Senza un aggiornamento del linguaggio, tendenzialmente, tutto
rimarrà così com’è.
La tensione a voler cambiare il registro della cultura, affinché
l’assolutismo materialista e razionalista smorzi il suo potere per
lasciare spazio a un’educazione capace di formare più persone
compiute, cioè creative, e meno individui dipendenti, cioè
replicanti, passa anche sui cavalcavia emozionali del linguaggio.
Persona compiuta, sta per emancipata dal potere dell’io,
dalle ideologie, dall’individualismo, dalle consuetudini, cioè in
grado di fare riferimento al proprio sé per distinguere il bene e il
male, nelle piccole e grandi circostanze della vita. Ciò implica
l’accettazione della realtà, l’astensione dall’interpretarla,
quale enorme riduzione della dispersione energetico-creativa di cui
possiamo disporre quando disinquinati dall’atteggiamento
egocentrico e dai saperi cognitivi. È anche l’assunzione di
responsabilità di tutto, a sua volta base e centro di benessere
materiale e spirituale, cioè di miglior salute fisica e serenità.
Prodromo necessario per la realizzazione di comunità organiche, non
affette da patologie cancerogene, consapevole che il bene comune
sgorga dall’individuo, che la tolleranza nei confronti del prossimo
non sta in una legge ma in un sentimento, in una visione del mondo
destinata a creare bellezza, cioè nell’amore. Uomini compiuti, sta
anche per persone all’altezza di riconoscere l’origine delle
proprie emozioni e dei propri sentimenti, tanto nella pena, quanto
nella gioia. Uomini che hanno incarnato – non solo capito, saputo o
legiferato – e che quindi possono esprimere nel loro vivere, che le
loro emozioni e i loro sentimenti non costituiscono diritto alcuno
sull’altro. Cosa che non vuol dire non possano esserci più
soprusi, ma che di questi l’autore se ne può assumere serenamente
la responsabilità.
Il meccanicismo, figlio del materialismo e del
razionalismo ha impregnato di sé la cultura in cui siamo
immersi dalla nascita. Essa non è funesta di per sé, anzi, ha reso
e continua a rendere una molteplicità di servizi di cui tutti
godono. Tutto il mondo fisico, per essere organizzato, ne richiede i
servigi. Il problema insorge – ed è insorto – quando la sua
longa manus si è estesa alla dimensione umanistico-relazionale. Non
a caso la psicoanalisi degli albori ne è campione esemplare. Sta di
fatto che tutti ne abbiamo subito il dominio a partire dai pensieri
che formuliamo anche, appunto, in circostanze relazionali umane, dove
il principio causa-effetto, proprio del meccanicismo, quando è
inconsapevolmente affermato, fa più danni che bene. L’ubriacatura
ha comportato che è ordinario per chiunque adottare un linguaggio
che ne esprime l’immanenza, fino al punto di sentir dire che la
scienza – fortificazione intorno al meccanicismo – ha
dimostrato che il cane ha un olfatto più raffinato di quello umano;
che riteniamo che il linguaggio razionalmente affermato, contenga
sempre comunicazione; che la meritocrazia sia democratica; che non
esiste o non è vero quanto non può essere dimostrato; che il
criterio di valutazione debba essere uno per tutti.
Da queste considerazioni, penso possa emergere anche il potere del
linguaggio e della parola. Del resto i miracoli avvengono attraverso
le parole. Esse creano in chi crede e accredita la fonte. Sono
innocue e vuote nel miscredente. E altrettanto fanno per gli oracoli,
in cui, sempre ad accredito dato ed esigenza personale, non sono che
catalizzatori di realtà, alla stregua di un campo quantico che
diviene una cosa o un’altra in funzione
dell’interlocutore/osservatore. Mentre le parole hanno
potere oracolare, le immagini sono un modello. Hollywood lo sa,
e cosi la lobby delle armi, del tabacco prima, degli alcolici ancora.
È un potere che non agisce intellettualmente su noi, ma
emozionalmente. E, come sappiamo, dentro un’emozione, si fa quello
che dice lei. Non si può giocare la carta del nuovo paradigma
inconsapevoli della dimensione emozionale, energetico-magnetica e
alchemico-quantica del linguaggio. Chiunque, nella propria biografia,
può trovare più momenti in cui ha cambiato il registro personale
delle cose. In ognuno di quei frangenti di scoperta c’erano di
mezzo parole che ci hanno interrotto uno stato, che ci hanno infranto
l’emozione in cui eravamo incapsulati, creando intorno a noi una
nuova navicella entro la quale vagolare nell’oceano infinito del
mondo.
Se così è, diviene conseguente condividere che per cambiare il
mondo è necessario cambiare il linguaggio, il verbo, il soffio
vitale.
Tutto ciò, significa che ogni aspirante rivoluzionario che non vede
l’ora di immolarsi sull’altare del cosiddetto nuovo paradigma,
dovrebbe, prioritariamente a tutta la sua probabile erudizione a
sostegno del nobile intento, prendere coscienza di quanto il
linguaggio sia una specie di laterizio con il quale costruiamo il
mondo. Non avere consapevolezza del dominio culturale del
meccanicismo, non riconoscerne la matrice nel linguaggio
logico-razionalista, fiore del principio del causa-effetto, quale
sola spiegazione della realtà, avrebbe una sola conseguenza, quella
di perpetuare, in forma nuova, quanto voleva superare.
I nuovi paladini, come tutte le rivoluzioni ci dimostrano,
realizzeranno la loro ideologia e replicheranno quanto ripugnavano.
Così accadrebbe anche in contesto evolutivo, quello tendenzialmente
opportuno per generare società composte da uomini compiuti,
consapevoli di sé, capaci di assumersi la responsabilità di tutto.
Da avanguardia, diverrebbero bigotti della propria ideologia e
vanità, incapaci di maieutica nei confronti dei miscredenti radicali
materialisti, ma pronti a mettere in campo la garrota,
autoreferenzialmente legalizzata, per ogni non convertito al nuovo
paradigma.
Senza un’emancipazione dal linguaggio a sfondo meccanicista, che
sia più assertivo, non più proiettivo, giudicativo, separatorio,
misurativo, antropocentrico, non definitivo, in quando la realtà non
è oggettiva in campo aperto relazionale, ne carico di pretese di
comunicazione e tronfio della propria logica stringente, nonché
predisposto a rimodulare se stesso in funzione della risposta
che ottiene, nessun cambiamento di paradigma potrà tenere fede alle
proprie nobili intenzioni. Un linguaggio che, in ambito
relazionale-umanistico, non impieghi – e se lo fa, lo faccia
consapevolmente – formule deterministe e meccaniciste, che invece
esprima tendenza e contenga la parzialità del proprio punto di
vista, piuttosto che certezza e assoluti.
Per un aggiornamento del linguaggio è necessario vedere dove si
annida il determinismo ordinariamente e inconsapevolmente impiegato,
né mai messo in discussione, la concezione meccanicistica dell’altro
e della realtà, la convinzione di comunicazione nel linguaggio
logico-razionale, valido solo in ambito chiuso, cioè in quelle
circostanze tecnico-specialistico- amministrative dove tutti i
partecipanti allo scambio sanno tutto, sono pari grado o di pari
competenza, esperienza ed erudizione. Un linguaggio perciò, che
esprima la consapevolezza che capire non conta nulla se non per un
voto in pagella, che ricreare è necessario, che l’altro è
tendenzialmente sempre in un universo emozionale differente dal
nostro, che senza realizzare nei confronti del prossimo il rispetto e
la dignità che chiediamo per noi, nessuno nuovo paradigma può
compiersi.
Il linguaggio è il medium della comunicazione. Se esso si esprime a
mezzo di modi meccanicistici, come se il prossimo fosse l’elemento
di un meccanismo o un oggetto che ci ascolta, subliminalmente passerà
la comunicazione che quel modo di impiegare le parole, sia il mondo
da imitare, da replicare.
Per alcuni si tratta di banalità note e stranote. In particolare per
i potentati del mondo che attraverso l’introduzione nel linguaggio
delle loro emittenti e dei loro politicanti, di parole e concetti ex
novo, fanno esistere quanto prima non c’era. Così oggi c’è
realmente un popolo che si crede risvegliato e un altro che pensa
serva la guerra per ottenere la pace e che pensa si possa avere un
centro d’equilibrio senza identità.
Lorenzo Merlo