziosa guerra chimica oggi in corso.
Sempre più frequentemente gli interfilari di vigneti e frutteti appaiono completamente nudi, salvo radi ciuffi d’erba rosseggianti che sembrano sopravvissuti al passaggio del fuoco.
Tutto ciò nonostante l’agricoltura biologica abbia da tempo scoperto e sperimentato – valorizzando vecchi saperi contadini – i vantaggi del mantenimento controllato dell’erba nel campo (inerbimento). Questa pratica infatti assicura la difesa del suolo dall’azione della pioggia battente e dai processi di erosione, la conservazione dell’humus e della vita biologica del terreno, la difesa della biodiversità, una crescita più sana delle piante, una superiore qualità organolettica dei frutti, ecc.
Ma il ricorso al diserbo chimico continua anche perché esso fa parte di un sistema che ha finito coll’imporre le regole del profitto anche all’ambito incomprimibile della vita.
L’agricoltura industriale, infatti, ha abolito le antiche rotazioni delle colture – con le quali si curava la fertilità del terreno e si conteneva la proliferazione delle erbe spontanee – e ha affidato interamente alla chimica il compito di produrre, con i concimi di sintesi, i prodotti agricoli, e di distruggere le piante indesiderate con i diserbanti. Questi ultimi fanno dunque anche parte di un circolo vizioso che agli effetti indesiderati prodotti dall’alterazione degli equilibri naturali risponde con una ulteriore assoggettamento della vita organica alla chimica.
Ebbene, a parte le considerazione esposte, ci sono almeno quattro fondamentali ragioni per dire basta a questo modo violento e barbarico di fare agricoltura:
1) I diserbanti sono altamente nocivi alla salute umana, soprattutto degli agricoltori che li usano. Alcuni componenti come il 2,4 _ D e il 2,4,5 _ T (quest’ultimo presente nei defolianti usati dagli americani nella guerra contro il Vietnam) sono gravemente indiziati di ingenerare tumori e i linfomi-non-Hodgkin (H. Norberg-Hodge/P. Goering/ J. Page, From the ground up. Rethinking industrial agricolture, Zed Books, London 2001, p. 19). Una campagna dove sempre più frequentemente circolano tali veleni è destinata a diventare un luogo altamente insalubre tanto per gli agricoltori che per tutti noi;
2) I diserbanti non solo sono gravemente nocivi alla fauna dei campi (uccelli, serpi, talpe, ricci, rospi, grilli, cicale, ecc.) ma sopprimono anche gran parte della vita biologica del terreno. E il terreno non è un semplice supporto neutro per le coltivazioni, quale lo ha reso l’agricoltura industriale, ma un organismo vivente su cui crescono le piante da cui ricaviamo il nostro cibo. Esso è, a pensarci bene, la base stessa della vita, di ogni vita sulla terra. È difficile immaginare che possa sopportare a lungo l’avvelenamento chimico selettivo dei diserbanti. Così come appare difficile immaginare che si possano produrre alimenti sani da un habitat in cui! la vita viene così sistematicamente perseguita.
3) I diserbanti inquinano gravamente le falde acquifere. Noi non sappiamo che cosa succederà – e che cosa succeda già adesso – delle fonti da cui i comuni attingono le risorse idriche per distribuire l’acqua potabile ai cittadini. Dopo anni di diserbo chimico sempre più intenso è facile prevedere che i veleni saranno diffusamente presenti nelle nostre falde. Ora, che una delle risorse più preziose della nostra vita e delle nostre economie, bene sempre più scarso, risorsa strategica per il futuro, debba essere distrutta da una delle pratiche più dissennate che l’uomo abbia immesso nell’agricoltura recente è un paradosso che ripugna a ogni elementare buon senso.
4) Infine, un paradosso a cui la scienza e la tecnica, nel corso dell’età contemporanea, ci hanno spesso abituati. I diserbanti si rivelano alla lunga inutili e controproducenti per lo stesso fine per cui sono utilizzati. Riporto le testimonianze di! due esperti italiani, appartenenti all’ambito dell’agricoltura convenzionale:
«L’introduzione della pratica del diserbo chimico ha provocato una profonda modifica della struttura della vegetazione spontanea. I tratti fondamentali di questo cambiamento possono essere riassunti da una parte nella riduzione della ricchezza floristica e dall’altra nell’abbondanza di un numero ristretto di specie. Pertanto, negli agro-ecosistemi si è ridotto il numero totale di specie infestanti e quelle adattatesi alle nuove condizioni imposte dalla tecnica, per un fenomeno di compensazione, hanno assunto una elevata densità di individui. Il risultato di questo processo è stato un progressivo avvicinamento ecofisiologico tra malerbe e colture, fino ad arrivare, in pratica, a strette associazioni tra specie infestante e specie coltivata, che rendono poco efficaci i trattamenti chimici.
Le infestanti sono riuscite ad evolvere strategie ecologiche per sfuggire all’azione dei trattamenti. Si deve infatti tener conto che il diserbo chimico è in grado di colpi! re solo la quota di infestazione in atto, ma lascia sostanzialmente indisturbata quella non visibile, definita potenziale, dovuta ai semi e agli organi di propagazione agamica presenti nel terreno. L’infestazione potenziale può rappresentare oltre il 90% dell’infestazione totale» (P. Catizone-G. Dinelli, Il controllo della vegetazione infestante, in Accademia Nazionale di Agricoltura, L’agricoltura verso il terzo millennio attraverso i grandi mutamenti del XX secolo, Edagricole, Bologna 2002, pp. 596-97).
La pratica del diserbo chimico rappresenta una delle procedure alla lunga più inutili, inquinanti, dannose e costose (per gli agricoltori e i consumatori) oggi presente nell’agricoltura del nostro tempo.
Essa va integralmente estirpata dalla nostra agricoltura e ancor più nell'utilizzazione al di fuori delle aree coltivate come una delle scelte più sbagliate ed infauste della tecno scienza contemporanea. Non c’è alcuna ragione perché tale forma di avvelenamento delle nostre campagne duri un giorno in più. Il risparmio di lavoro che il diserbo chimico consente, rispetto a quello meccanico, non può più essere calcolato in termini puramente aziendali o economici, come è stato fatto dissennatamente finora.
Se nel computo si immettono i molteplici costi sociali, economici, biologici, ambientali che il suo uso comporta, il bilancio mostra la sua non più occultabile cecità.
Fabio Taffetani, Botanico, Università Politecnica delle Marche, Ancona - f.taffetani@univpm.it
Caro Fabio, l'ho denunciato al mio comune due anni fa. Da anni vedevo i bordi gialli delle strade, ma sembravano i vagheggiamenti di una Cassandra dei nostri giorni... Grazie per questa esposizione così ben dettagliata, l'ho diffuso ai miei 600 amici su FB con preghiera che condividano il tuo articolo. Continuiamo, proviamoci, non stanchiamoci! Loro ci prendono per sfinimento....
RispondiEliminaCaro Fabio, devo liberarmi di alcune canne che nascono su una collinetta alla cui base, l'anno prossimo intendo fare un orto.
RispondiEliminaSu internet ho trovato solo "ricette" a base di ruspe e scavatori (che non ho), mentre un mio amico esperto di orti mi ha consigliato di usare un erbicida da spruzzare una o due volte sulle foglie delle canne tra luglio ed agosto.
Immagino che una azione così mirata e una tantum non avrà conseguenze gravissime ma, se puoi consigliarmi sistemi naturali altrettanto efficaci, te ne sarei grato.
Se possibile, rispondimi su fabbiodario@gmail.com che non sono molto pratico di blog.
Cordiali saluti, Fabio.
Caro Fabio, quando stavo a Calcata avevo anch'io un terreno "infestato" da canne comuni ed anche da canne di bambù che sono più pervicaci. Ebbene ho tenuto sotto controllo il problema della loro espansione, riuscendo anche a diminuire il loro areale rinchiudendo alcune pecore e capre nel sito. In più di tanto in tanto andavo lì a dissotterrare le radici ai bordi con la zappa tagliente. Ci vuole un po' di tempo ma dopo un anno di questa cura già si può utilizzare meglio il terreno. L'unico inconveniente è che le canne fanno ombra, per cui occorre anche tagliarle alla base almeno nei pressi della coltivazione. Paolo
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