Secondo le previsioni dell’Energy Information Administration, nel 2025 gli Stati Uniti diminuiranno il volume delle importazioni nette del petrolio del 20% su base annua, portandole ad “appena” 1,9 milioni di barili al giorno: il picco minimo dal 1971. Un risultato sotto molti aspetti strabiliante, imputabile soprattutto all’incremento della produzione domestica grazie al fracking.
Ad agosto, gli Stati Uniti hanno stracciato ogni record, arrivando a produrre qualcosa come 34 milioni di barili di petrolio al giorno. Arabia Saudita e Federazione Russa, principali competitori, hanno una capacità massima stimata rispettivamente in 12 e 10 milioni di barili al giorno.
Per il 2025, stima l’agenzia facente capo al Dipartimento dell’Energia, il vantaggio dovrebbe aumentare ulteriormente, poiché la produzione media dovrebbe raggiungere i 13,52 milioni di barili al giorno. Si tratterebbe del settimo anno di crescita consecutivo, con un surplus su base annua pari a 280.000 barili al giorno, ma di entità “modesta” se raffrontata ai risultati conseguiti nel precedente decennio, nel corso del quale gli Stati Uniti hanno accresciuto la loro produzione del 70% aggiungendo all’offerta globale circa 5,3 milioni di barili al giorno.
Quanto al gas, la produzione statunitense è aumentata di circa 220 miliardi di metri cubi all’anno: un volume superiore rispetto a quello che Gazprom realizzava attraverso l’export verso l’Europa, che nel 2024 ha importato dagli Stati Uniti circa 45 milioni di tonnellate di Gas Naturale Liquefatto, necessari a coprire quasi la metà del fabbisogno continentale. Secondo i calcoli di Goldman Sachs, l’export di Gnl degli Stati Uniti è aumentato del 197% verso l’Europa e diminuito del 41% verso tutte le altre aree del mondo.
Gli analisti della banca sottolineano tuttavia non solo i costi elevati degli approvvigionamenti statunitensi, ma anche l’insufficienza delle forniture Usa a compensare l’ammanco generato dall’interruzione delle consegne del gas russo. Sebbene studi geologici sostengano che del “picco” della produzione di idrocarburi non convenzionali sia ormai vicino, e che la “bonanza” è quindi destinata a concludersi a breve, lo scenario di brevissimo periodo potrebbe tuttavia subire un netto "miglioramento" per effetto dell’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump, che ha minacciato dazi colossali in assenza di aumenti considerevoli delle importazioni di idrocarburi da parte dell’Europa.
Il magnate newyorkese è anche un convinto sostenitore dei produttori di petrolio non convenzionale, come si evince dalla sua decisione di piazzare specialisti del settore come Chris Wright e Doug Burgum a capo rispettivamente del Dipartimento dell’Energia e del neonato National Energy Council.
Sul versante geopolitico, l’incremento della produzione da parte degli Stati Uniti e di altri Paesi esterni all’Opec+ come Norvegia, Guyana, Canada e Brasile ha messo provvisoriamente sulla difensiva l’Organizzazione dei Paesi Produttori di Petrolio; per scongiurare un crollo dei prezzi, quest’ultima si vede costretta a continui tagli alla produzione che rischiano tuttavia di consegnare importanti fette di mercato alla concorrenza. Secondo alcuni analisti, la sfida posta dai produttori statunitensi rischia di minare la coesione interna all’Opec+, come si evincerebbe da alcune critiche indirizzate verso le decisioni assunte dall’organizzazione da Iran e Russia.
L’egemonia dell’Opec+ è dunque destinata a disgregarsi sotto l’urto degli arrembanti fracker statunitensi?
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