domenica 8 dicembre 2024

Anche le pietre hanno un'anima...?

 


"Siamo in costante ricerca di quel punto di equilibrio, fertile inseminazione di serenità, centro dal quale la vita non fa paura, le relazioni sono gioia, i malesseri ne risentono e ne sono alleggeriti o scompaiono, mentre tutto resta vissuto senza sperpero di energie avvitate intorno all’ego,  anzi, trovando ed esprimendo bellezza e salute..."

Nelle relazioni con qualsiasi oggetto, come un pensiero, una persona o

anche una pietra, frustrazione e sofferenza possono essere presenti, in

quanto implicite nelle inconsapevoli pretese che riempiono il nostro sguardo

sul mondo, sul prossimo, su noi. Pretendendo che le pietre stiano come noi

le poniamo e gli uomini sottostiano al nostro volere, nessun contatto,

adeguato all’equilibrio, alla relazione soddisfacente, può realizzarsi.

Parimenti, nessuna scuola si sprigiona da una relazione sbilenca. E tutto,

costretto dal vincolo del nostro egocentrismo e importanza personale, trova

il modo per ripetersi, per procuraci nuovamente pena. Significa che, liberi

dal laccio, possiamo accedere a un mondo sconosciuto, sebbene

formalmente identico a quello dal quale ci siamo emancipati. Un mondo in

cui vediamo i guinzagli del prossimo, l’alfabeto con il quale descrive

l’universo, la sua determinazione a crederlo il solo e, infine, la sua

inidoneità a riconoscere l’universo altrui.

Impilare le pietre, trovare quello stabile ma precario punto di equilibrio

dà soddisfazione. Ogni sasso che si vuole aggiungere al delicato edificio

corrisponde a una ricerca di un punto di scambio con la precedente.

L’universo di una pietra dai profili irregolari, al pari di quello di una

persona, non può essere conosciuto a priori, esaustivamente,

definitivamente. Rocce e uomini richiedono la medesima attenzione, il

medesimo ascolto, lo stesso mettersi in discussione affinché la ricerca del

punto di contatto sia soddisfatta, affinché, attraverso quel punto si possa

avvertire l’avvento di una relazione autentica, di uno scambio

reciprocamente vero, cioè della bellezza compiuta, di quell'istante in cui si

crea un contatto, in cui l’equilibrio avviene, dove la relazione ha il carattere

della sintonia, della complicità e dove scaturisce l’emozione dell’unione e

del suo sentimento.

Tutto ciò non accade a mezzo di una legge statale o morale, non basta

comprenderlo cognitivamente. Richiede invece una pratica corporea,

affinché sia un’emozione a fornirci la sensazione d’aver fatto giusto o

sbagliato, affinché, attraverso quella sensazione ci torni facile – e non

orgogliosamente faticoso – rivedere noi stessi, il nostro fare.

Ciò che in psicoterapia, pedagogia, psicomotricità e in generale in certe

pratiche didattiche è tecnicamente detto feed-back, di nient’altro si tratta che

di ascolto. Se l’ascolto è una pratica e non una tecnica, significa che esso è

incarnato e non solo capito. E, se è incarnato, esso sarà il ponte non solo per

raggiungere la relazione con l’altro, ma anche per trovare noi stessi, per

ampliare lo spettro di intelligenza creativa, pozzo senza fondo, con il quale

comprendere le ragioni del mondo, fino a quelle a noi più oscure e lontane,


fino a trovare la ragione morale, egoica e autoreferenziale che le aveva

confinate nel buio, il più distante da noi possibile. Esso parifica noi e l’altro,

implica pari dignità e reciproco rispetto, annulla la prevaricazione del

giudizio, ci rende attori protagonisti degli eventi, esplora l’universo altrui e,

contemporaneamente, il nostro, ci mostra l’inevitabilità di ciò che ci accade

in funzione di come ci poniamo.

Pretese nascoste, assunzione di responsabilità, benessere, bellezza sono i

frutti di un modo di guardare la realtà non più egocentrico ma relazionale, in

cui l’altro viene scoperto e conosciuto. In cui questi ci apre le porte

altrimenti ben serrate in quanto, senza più timori, può accreditarci

d’interlocuzione. Allora, le reali ragioni delle affermazioni altrui ci offrono

il percorso che le ha obbligate. Ma c’è di più nell’ascolto, c’è

contemplazione. Con essa diviene evidente quanto e in che termini, l’altro è

specchio di noi stessi, identico a noi nelle dinamiche che lo muovono, e

perciò, ignaro rivelatore dei punti oscuri a noi stessi.

La modalità ricca ed evolutiva è quella esplorativa, già impiegata in tante

occasioni quando eravamo bambini. Nell’esplorazione tendiamo ad essere

disponibili a ciò che accade, ad essere delicati, consapevoli del nostro

intento di scoperta. Siamo creativi, cioè capaci di rimodularci, di riproporci

in altro modo, di sentire che ogni nostro atto ci vede assolutamente

responsabili del risultato che esso tende a generare. Nella modalità

evolutiva non c’è errore, in quanto in essa, nuovamente, c’è ascolto, così la

caduta diviene scuola. E c’è osservazione disinteressata, la sola capace di

dimostrare la nostra perenne responsabilità della condizione d’animo in cui

versiamo.

Quando la modalità evolutiva è incarnata, cioè non è più solo

intellettualmente capita, ma è stata ricreata, il fallimento, prima sorgente di

frustrazione, ora lo è di informazione. La responsabilità prima attribuita, ora

diviene nostra. La creatività prima latente, occasionale o inesistente, ora

assume un carattere centrale di cui abbiamo consapevolezza e, soprattutto

abbiamo i mezzi per riconoscere quanto l’inquinamento egoico tende a

soffocarla e quanto invece la purezza disinteressata – figlia

dell’emancipazione dal nostro giudizio – la lascia emergere.

Quando si gioca a mettere in equilibrio le pietre si sta meditando. Quel

contesto, da materia diviene simbolo e metafora. Nella relazione tra i sassi,

si evidenzia quella tra gli uomini. Il fastidio, l’ira, il rancore, l’uso della

violenza, il desiderio di vendetta e quello dell’invidia di fronte a qualcosa

che non va come sperato, la sofferenza per il mancato successo delle nostre

spesso inconsapevoli aspettative, ma meglio sarebbe chiamarle subdole

pretese, ci fanno vivere la vita nel medesimo modo penoso e avviene per la

medesima ragione. Cioè quella egocentrica modalità di intellegere il mondo,

totalmente sconveniente alla conoscenza, all’abbattimento della sofferenza.

La meditazione, utile a dare un significato diverso al fallimento e ad

allenarci a non identificarci con le emozioni e con i pensieri permette di

alleviare la dipendenza dagli introietti tossici con cui siamo stati allevati e

siamo circondati.


Sebbene la sola permanenza della vita sia l’oscillazione è altrettanto vero

che tutte le pratiche sono allenabili. Significa che, indipendentemente dal

contesto in cui ci troviamo, una volta trovata in noi la sorgente della

sofferenza, possiamo scoprire come impilare le pietre, ovvero come trovare

la via della bellezza, della pazienza, della tolleranza, della pace.

Non possiamo eliminare l’oscillazione ma possiamo imparare a

navigarla.

Lorenzo Merlo



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