Basta indossare una divisa dell’esercito italiano per non pagare il
biglietto. O meglio, il biglietto glielo paghiamo noi veneti. È la nuova
trovata del presidente Zaia per farci credere che sta affrontando il
tema degli atti di vandalismo e microcriminalità sui treni (e per
nascondere il sovraffollamento, i ritardi, i disservizi quotidiani sul
trasporto pubblico regionale che colpisce particolarmente i lavoratori
pendolari).
Dice il Governatore che con i militari in divisa sui treni crescerà “la
percezione di sicurezza”, anche se in realtà non potranno fare niente di
diverso da quello che farebbe qualsiasi altro cittadino: chiamare il
controllore o le forze dell’ordine, o agire per legittima difesa: un
effetto “deterrente” del tutto teorico, perché i malintenzionati, i
vandali, i bulli di turno, sanno benissimo che quelle presenze in divisa
non hanno alcun potere repressivo.
Quanto ci costa questa “percezione” visiva? Il calcolo è presto fatto:
sono 9000 unità i militari in servizio nella nostra Regione, potenziali
fruitori dei viaggi gratuiti; 700 le corse ferroviarie quotidiane; 150 i
treni regionali interessati. Se ogni militare facesse due viaggi al
giorno, andata e ritorno, per circa 300 giorni all’anno, per una media
di 10 euro (costo del biglietto a carico della Regione Veneto), la
“deterrenza” immaginaria ci costerebbe 27 milioni di euro. Ammettiamo
che solo un quarto dei militari utilizzi il servizio, e solo per 225
giorni l’anno, siamo comunque oltre i 5 milioni di euro. È un evidente
sperpero di risorse pubbliche!
Inoltre, il provvedimento regionale attua una discriminazione tra
categorie di lavoratori: perché viene considerata solo la divisa
militare? Ci sarebbero molte altre divise meritevoli di considerazione:
la divisa dei Vigili del Fuoco, la divisa della Protezione civile, la
divisa del personale del Servizio Urgenza ed Emergenza Medica, la divisa
dei Vigli Urbani, della Polizia Penitenziaria, ecc. (per non allargarsi
agli abiti dei ministri di culto).
Ma oltre a questo c’è un dato di incostituzionalità, in quanto si
attuata un’evidente disparità tra cittadini fruitori del servizio
pubblico: chi è in divisa viaggia gratis, chi è in abiti civili deve pagare.
Da ultimo, segnalo un profilo di illegittimità amministrativa. L’Accordo
tra Regione Veneto, Esercito italiano, Aeronautica e Marina militare, e
Trenitalia permette ai militari in divisa che si recano al lavoro o
tornano a casa, di viaggiare gratis sui treni regionali, perché sono
nell’ambito della loro funzione di “servitori della Patria”
(Costituzione, articoli 52, 87, 117), ma “il sacro dovere di difesa
della Patria” è parimenti affidato dal legislatore anche a chi svolge in
Servizio Civile Universale (due sentenze della Corte costituzionale, la
n. 164/1985 e 470/1989, la legge 64 del 2001, e il Decreto Legislativo
n. 40 del 6 marzo 2017 che istituisce il Servizio Civile Universale
"finalizzato, ai sensi degli articoli 52, primo comma e 11 della
Costituzione, alla difesa civile, non armata e nonviolenta della
Patria"). Quindi il viaggio gratuito dovrebbe essere esteso, per
coerenza costituzionale, anche ai giovani in Servizio Civile, che
indossino la maglietta o la pettorina identificativa (certamente più
idonei ad affrontare situazioni di disagio, marginalità, degrado).
Ma perché la Regione Veneto e l’Esercito italiano si sono lanciati in
questa spericolata avventura? Il motivo vero è chiaro ed evidente: da un
lato abituarci visivamente e psicologicamente alla presenza dei militari
in mezzo a noi in una logica di militarizzazione della società,
dall’altro coprire le reciproche insufficienze nel fornire ai cittadini
i servizi per i quali le due istituzioni sarebbero preposte. Il tutto a
spese della società civile, e a vantaggio dei militari.
Chiedo quindi ai consiglieri regionali, deputati e senatori del Veneto
di adoperarsi per l’annullamento dell’Accordo. Consiglio a Zaia di
ritirarlo per non esporsi a brutte figure. Se invece entrerà in vigore,
comunichiamo fin d’ora che dal 1 dicembre 2024 al 31 dicembre 2025 i
giovani del Servizio Civile del Movimento Nonviolento indosseranno le
pettorine pretendendo di viaggiare gratis come i militari: aspettatevi
una disobbedienza civile e bel po’ di contestazioni, reclami, ricorsi
amministrativi e giurisdizionali.
Mao Valpiana - Presidente del Movimento Nonviolento
martedì 19 novembre 2024
Veneto. Zaia militarizza i treni regionali...
La memoria intrinseca degli eventi nella materia...
Che ci sia un’attinenza indiscutibile fra l’emissione energetica e la materia è un fatto conosciuto da chiunque, prima ancora delle scoperte della fisica quantica. Basti vedere l’azione dell’energia solare e della sua captazione utile ai processi vitali sulla Terra…
A proposito di psicostoria e memoria collettiva – I libri riportano la storia che gli autori dei libri vogliono raccontare, se vogliamo conoscere la storia, quella vera, è necessario introdursi nel magazzino della funzione mnemonica vitale, che è presente comunque in chiave olografica in ognuno di noi. In India questo magazzino si chiama Akasha, Jung lo chiamò Inconscio collettivo, gli esoteristi lo chiamano Aura della Terra. Isac Asimov definì questa ricerca mnemonica psicostoria... Qualcuno mi ha chiesto: “Cosa intendi per chiave olografica, cioé quel mezzo a cui fai riferimento?”. Faccio l'esempio del funzionamento di un ologramma, ogni informazione dell'insieme è contenuta in ogni sua parte, quindi è alla portata di ognuno accedere alla memoria collettiva. Sul come arrivarci possono esserci varie opzioni: meditazione, assorbimento, sogno, intuizione, rivelazione, ecc. Secondo un punto di vista psicostorico "materialistico" alcuni utilizzano un oggetto connesso alla storia esaminata, per su quello concentrarsi, come avviene nella divinazione con mezzi empirici. (P.D'A.)
domenica 17 novembre 2024
Fa piangere... fa ridere... (ma soltanto con la mascherina!)
Sebbene la tendenza al tempo disastroso che permane sulla cultura sia ben affermata e senza necessità di dimostrazione, ogni volta che qualche vicenda riesce ad aumentarne la media negativa, la questione torna al dolore della carne viva.
“Nel tempo libero curo mio figlio”. Questa affermazione è apparsa nei titoli dei giornali di qualche giorno fa. Non ho nulla contro colei che l’ha pronunciata. Non è necessario riferire chi sia in quanto ciò che importa è un livello più ampio, è il livello culturale che ha permesso la formulazione della frase citata.
Frase e concezione di madre che dice tutto sulla direzione, più che esiziale, in cui va la cultura, cioè tutto.
Frase passata senza reazioni scioccate da parte della stampa, della politica, di qualche istituzione civile, e neppure religiosa.
Frase dolorosa che contiene in sé quanto ci siamo allontanati dalla natura che siamo. Una distanza che abbiamo percorso sulla scia del progresso e la sua promessa di felicità come somma di acquisti. Anche in nome del femminismo, forse il movimento che, più di altri, si è nel tempo deformato. Da diffusore della consapevolezza della pari dignità delle donne, è divenuto un mostro, replicante del peggior modello maschile, anche agli occhi di molte donne. Persone dal respiro libero, non asfissiato dall’ideologia che, come tutti i fideismi, con il rispetto, la dignità e la parità non ha nulla a che vedere.
Frase sconsolante, che seppellisce la forza delle donne. Quella degli uomini è caduta, da tempo, per prima sotto lo stesso maglio che ha dato forma a quella fila di parole, di pensieri, di concezione, di, ancora inavvertita, disperazione e perdizione. Che ha permesso le politiche oggi sulla cresta dell’onda, integralmente intente ad alimentare la mortificazione di quanto è ancestrale in noi, totalmente dedicate a sottrarci la bussola naturale, assolutamente impegnate a fare di noi oche da foie gras di falsi valori materiali.
Eccessiva reazione per una frase in fondo vera? Tanta reazione per niente? Per così poco? Le parole rivelano uno spettro più ampio dello stretto significato letterale. Le parole impiegate per descrivere rivelano la prospettiva con la quale guardiamo il mondo.
“Nel tempo libero curo mio figlio”. Non deve passare sotto silenzio una frase così, neppure se pronunciata da persone che lavorano. Se tecnicamente non fa una piega – ma non la farebbe neppure dire che le donne sono un buco – in quanto allude al tempo libero dal lavoro, è la legittimazione di quelle parole per il loro significato tecnico, che le fa diventare il sintomo di una cultura che non ha più niente di natura. Dovrebbe, invece, accadere il contrario, cioè che nel tempo libero dall’educazione e dalla cura della prole ci si può dedicare ad altro. Ma neppure così è abbastanza. In una cultura non pregna di metastasi della mercificazione, la cura genitoriale non ha il diritto di interruzioni, soprattutto spirituali. Diversamente siamo al turismo genitoriale per caso. Siamo all’appropriazione indebita e impunita delle nuove vite. Siamo infatti alla maternità surrogata, al figlio della carta di credito di chi compra e della miseria di chi giunge a mettere a disposizione se stessa, magari per una lavatrice. Non è da escludere.
Fa ridere? Oh, sì, fa ridere chiunque si sia piegato agli imperativi culturali, non ultimo, ma primo, al suo linguaggio pieno di io e di realtà oggettiva, di jingle e di repliche di luoghi comuni. Vite consumate entro il calderone di petulante, insistente e invadente comunicazione dei notiziari, della pubblicità, delle canzonaccie (gran parte), dei dj. Goccia dopo goccia la cultura ci costruisce, così, si diviene, senza sforzo quando non con comodità, la stalagmite che essa ci impone di essere per sostenersi, per propagarsi. Una moltitudine di persone calcificate, che senza difficoltà alcuna, se interpellate, in quattro e quattrotto trovano le ragioni, culturalmente e, a volte, legalmente autorizzate, della propria lascività etica. Ma mai lo spunto per afferrare la narrazione che cola giù dall’alto, quella che trovano pronta in tavola, e provare, tentare, sforzarsi di vederne l’origine e il significato, perché è in quel modo (TINA) e non in altro per, eventualmente, condividerla a ragion veduta o prenderne le distanze.
E se così andasse, madri o padri, si guarderebbero dall’esprimere quella frase senza avvertire di aver abiurato a se stessi. Senza la consapevolezza di aver dato un calcio in avanti al macigno che ci sta travolgendo.
Lorenzo Merlo
Canzoncina in sintonia: https://www.youtube.com/watch?v=4TeBhX56O54
sabato 16 novembre 2024
Alimentazione ideale per una comunità ideale...
venerdì 15 novembre 2024
Vivere è il solo scopo della vita...
"Nella non-dualità c'è la beatitudine; nella dualità, l'esperienza..."
L'uomo è l'unico animale per il quale la sua stessa esistenza è un problema che deve risolvere. Se l'individuo realizza il suo io mediante l'attività spontanea, e in questo modo si mette in rapporto con il mondo, cessa di essere un atomo isolato; sia lui che gli altri diventano parti di un tutto organico; egli occupa il suo giusto posto, e così i dubbi su se stesso e sul significato della vita; quando egli riesce a vivere non in modo coatto, né da un automa, ma spontaneamente, essi scompaiono. Ha coscienza di sé come un individuo attivo e creativo e riconosce che c'è un solo significato della vita: l'atto stesso di vivere...
Alle razionalizzazioni manca in definitiva questo tratto dello scoprire e del rivelare; esse si limitano a confermare il pregiudizio emotivo esistente nell'individuo. La razionalizzazione non è uno strumento per penetrare la realtà, ma un tentativo a posteriori di armonizzare i propri desideri con la realtà esistente. Tutti noi siamo Uno, eppure ognuno di noi è un'entità unica, separata. Nei nostri rapporti col prossimo si ripete lo stesso paradosso. In quanto Uno, possiamo amare tutti nello stesso modo, nel senso di amore fraterno. Ma in quanto esseri distinti, l'amore erotico esige prerogative strettamente individuali, che esistono tra determinate persone, e non certo tra tutte.
L'uomo ha problemi legati all'identificazione non con l'esistenza (che di suo non esiste). L'attività come l'esperienza è nel mondo duale. Le cose non si muovono affatto, sembra all'io. È l'apparente rapporto legato ai ricordi che crea il tempo e i suoi giochi.
Giusto o sbagliato? Non esiste come bene e male. Come si possono avere dubbi? Scartando tutto il passeggero resta solo l'imperituro. Tolta l'illusione di essere un corpo/mente inizia un mondo diverso.
Non si è mai divisi, se ne può avere l'illusione. Non esistono altri ma parti di te . Cosa c'è che non ti piace nelle cose automatiche? La terra gira, il corpo si prende cura di se stesso, piove, la vita "sembra "rispettare automaticamente i cicli e tra le varie manifestazioni la prima è l'essere coatta totalmente: vuole vivere a costo della vita altrui in quanto nella sua totalità sa di essere vita e non di "averne "e che tutto è vita.
Alcune parti di me si sentono divise da me si danno un nome ed una forma in mutamento, ma ciò è provvisorio. Prerogative o preconcetti? Chi è "questo sono io"?. Solo fasci di abitudini e ricordi. Un fraintendimento.
Amore? Mmm. L'amore, l'ananda o la felicità sono stati dell'io sono, poi trascenderai anche ciò e lo farai trovando la radice dell'io sono.
Possiamo amare come scelta ed in ogni forma che l'io sono può immaginare essendo l'immaginazione creativa la sua natura, ma è passeggero come il corpo fatto di cibo.
Tu sei prima di ogni manifestazione.
Non sei colui che gira nella folla al suono del nome che ricorda.
La razionalità usata per allineare il desiderio alla realtà si chiama vivere nel presente ed è una manifestazione come il resto e non una volontà di un individuo che di suo è un fenomeno come la neve.
Certo Esopo ha ben descritto come i desideri del inconscio deformano la realtà nella sua favola della volpe ma un attenzione spietata è ciò che serve per il discernimento che porta all'unione.
Questo corpo ha poche migliaia di giorni e mi sento un bambino come il primo istante. Si percepisce lo yoga totale ogni istante al di la del corpo che incarni e del piccolo "io sono" che si sente diviso, solo, con delle esperienze personali.
L'uomo non è questo o quello, come ogni altra cosa è indescrivibile e privo di nome e forma.
Non credo che esistono prerogative ma la spontaneità dalla vita come la spontaneità delle onde o delle nuvole.
Oltre i tre stati dell'essere ve ne è uno nel quale ogni cosa è trascesa e le esperienze cessano lasciando posto a ciò che sei.
SAT CIT ANANDA
giovedì 14 novembre 2024
Esiste "altra" vita nell'Universo?...
Uh, Uhu… Certo, mettersi a parlare di UFO ed alieni non è propriamente nel mio filone culturale, anche se talvolta in passato me ne sono occupato.
Veramente ricordo che anche il mio Guru, Swami Muktananda, in vari discorsi parlò di abitanti di altri piani e di altri mondi. E che la vita sia possibile in ogni condizione, anche diversa dal nostro sistema biologico, è una logica conseguenza dell’espressione della Coscienza attraverso i cinque elementi: Etere, Aria, Fuoco, Acqua e Terra.
Si dice che possano esistere intelligenze ed enti persino nelle stelle (trattasi evidentemente di esseri energetici dell’elemento Fuoco).
Beh, comunque l’Universo è praticamente infinito e la considerazione che la vita possa essere presente in esso, nella totalità di esso, è decisamente plausibile.
Anche a titolo personale ho avuto delle “sensazioni” che mi fanno intuire che altre forme vitali possano e vogliano prendere contatto con noi umani, anche se -lo confesso- dal mio punto di vista ritengo che sia opportuna la non interferenza diretta fra le specie in via evolutiva.
Ovvero ritengo che ogni specie vivente, su ogni nucleo o dimensione, debba potersi sviluppare senza che ci siano dirette manomissioni nella sua crescita da parte di entità aliene. Perciò il contatto con gli alieni -secondo me- dovrebbe avvenire unicamente su un piano di parità, almeno in senso spirituale se non tecnologico.
Comunque tutto è possibile…. e d’altronde anche noi, in quanto specie umana, abbiamo pesantemente interferito nello sviluppo degli animali (perlopiù sfruttandoli e torturandoli) forse ci meritiamo altrettanto da parte di intelligenze più evolute…
Ma se realmente fossero “più evolute” potranno poi compiere quegli stessi errori nei nostri confronti?
Paolo D'Arpini - Rete Bioregionale Italiana
mercoledì 13 novembre 2024
Guerre di "spopolamento" - Il problema della sovrappopolazione era già presente nella remota antichità...
1. Il motivo della “guerra di spopolamento” rappresenta un caso di concordanza greco-indiana da tempo noto agli studiosi (1): tanto le saghe di Troia e di Tebe quanto il grande scontro fra Pāṇḍava e Kaurava erano infatti motivati, sub specie divina, come interventi volti a riequilibrare il rapporto fra popolazione e ambiente. Sebbene in India tale motivo appaia ben sviluppato solo a partire dal Mahābhārata, passando poi, con vari adattamenti, ai Puraṇa, è stato opportunamente rilevato come la concezione di una terra (sop)portatrice del peso di uomini e cose sia già ben presente nel R̥gveda(RV) e nell’Atharvaveda (AV) . Qui gli elementi che gravano sulla terra sono “montagne” (RV V 84.1; AV-VI 17.3), “alberi” (RVX 60.9; AVIV 26.5; VI 17.2), “uomini” (AV IV26.5; XII 1.15), “colonne sacrificali”(RV X 18.12); la terra è inoltre “portatrice di tutto”, viśvaṃbharā́ (AV XII 1.6). Prevale, in questi passi, l’uso della radice bhar-, da intendersi nella triplice, pregnante accezione di “portare, generare, sopportare”. La differenziazione talora individuabile in vedico fra “terra divina, animata”(pr̥thivī́ ) e “suolo”(bhū́mi-) (2) rende possibile che la terra sopporti il peso di se stessa,come in RV VII 34.7:
úd asya śúṣmād bhānúr nā́rta bíbharti bhārám pr̥thivī́ nà bhùma//
“Come un raggio di sole [si irradia], così [il sacrificio] si è irradiato dalla sua energia; porta il peso come la terra il suolo”.
In questa stanza la sopportazione della terra è assunta come elemento topico di similitudine, non diversamente che in AV VI 17, un incantesimo per scongiurare l’aborto il cui refrain suona:
yátheyám pr̥thivī́ mahī́ dadhara ….
evā́ te dhriyatāṃ gárbho ánu sū́tuṃ sávitave
“Come questa grande terra porta saldamente [l’embrione, gli alberi, le montagne, gli esseri viventi], così il tuo embrione rimanga saldo [nel grembo] dopo il concepimento perché possa nascere!”.
Il passo più interessante è però offerto da AV XII.I,il celebre inno in cui la terra, dedicataria del componimento, viene definita “paziente” (str. 29):
vimŕ̥gvarīṃ pr̥thivī́m ā́ vadāmi/ kṣamā́ṃ bhū́miṃ bráhmaṇā vāvr̥dhānā́m//
“La terra pura invoco, il suolo paziente, accresciuto dalla formula sacra”.
Si tratta della prima attestazione in antico indiano dell’aggettivo kṣamá– “paziente, sofferente”, corradicale di kṣam- “soffrire”(RV+). La menzione di kṣamá- accanto a pr̥thivī́ e a bhū́mi- rivela la volontà di trovare un’etimologia per kṣám- (nom. kṣā́ḥ), il nome indoeuropeo della “terra”, qui assente ma in realtà suggerito dall’unione del significantekṣamā́m con i significati di pr̥thivī́ e bhū́mi-. La “terra” porta quindi scritto nel suo stesso nome (kṣám-) quell’atteggiamento “paziente” (kṣamá-) che la caratterizza nella fatica, quotidiana ed eterna, di (sop)portare il peso di tutte le creature. Nella lingua classica, peraltro, molti epiteti sostitutivi del nome, quali dharaṇī, dharitrī, bhāratī, “la portatrice”, e lo stesso kṣamā si riferiscono al compito cui la terra è stata destinata.
2. Nel Mahābhārata il tema del delicato equilibrio fra popolazione e ambiente è centrale: la terra in persona si reca presso gli dèi per chiedere di essere alleggerita dal peso eccessivo degli uomini, cresciuti a dismisura; gli dèi le promettono allora di scatenare un sanguinoso conflitto che spopolerà il mondo. Il noto motivo, che è ritenuto già indoeuropeo se non addirittura indomediterraneo (vd. par. 6), assume molte implicazioni nella letteratura epica e puranica e si intreccia con il mito del diluvio.
Le testimonianze del Mahābhārata sono molteplici; si offre di seguito uno specimen dei luoghi significativi (3):
a. I.58: La terra, grazie all’opera di Rāma, prospera sotto il dharma. Gli uomini si moltiplicano, ma anche gli Asura, incarnatisi nelle più diverse creature, crescono di numero. La terra non può più sopportare il suo stesso peso e si reca da Brahmā chiedendo di essere alleviata. Brahmā esorta gli dèi a scendere sulla terra e a sterminare gli Asura;
b. III.42: Arjuna riceve la verga da Yama (il dio della morte) con il compito di alleggerire la terra;
c. III.141 (ed. Bombay) (4): Lomaśa racconta a Yudhiṣṭhira che Viṣṇu, in forma di cinghiale, riportò in superficie la terra, sprofondata nell’oceano a causa del peso delle troppe creature che avevano cessato di morire perché Yama, dio della morte, non esercitava il suo ufficio;
d. III.186: Mārkaṇḍeya narra che alla fine di ogni kalpa i costumi morali e religiosi decadono; troppi uomini nascono, un grande diluvio è necessario per purificare la terra (non si fa però esplicito accenno alla “sofferenza”);
e. VII.52-54(ed.Bombay)(5), XII.248-250: Bhīṣma spiegaa Yudhiṣṭhira l’origine della morte. In principio Brahmā dovette bruciare le creature moltiplicatesi in eccesso perché la terra in persona, oppressa dal loro peso, gli disse che aveva paura di affondare; in seguito il dio risolse ogni problema creando la morte, donna bellissima le cui lacrime di compassione verso gli esseri viventi generano disgrazie e malattie;
f. XI.8: Vyāsa consola Dhr̥tarāṣṭra, prostrato dalla guerra e dallo sterminio dei figli, spiegandogli che ciò avviene per una necessità superiore: la terra ha chiesto di essere alleviata dal peso degli uomini;
g. XII.202: Viṣṇu, incarnandosi in cinghiale, salva la terra oppressa dagli Asura e dai Dānava.
Dai numerosi accenni contenuti nel poema risulta che l’alleggerimento della terra non è solo motivazione contingente della guerra in atto sulla piana di Kuru: esso si è ripetuto all’inizio dei tempi, nella mitica età chiamata Kr̥ta(brano c) o quando ancora la morte non esisteva e Brahmā dovette crearla non per odio verso le creature ma per necessità di liberare il mondo (e). L’ineluttabilità della morte è argomento di consolazione per il re Anukampaka, incapace di accettare la scomparsa del figlio(e), e per Dhr̥tarāṣṭra(f), che, solo dopo aver ascoltato le sagge parole di Vyāsa, è in grado di inscrivere la propria disgrazia in un più vasto piano cosmico che il dolore gli impediva di riconoscere:
mahatā śokajālena praṇunno’ smidvijottama/ nātmānam avabudhyāmi muhyamāno muhurmuhuḥ
“Sono spinto [a parlare così] dalla grande trappola del dolore (6), o supremo fra gli esseri nati due volte! Essendo sempre confuso non percepisco me stesso!” (XI.8.46).
In alcune versioni del mito la terra manifesta la paura di “sprofondare” nelle acque oceaniche:
iyaṃ hi māṃ sadā devī bhārārtā samacodayat/ saṃhārārthaṃ mahādeva bhāreṇāpsu nimajjati//
“La dea terra, continuamente afflitta dal peso [delle creature], mi spinse, o Mahādeva, a distruggerle, poiché a causa del peso le sembrava di sprofondare nelle acque” (XII.249.4) (7);
oppure essa sprofonda e, dall’abisso oceanico, è costretta a chiedere l’aiuto di Viṣṇu, il quale, assunto l’avatāra del cinghiale (varāhāvatāra) (8), scende sul fondo dell’oceano per salvarla riportandola in superficie (9):
idaṃ dvitīyam aparaṃ viṣṇoḥ karma prakāśate/ naṣṭā vasumatī kr̥tsnā pātāle caiva majjitā/ punar uddhāritā tena vārāhenaikaśr̥ṅgiṇā/
“Anche qui si vede un altro fatto di Viṣṇu. Una volta la terra, essendo andata perduta ed essendo sprofondata nelle regioni inferiori, fu riportata a galla da lui, che aveva la forma di un cinghiale con un solo corno” (III.141. rr. 56-57) (10).
Il lettore appena esperto di cose sanscrite non potrà non individuare alcuni punti di contatto fra il nostro mito e quello, assai celebre, del diluvio (11), che proprio nel Vana Parvanconosce una delle sue versioni più antiche ed estese (quella riportata in d): come il sovrappopolamento della terra, così il diluvio è una catastrofe che sancisce ciclicamente la fine di ogni grande epoca cosmica, una sorta di gigantesca opera di pulizia necessaria alla rigenerazione dell’universo; al pari del sovrappopolamento, anche il diluvio è un evento inevitabile, privo di motivazioni etiche, pur se preceduto da segnali di decadenza e corruzione. Al termine di ogni kalpa, narra infatti il Vana Parvan, il mondo appare capovolto: i bramani trascurano gli studi, i servi studiano i Veda, i malvagi governano la terra. La popolazione cresce in misura eccessiva: le donne hanno troppi bambini e troppo precocemente. Una grande siccità inizia a pervadere la terra e, subito dopo, un diluvio della durata di dodici anni la sommerge. Un solo uomo sopravvive, Manu (il Noè indiano), che, grazie alla guida di un pesce (poi rivelatosi essere Brahmā), porta l’arca (12) sulla sommità del Himālaya.
3. Un secondo punto di contatto fra i due miti si trova attestato nelle versioni puraniche del diluvio, laddove risulta che la motivazione per cui la terra è sprofondata nelle acque non è quella del moltiplicarsi delle creature (come nel passo testé citato di Mbh III.141), bensì il diluvio stesso. Pensiamo al lungo “discorso” del Bhāgavata Purāṇa (III.13), nel quale Manu chiede a Brahma di far riemergere la terra e il sommo creatore invia il cinghiale (Viṣṇu) affinché la riporti in superficie sulla punta del suo corno. Nel Matsya Purāṇa, poi, il pesce-Viṣṇu mostra a Manu una nave destinata a ospitare e a preservare dall’inondazione le quattro specie degli esseri viventi, nati dal sudore, dall’uovo, dal germoglio e dalla placenta. Secondo la convincente interpretazione di Paolo Magnone questa nave è la terra stessa. Si dice infatti nel Bhāgavata Purāṇa che Viṣṇu, durante il diluvio, assunse la forma di pesce e salvò Manu facendolo salire su una “nave tellurica” (naur mahīmayī, I.3.15). IlViṣṇudharmottara Purāṇa, poi, narra che la terra, personificata nella dea Satī, divenne una nave e portò con sé i semi di tutte le cose, sfuggendo all’inondazione scatenata da Śiva (1.75.9-10). Giustamente, dunque, il Magnone conclude che “la nave non è un semplice manufatto umano, la nave è la terra stessa nella sua forma ‘diluviale”.
Ci chiediamo se le tradizioni epica e puranica non dipanino un intreccio già antico, che conteneva in nuce i fili dei due miti: quello della sovrappopolazione e quello del diluvio. Si pensi alla bella similitudine rigvedica che apparenta la terra a una nave carica e vacillante al soffio impetuoso dei venti, cfr.V 59.2ab:
ámād eṣām bhiyás ābhū́mir ejati naúr ná pūrṇā́ kṣarati vyáthir yatī́/
“Per l’impeto di quelli [i Marut], per la paura la terra si scuote, scivola come una nave carica che va vacillante”.
“Come una nave” è espressione destinata a ripetersi nella letteratura posteriore; cfr.Viṣṇu Purāṇa (I.4.45-46): evaṃ saṃstūyamāno ’tha paramātmā mahīdharaḥ/ ujjahāra kṣitiṃ kṣipraṃ nyastavāṃś ca mahārṇave// tasyopari samudrasya mahatī naur iva sthitā/ vitatatvāc ca dehasya na mahī yāti samplavam//
“L’essere supremo, sostenitore della terra, così lodato, la sollevò velocemente e la pose sul grande oceano; sulla cima del mare quella galleggia come una possente nave e grazie alla sua vasta superficie non sprofonda al di sotto delle acque”,
e ancora lo Skanda (II.2.3.9):
ekārṇave mahāghore naur iva kṣetram īkṣyate
“Sull’unica, formidabile onda(13) la terra appare come una nave” (14).
3.1. Nella variante del Viṣṇudharmottara Purāṇa prima citata, la dea Satī, moglie di Śiva e personificazione della terra, racchiude in sé i semi di tutte le cose. La valenza generativa implicita in questa narrazione (la terra si prepara a ridare vita, dopo il diluvio, alle creature) è certo presente anche nell’episodio del varāhāvatāra: al contatto con la zanna del cinghiale il suolo pregno d’acqua viene fecondato (15). Di nuovo, non mancano punti in comune con il mito dell’alleviamento: secondo la versione del Kālikā Purāṇa, infatti, la terra, preso l’aspetto di una leggiadra cinghialessa, amoreggiò a lungo con Viṣṇu (capp. XXX e XXXl) (16). Dall’amore nacquero tre cinghialetti, ma la terra e l’intero universo non potevano sopportare più il peso di Viṣṇu: la terra cominciò a incrinarsi nel mezzo, squassata dai colpi degli zoccoli del cinghiale. Gli dèi corsero allora a supplicare Viṣṇu di non opprimere più la sua consorte. Non il peso degli uomini, ma il peso del dio (cioè la sua energia sessuale) concorre questa volta a turbare l’equilibrio cosmico.
4. La sorprendente somiglianza fra gli scolî ad Iliadem I 5 e i passi del Mahābhārata ha sollecitato da tempo l’attenzione degli studiosi in prospettiva della ricostruzione di una cultura indoeuropea e indomediterranea. I testi greci mettono in luce somiglianze e differenze fra la tradizione greca e quella indiana. La testimonianza più antica (VII sec. a. C.) è notoriamente l’incipit dei Cipria, conservato dallo scoliasta omerico a commento di Il. I 5. Spiegando il significato dell’espressione Διὸς δ᾽ἐτελείετο βουλή “volere di Zeus si compiva” (che è preceduta dall’accenno alla fine impietosa di molti eroi sul campo di battaglia), lo scolio del Venetus A racconta che il volere di Zeus consistette nella decisione di alleviare la terra:
ἄλλοι δὲ απὸ ἱστορίας τινὸς εἶπον εἰρηκέναι τὸν Ὅμηρον· φασὶγὰρ τὴνΓῆν βαρουμένην υπὸἀνθρώπων πολυπληθείας, μηδεμιᾶς ἀνθρώπων οὔσης εὐσεβείας, αἰτῆσαι τὸν Δία κουφισθῆναι τοῦ ἄχθους· τὸνδὲΔία, πρῶτον μὲν εὐθὺς ποιῆσαι τὸνΘηβαϊκὸν πόλεμον, δι᾽οὗ πολλοὺς πάνυ ἀπώλεσεν. ὕστερον δὲ πάλιν – συμβούλωι τῶι Μώμωι χρησάμενος. ἣν Διὸς βουλὴν Ὅμηρός φησιν – ἐπειδὴ οἷός τε ἦν κεραυνοῖς ἢ κατακλυσμοῖς πάντας διαφθείραι, ὅπερ τοῦ Μώμου κωλύσαντος, ὑποθεμένου δὲ αὐτῶι γνώμας δύο, τὴνΘέτιδος θνητόγαμίαν, καὶθυγατρὸς καλὴνγένναν, ἐξ ὧν ἀμφοτέρων πόλεμος Ἕλλησί τε καὶ Βαρβάροις ἐγένετο, ἀφ᾽οὗ συνέβη κουφισθῆναι τὴνΓήν, πολλῶν ἀναιρεθέντων. ἡ δὲ ἱστορία παρὰΣτασίνωι·
ἦν ὅτε μύρια φῦλα κατὰ χθόνα πλαζόμενα᾽ αἰεὶ
<ἀνθρώπων ἐπίεζε> βαρυστέρνου πλάτος αἴης,
Ζεὺς δὲ ἰδὼν ἐλέησε καὶ ἐν πυκιναῖς πραπίδεσσι
κουφίσαι ἀνθρώπων παμβώτορα σύνθετο γαῖαν,
ῥιπίσσας πολέμου μεγάλην ἔριν Ἰλιακοῖο,
ὄφρα κενώσειεν θανάτωι βάρος. οἱ δ᾽ἐνὶ Τροίηι
ἡρωες κτείνοντο, Διὸς δ᾽ἐτελείετο βουλή
“Altri sostengono che Omero abbia detto (ciò) seguendo un qualche racconto: dicono infatti che la terra, essendo appesantita dalla moltitudine degli uomini e non albergando fra gli uomini alcun sentimento religioso, chiese a Zeus di essere alleggerita dal peso: Zeus subito scatenò la guerra di Tebe, per mezzo della quale fece morire molti. Poi ancora, usando Momo come consigliere (cosa che Omero chiama “volere di Zeus”), poteva distruggere tutti con fulmini o con inondazioni. Ma Momo glielo impedì e gli suggerì due soluzioni: le nozze di Teti con un mortale e la bella progenie della figlia [Elena]; e da entrambe le cose scaturì guerra per i Greci e per i barbari e da ciò accadde che la terra fosse alleggerita a causa dell’uccisione di molti uomini. La storia si trova presso Stasino:
“Quando le moltitudini degli uomini che a migliaia erravano sempre sulla terra opprimevano la superficie della terra dal vasto petto, Zeus, vedendola, ne ebbe pietà e nella sua accorta mente stabilì di alleggerire la terra nutrice di tutti gli uomini fomentando la grande contesa della guerra di Ilio per alleggerire il peso con la morte. E gli eroi che erano a Troia venivano uccisi: volere di Zeus si compiva”.
Tra le somiglianze, veramente notevoli, del mito indiano con quello greco va rimarcato il fatto che in entrambe le tradizioni la terra, divinità raramente protagonista di iniziative personali, si reca al cospetto del dio (così nello scoliasta ma non nel brano di Stasino, in cui è Zeus a “vedere” la sofferenza della terra e a intervenire), che è preso da compassione per lei. Tuttavia il racconto greco sembra dare anche un valore etico alle motivazioni del conflitto: fra gli uomini è venuta a mancare la pietas religiosa, e per questo motivo essi meritano di essere puniti. L’intervento di Zeus non è diretto, bensì mediato da due avvenimenti: le nozze di Teti e la nascita di Elena. Le nozze di Teti con un mortale generano Achille, l’eroe che, con perfetta coerenza, chiama se stesso ἐτώσιον ἄχθος ἀρούρης (XVIII 104): nato per alleviare il peso della terra, ne è egli stesso un vano peso. Nella personale amarezza di Achille si riflette la condizione generale dell’uomo, destinato a gravare su colei che lo ospita e gli permette di vivere. Ciò è particolarmente evidente nell’Oreste euripideo, la più ricca di suggestioni tra le rievocazioni successive del mito, cfr. i vv. 1641-1642 (Apollo motiva la guerra di Troia):
θανάτους τ᾽ἔθηκαν, ὡς ἀπαντλοῖεν χθονὸς
ὕβρισμα θνητῶν ἀφθόνου πληρώματος.
“[Gli dèi] vollero le morti per eliminare dalla terra l’oltraggio della quantità smisurata dei mortali”.
La scelta del vocabolo ὕβρισμα “oltraggio” si mostra in tutta la sua pregnanza se ricordiamo che ὕβρισμα e βρίθω “opprimere” sono probabilmente corradicali, e che dunque è sottesa al passo una volontà etimologica: il “pesare” degli uomini si è trasformato in oltraggio, il loro sovraffollamento offende la terra. Ma ancora più sorprendente e certo allettante per un confronto è il vocabolo con il quale il poeta esprime l’azione dell’ “alleggerimento”: non il più usuale κουφίζω (17), bensì ἀπαντλέω. Si tratta di un verbo che contiene il nome della “sentina”, ἄντλος. Ci viene dunque implicitamente suggerito che l’azione di alleviare la terra è pari a quella di svuotare una nave dall’acqua di sentina: la nave (troppo) carica del R̥gveda, la nave tellurica dei Purāṇa. L’uomo, oltraggio e lordura della terra, deve essere eliminato da colei che minaccia di far affondare.
5. Se appena allarghiamo le strette maglie dei tratti su cui si basa la concordanza greco-indiana, possiamo più latamente parlare di concordanza greco-aria, in quanto neppure all’Avesta risulta estraneo il tema della sovrappopolazione. Il secondo Fargard delVīdēvdād, interamente dedicato alla mitologia di Yima (l’uomo primordiale per molti aspetti sovrapponibile a Manu), mostra il profondo interesse che le popolazioni iraniche riservavano alla carenza di spazi per gli uomini e il bestiame, cfr. II,8-11 (18):
“Sotto il regno di Yima passarono trecento inverni, e la terra fu piena di greggi, mandrie, uomini, cani, uccelli e fuochi fiammeggianti e non c’era più spazio per le greggi, le mandrie e gli uomini. Allora io [Zarathustra] avvertii il gentile Yima dicendo: ‘O gentile Yima, la terra si è riempita di greggi, mandrie, uomini, cani, uccelli e fuochi fiammeggianti e non c’è più spazio per greggi, mandrie e uomini’. Allora Yima avanzò nella luce lungo il sentiero che porta a mezzogiorno e colpì la terra con il sigillo d’oro e la trapassò con il pugnale (19) dicendo: ‘Osanta Armaiti, apriti gentilmente e distenditi per portare greggi, mandrie e uomini!’. E Yima rese la terra più larga di un terzo ed ecco vennero greggi e mandrie di uomini a suo desiderio e piacere a causa della prolificità degli esseri”.
Ancora due volte la terra si popola in eccesso e ancora due volte Yima ripete la formula e il rito che gli permettono di estenderla (strr. 12-19).
L’aumento della popolazione, che nei testi indiani appare come ciclica e perniciosa necessità, è qui invece realizzato per volere divino. È Ahura Mazda in persona, infatti, a desiderare una terra brulicante di esseri. Sempre più numerosi, uomini, bestiame, uccelli e fuochi trovano posto grazie a un rimedio magico e non cruento alla penuria di spazio. La terra non si reca, oppressa, davanti agli dei; è Yima, anzi, a pregarla gentilmente di aprirsi e distendersi. Ora, sebbene nella lingua sanscrita la terra sia etimologicamente l’“estesa”(pr̥thivī), l’atto della sua estensione è soprattutto un atto creativo che non appare specificamente finalizzato allo scopo di procurare nuovo spazio agli esseri. In principio la terra venne srotolata a mo’ di tappeto e dunque, ipso facto, creata (20), ma non ulteriormente estesa con il crescere dei suoi abitanti. Neppure il mito di Emu, il cinghiale che espanse la terra portandola dalla dimensione di una spanna a quella di superficie abitabile (21), appare finalizzato a un’eventuale riduzione non cruenta della sovrappopolazione. Ciò va senza dubbio ricollegato al diverso atteggiamento della divinità rispetto al problema: mentre gli dèi indiani (e greci) percepiscono il moltiplicarsi delle creature come una minaccia all’equilibrio ecologico del pianeta, nel Vīdēvdād è Ahura Mazda in persona a esortare Yima al popolamento della terra e a fornirgli di conseguenza i mezzi per espanderla in modo pacifico. È possibile che anche la cultura indiana abbia conosciuto una simile strategia di risoluzione del problema? Ci sembra di poter dare una risposta positiva, cogliendo una pallida e isolata eco del mito avestico in RV I 52.11:
yád ín nv ìndra pr̥thivī́ dáśabhujir áhāni víśvā tatánanta kr̥ṣṭáyaḥ/ átrā́ha te maghavan víśrutaṃ sáho dyā́m ánu śávasā barháṇā bhuvat//
“Quando, o lndra, la terra fu dieci volte più grande e ogni giorno i popoli si estesero, allora davvero fu nota la tua forza, o generoso, pari al cielo per energia e potere”.
Già Karl F. Geldner, nel suo commento al R̥gveda, intendeva che Indra aveva associato l’espandersi delle stirpi arie a un’espansione della superficie terrestre e suggeriva in nota al passo un possibile raffronto con il capitolo secondo del Vīdēvdād avestico. In questo stesso capitolo è peraltro contenuta, immediatamente di seguito all’episodio del sovrappopolamento, anche la versione iranica del diluvio, che non viene però collegata da alcuna relazione di causa-effetto al mito precedente. Neppure si fa cenno a motivazioni etiche o a punizioni divine che scatenino la furia distruttrice delle acque: come nella cultura indiana, il diluvio è evento che non si assoggetta ad alcuna volontà. Ad Ahura Mazda spetta solo il compito di avvertire Yima affinché si costruisca un vara (“recinto”) per mettervi al sicuro i semi dei mortali (22). Più simile a quella biblica è invece l’attitudine di Ahura Mazda verso il popolamento del globo. Il dio degli Ebrei ordina infatti alle creature di “essere feconde, moltiplicarsi e popolare la terra” (Gen. I,22 e 28), ma il commento delMidrash al passo non manca di registrare la reazione offesa della terra: essa si reca dal creatore lamentandosi per il troppo peso di cui, inevitabilmente, si troverà caricata. La Bibbia contiene anche un riferimento alla necessità della morte come rinnovamento periodico del mondo: in Gen. VI,3 Yahweh fissa una durata massima alla vita dell’uomo, che sta velocemente popolando la terra. Subito dopo egli constata però che la malvagità dell’uomo è grande e i suoi pensieri sono volti al male. Segue dunque il diluvio, causato da quella mancanza di eusebeia (si può qui usare a mo’ di glossa lo scolio greco) che forse è dovuta all’eccessivo moltiplicarsi delle creature.
6. Che interpretazione dare alle concordanze greco-indiane che, pur non essendo sostenute da una doppia correlazione sul piano del contenuto e dell’espressione, mostrano contenuti non solo sorprendentemente simili, ma anche strutturati in modo tale da far ritenere insoddisfacente una spiegazione in termini di “universale tipologico”? Il concetto del “pesare” è ben radicato nella cultura greca e indiana, ma non è affatto esclusivo di queste o dei soli popoli indoeuropei. Uno sguardo che spazia dalle credenze eschimesi a quelle amerindie, dai Semiti ai Cinesi, rende evidente come certi temi appartengano, senza confini, allo spirito umano (23). La soluzione “genealogica” è quella preferita dagli indoeuropeisti, ma non si può escludere, per esempio, che il mito sia un’emergenza, in aree distanti, di un comune sostrato detto “indomediterraneo” (giusta l’ipotesi di Vittore Pisani) (24) frutto di una vivace rete di scambi commerciali (e dunque anche linguistici e culturali) tra popolazioni anteriori all’avvento nelle sedi storiche di Semiti e Indoeuropei (25), oppure che entrambi i popoli abbiano attinto a una fonte comune. Un approfondimento dei miti sumerici e babilonesi da parte di specialisti in materia porterebbe probabilmente a interessanti risultati. Per esempio il mito accadico di Atramḫasīs (l’uomo primordiale salvato dal diluvio), di epoca paleo-babilonese (1950-1530 ca. a. C.), è per buona parte incentrato sul problema della sovrappopolazione e contiene un esplicito riferimento alle lamentele della terra (26). È anche possibile (ma meno probabile) teorizzare un prestito diretto, la cui direzione non è dato precisare, tra India e Grecia: tale prestito sarà stato assunto quando ancora poteva essere inglobato nella tradizione epica del popolo che lo riceveva, non necessariamente, dunque, in epoca molto antica. Sull’antichità del motivo in se stesso non sembra però sussistere dubbio alcuno.
Note:
1 – Cfr. R. Köhler, Rheinisches Museum NF 13 (1858), pp. 316-317; J. Hertel, Die Himmelstore im Veda und im Awesta, Leipzig 1924; V. Pisani, “L’unità culturale indo-mediterranea anteriore all’avvento di semiti e indeuropei”, in Scritti in onore di A. Trombetti, Milano 1936, pp. 199-213, rist. in Lingue e culture, Brescia 1969, pp. 53-70, in part. pp. 64-65; Id., “lndisch-griechische Beziehungen aus dem Mahābhārata”, Zeitschrift für die deutsche morgenländische Gesellschaft 103 (1953), pp. 126-139; W. Kullmann, “Ein vorhomerisches Motiv im Iliasproömium”, Philologus 99 (1955), pp. 167-192; H. Schwarzbaum, “Tue Overcrowded Earth”, Numen 4 (1957), pp. 59-71; P. Horsch, Die vedische Gāthā- und die ŚlokaLiteratur, Bem 1966, p. 264; G. Dumézil, Mito e epopea. La terra alleviata, Torino 1992 (Paris 1968), pp. 94-95 e 154; M. Durante, Sulla preistoria della tradizione poetica greca, Roma 1976, vol. Il, p. 61, p. 29.
2 Cfr. R. Ronzitti, “Osservazioni sui nomi della ‘terra’ nel R̥gveda e nel- l’Atharvaveda”, Studi e Saggi Linguistici 35 (1995), pp. 45-115 e Ch. Orlandi, “La terra (RV. V,84 e AV. XII,1)”, in Scríbthair a ainm n-ogaim. Scritti in memoria di Enrico Campanile, a cura di R. Ambrosini et al., Pisa 1997, pp. 717-744
3 – I passi, salvo dove diversamente specificato, sono citati secondo l’edizione critica di Poona;
4 – Il brano, di notevole interesse, è espunto dall’edizione di Poona e riportato in appendice;
5 – Il brano, identico a XII.248-250, è espunto dall’edizione critica di Poona;
6 – Letteralmente “rete del dolore”: la polivalenza jālā- “rete” e “illusione” è qui certo utilizzata per suggerire al lettore che il dolore provato dal re non ha fondamento ma è solo una deformazione dovuta alla visione antropocentrica della morte;
7 – A parlare è Prajāpati, il sommo creatore;
8 – Su cui cfr. J. Gonda, Aspects of Early Visnuism, Utrecht 1969, pp. 129-145;
9 – Cfr. P. Magnone, “Avatāra. La discesa del signore”, Ab-stracta32 (dic. 1988), pp. 22-29. L’avatāra libera la terra dalla sua zavorra e ipso facto dall’adharma,, simboleggiato dal peso eccessivo degli esseri ;
10 – Un episodio analogo è narrato in XII,209: Viṣṇu si incarna nel cinghiale e salva laterra scendendo, parrebbe, nel sot-tosuolo infestato dalle creature maligne. Il diosconfigge i nemici con la forza dei suoi grugniti paralizzanti (cfr. il passo g);
11 – Si veda almeno P. Magnone, “Matsyāvatāra. Scenari indiani del diluvio”, Atti del Nono Convegno Nazionale di Studi Sanscriti (Genova, 23-24 ottobre 1997). Editi da Oscar Botto, a cura di Saverio Sani, Pisa, 1999, pp. 125-136;
12 – La nave che conduce Manu alla salvezza è già menzionata nella più antica versione a noi nota del diluvio indiano, Śatapatha BrāhmaṇaI.8.I.1-10;
13 – È l’onda del mare primordiale, che simboleggia l’uno indistinto nel cui seno tutte le forme create si sono nuovamente disciolte (cfr. Magnone, Matsyāvatāra, cit.). Cfr. anche la nota seguente;
14 – A questi passi bisogna aggiungere AV I.XII.59: yā́m anvaícchad dhavíṣā viśvākarmanāntár arṇavé rájasi práviṣṭām/ bhujiṣyàm pā́traṃ níhitaṃ gúhā yád āvír bhóge abhavan mātr̥mádbhyaḥ// “Visvakarman ricercò con l’oblazione colei che era entrata nello spazio fluttuante quale coppa destinata a nutrirci; nascosta in un luogo segreto divenne visibile per diletto a coloro che sono provvisti di madri”. Alla terra che è entrata nello spazio “fluttuante” (ancora l’arṇava- di Viṣṇu e Skanda Purāṇa) come “coppa (lignea) usata per bere” (tale è il significato di pā́tra-) soggiace forse l’immagine della nave, contenitore concavo che galleggia sull’acqua;
15 – Così esplicitamente nelle versioni del Viṣṇu (V.29.23-24) e del Kālikā Purāṇa (XXIX);
16 – Cfr. W. O’Flaherty (a cura di), Miti dell’induismo, Milano 1997 [1975], pp. 200-209 e 347;
17 – Così in Hel. 36-41 (analoga rievocazione del mito);
18 – Il testo originale si legge in H. Reichelt, Avesta Reader; Berlin 1968 [Strassburg 1911], pp. 38-39;
19 – I due oggetti che erano stati consegnati a Yima da Ahu-ra Mazda quali simboli di regalità;
20 – Cfr. RV I 65.1; 103.2; II 15.2; V 87.7; VI 72.2; VIII 89.5; X 82.1; AV IV 26.1; XII 1.2;
21 – Cfr. Taittirīya Saṃhitā VII,l,5,1. Il cinghiale venne in seguito assimilato al varāhāvatāra di Viṣṇu, ma nei testi precedenti ai Purāṇa ha una sua autonomia (cfr. Gonda, op. cit., pp. 134-139);
22 – Si tratta in ogni caso di un recinto “terroso”, minuziosamente misurato e delimitato, che rappresenta una porzione del suolo destinata a scampare al diluvio;
23 – Cfr. Schwarzbaum, art. cit., passim.;
24 – Pisani, L’unità, cit., ritiene questo mito una delle tante isoglosse culturali indomediterranee;
25 – Sul concetto di “indomediterraneo” e la sua evoluzione a partire dallo scritto pisaniano del 1936 cfr. D. Silvestri, La nozione di indomediterraneo in linguistica storica, Napoli 1974;
26 – 6 Cfr. i vv. 354-359 del testo nella traduzione-interpretazione di W. von Soden in AA. VV., Texte aus der Umwelt des Alten Testaments, Band III, Lieferung 4, Mythen und Epen II, Gütersloh 1994, p. 627.